la corriera per roma
La corriera per Roma, che arriva nella capitale toccando tutti i paesi della costa prima di raggiungere Arquata e poi perdersi tra le montagne, ai tempi dei miei primi viaggi non era Gran Turismo come adesso a due piani, e la velocità era ridotta. Quando l’autista scalava le marce, o accelerava, lo avvertivi allo stomaco. Allora la corriera era più “fisica”, più spartana. In genere durante il viaggio c’era sempre qualcuno che si sentiva male, il più delle volte si trattava di cefalee o dolori di stomaco a tormentare certi passeggeri. Il conducente accostava da qualche parte sulla Salaria, in una strada che costeggiava la campagna, e tutti stavano per qualche istante col fiato sospeso in attesa che il malcapitato vomitasse. Il bambino, o la persona anziana, tornava sempre a bordo con la faccia sbattuta e i capelli madidi di sudore. L’autista lavorava di sterzo, aveva gli occhiali da sole stretti alle tempie e il pacchetto morbido delle sigarette ben conservato nel taschino della camicia. In genere era anche un uomo cordiale, abituato a parlare con i passeggeri, di cui sapeva tutto. Di alcuni conosceva i malanni, o le professioni, sapeva perfettamente come comunicare con loro attraverso poche battute simpatiche. Conosceva le abitudini, gli orari, i luoghi dove sarebbero andati.
Una volta, durante un viaggio delle cinque, mi sono ripromesso di osservare il paesaggio. E ho cominciato ad appuntare su un taccuino le poche cose che trovavo necessarie. La scrittura d’osservazione la trovo utilissima. Per il solo fatto di dover scrivere riesci a osservare e accorgerti di cose che altrimenti non avresti mai notato.
Superata Porto San Giorgio la corriera correva tranquilla lungo la statale adriatica. Andava avanti piano, sembrava assonnata come me, procedeva lenta.
Da quelle parti si cominciano a vedere i camping e la striscia delle rotaie a pochi metri dal mare, che sembra sospesa sull’acqua, e poi gli scogli in lontananza come sculture informi.
Sull’altro lato le sopraelevate dell’autostrada dove sfrecciano sempre le auto a velocità diverse, e sembrano rincorrersi frenetiche come piccole formiche sulla sabbia.
Sto seduto al mio posto, rigorosamente sul sedile di sinistra, quello vicino al finestrino, e prendo appunti. Una signora mi guarda piena di sospetto. E che cavolo, vorrei dirle, voi potete chiacchierare a voce alta, sproloquiare in quei telefoni stronzi, mangiarvi mille caramelle, e io non posso scrivere?
Appena partito stento a trovare una posizione che mi piace. Mi giro e mi rigiro più volte, non trovo tregua in quel sedile rigido. Poi inclino la spalliera, slaccio le scarpe. Dopo va sicuramente meglio.
Davanti a me due ragazzi si sono già addormentati, uno addosso all’altro, spalla contro spalla, non li disturberebbe nemmeno il rombo dei motori di un jumbo jet. Loro tanto dormirebbero comunque. Li invidio.
Infatti non sono riuscito ad assopirmi mai neanche per brevi momenti. Non mi sono stati mai d’aiuto neanche gli occhiali da sole, neanche quelli con le lenti scure che dovrebbero fare miracoli in certe occasioni.
Le persone dormono nelle situazioni più strane. A volte, stanche di discorrere, ti dicono: “Provo a chiudere gli occhi”. Poi ti accorgi che continuano a girarsi su se stessi, e alla fine, sconfitti, riprendono in mano il quotidiano.
Certi dormono tenendo inconsapevolmente le gambe aperte, la testa reclinata, la mano che sembra sostenerla, sotto il mento. Però dormono, adesso, dormono davvero. C’è uno strano silenzio al piano di sopra e forse solo la mia voce che conversa rompe l’aria.
Non come quella volta che lassù ero il solo passeggero e sembravo stare sopra una corriera fantasma che correva per trasportare cinque o sei persone, tra le quali, strana coincidenza, due vedove che raggiungevano le figlie, entrambe sposate a Roma.
Mentre i due ragazzi continuano a dormire, e la corriera prende già un suo ritmo, vedo il fiume Aso in secca e il letto arido e sabbioso con delle piccole pozze d’acqua e ai lati i canneti... all’improvviso un treno locale ci viene incontro nel senso contrario di marcia, è una vera e propria apparizione in quest’ora incerta del primo mattino col cielo dai colori tenui. Appena superata la linea dell’orizzonte, il suo muso sembra una faccia allegra che sorride.
Un indiano che ha la testa fasciata da un turbante blu, una bella barba folta e lunga, dorme anche lui beatamente, ed è un piacere starlo a guardare. Ha la bocca aperta, i denti luccicanti e invidiabili, chissà cosa sogna e in quale lingua sogna in questa strana ora del mattino.
Siamo sulla statale adriatica, questa striscia d’asfalto che insegue la costa, una linea immaginaria di piccole località che hanno in comune le solitarie e desolate serate invernali e le affollate, intense giornate estive, piene di sudori e di bagni, di continui ritorni dall’acqua, con le pinne e gli occhiali, qualcosa che è simile da Rimini a Pescara.
D’inverno è un paesaggio triste, desolato, fatto di barche armeggiate e di abbandoni. Qualche raro camminatore si spinge lunga una linea di sabbia e sassi.
Non particolarmente bello questo mare che vedo, invece. Ha un colore sbiadito, poco azzurro. Dicono anche parecchio inquinato. Con gli scoli delle fogne a cielo aperto che gridano vendetta. Se l’Italia fosse un paese serio, penso, il divieto di balneazione riguarderebbe metà della costa. Ma siamo italiani, in questo strano paese anche le cose impossibili possono diventare normali. Da noi si possono aggirare le leggi, evitare i divieti, comprare giudici e interi tribunali.
Più avanti, verso Cupra, tra il mare e la strada, ci sono già campi coltivati più ampi e vivai dove piantagioni rigogliose sfidano il sole o le intemperie, ma anche camping e vecchie case in stile liberty rivestite di mattoncini rossi che convivono con nuovi edifici venuti su negli anni cinquanta e sessanta, brutti da morire.
Sono come insediamenti stratificati di diverse civiltà. Comunque è tutto più curato. Penso a tutte le devastazioni, alle cose più assurde che l’edilizia può aver fatto in certi periodi. Chissà quante mazzette, quanti interessi privati, quanti assurdi piani regolatori sono stati scritti e votati da italiani, da marchigiani come me, quante spider, quanti conti svizzeri, quanti viaggi privilegiati, quanti collier, quanta stupida opulenza in cambio di un obbrobrio. Quanti luridi assassini dell’Italia, quanti amministratori, quanti ingegneri e geometri corrotti e severi impiegati dello Stato hanno permesso questi scempi?
Sogno le gru che rimuovono, portano via il brutto che ci circonda, forse un giorno davvero si farà una bonifica.
A Grottammare comincia a prevalere la presenza delle palme, stanno nei giardini curati delle case o lungo la linea di costa di lato alla ferrovia, spargono le fronde dure e acuminate e danno un senso di pace.
La corriera, superate San Benedetto del Tronto e Porto d’Ascoli, entra finalmente in autostrada. Le collinette che tengono strette le piccole città sembrano come spalti in lontananza. C’è ancora un paesaggio collinare. Alberi, vecchie case coloniche, ma la campagna è già più piatta.
A Mosciano Sant’Angelo si esce e si prende la statale. È una zona industriale piuttosto squallida. Vedo l’osteria “La vecchia stazione”, da quello che riesco a scorgere stanno costruendo un locale (forse un pub, forse una birreria, forse un ristorante) utilizzando vecchi vagoni di treni. Perché la strada dove transitiamo costeggia l’unica rotaia della ferrovia su cui i vecchi convogli locali scivolano lentamente, a bassissime velocità.
È a Bellante Stazione che si scorgono, lontanissime, le cime del Gran Sasso. Si taglia facendo una strada interna.
Adesso la catena montuosa è proprio davanti ai miei occhi, si estende tutta sopra un tratto collinare. È grigia, ombrosa, ancora poco nitida anche se è una bella giornata, quasi in parte oscurata dalla lontananza che non permette ai miei occhi di mettere a fuoco come vorrei. Una presenza che inquieta, sopra le verdi alture dove stanno abbarbicati piccoli paesi.
È strano il paesaggio. Lo avverti impercettibilmente, senza grandi e apparenti cambiamenti. La mutazione è lenta mentre la corriera viaggia, solo che a un certo punto ti ritrovi in un pezzo di mondo diverso. Cambia il clima, mutano le tinte dell’esterno, il cielo sembra prendersi meno spazio e avere sfumature di colori diverse.
Le vette del Gran Sasso adesso sembrano più lontane, vecchi ruderi le nascondono alla vista. Improvvisamente scompaiono, non si vedono più. Sparite del tutto. E poi, basta spostarsi di un paio di chilometri, ed ecco che la montagna riappare, come se da lontano ci spiasse come un grande totem.
La collina abruzzese è più alta, meno morbida di quella marchigiana. Anche il verde della vegetazione è più intenso, più scuro. Più ombra che luce.
Un tunnel nasconde tutto. Siamo al buio. Le piccole lucine dei neon sembrano dileguare, corrono via come lampi isterici.
Penso che un giorno forse tutto questo paesaggio non ci sarà più. Resteranno le crepe della terra, come i cretti di Burri, e le case.
Adesso cerco di immaginare un mondo senza esseri umani. Devastato, come dopo un’ecatombe. Pieno di escrementi e di rovine, infestato da un potente inquinamento atmosferico. Solo gli animali, quelli più forti, quelli più cattivi, che si cercano per sbranarsi. Sarà davvero così un giorno?
Usciti dal tunnel il Gran Sasso ci accerchia. Vedo proprio le increspature e le sinuosità delle rocce, poi improvvisamente sparisce di nuovo. Sembra che il paesaggio, la strada, si stiano prendendo gioco di noi passeggeri.
Ma sono convinto che molti non ci hanno neanche fatto caso. Così come non me n’ero mai accorto io, che pure ne ho fatti di viaggi in corriera. Solo che adesso sono quasi condannato ad osservare.
La montagna è veramente qui davanti, la scorgo dal finestrino e mi accorgo che tutti stanno guardando da quella parte perché è irresistibilmente bella. Ti verrebbe quasi voglia di toccare la cima come fosse la testa di un grande animale.
Siamo in località San Gabriele di Colledara, la corriera prosegue in direzione dell’Aquila. Ci sono stato una volta, probabilmente in gita scolastica. Comunque l’effige del santo ce l’ho ancora stampata in mente. Ha l’aria da ragazzo buono e di semplice predicatore, un saio scuro di passionista, quasi si ritrae, guarda in terra, tiene le mani conserte.
Più avanti attraversiamo un ponte sopraelevato, sotto la montagna, un lungo serpente d’asfalto. Infiliamo una serie di tunnel. Intorno ancora piccoli paesi di montagna, vedo il fumo che anche qui esce dai comignoli e imbianca il cielo.
Dopo inizia forse il tratto più bello, quello più panoramico. Stiamo salendo, la corriera rallenta l’andatura, così si può osservare la vallata. È come se tutto fosse diventato più lento perché siamo in salita. Da qui si va a Campo Felice, dove d’inverno nevica sempre.
Poi ancora tunnel dentro la montagna. Vicovaro Mandela è in alto, intorno solo vegetazione. Una fitta boscaglia e solo rarissime case nascoste.
A Castel Madama Roma la senti davvero vicinissima. Ne percepisci quasi la presenza. È come se, una volta usciti dai tortuosi percorsi della montagna, le strade silenziose e poco trafficate, si tornasse finalmente a viaggiare alla luce del sole.
Il paese è in alto, sulla mia destra. Si vedono delle vecchie ville circondate da sempreverdi e salici piangenti, le edere che trovi sempre. È l’ora del caffè. Il secondo autista a bordo, e cioè quello che ha già guidato e poi ha ceduto il volante a un collega, arriva di sopra con in mano un vassoietto con dei caffè fumanti, chiedendo a noi passeggeri se vogliamo per caso berne uno dopo il lungo sonno.
Sì, perché al pianoterra, proprio vicino all’entrata, c’è un mobiletto con la macchina per l’espresso, e di fianco il box sempre surriscaldato del bagno.
Roma comincia a vedersi in lontananza, se non c’è foschia. Quando è caldo scorgi questa striscia sfocata di costruzioni appena tratteggiata che spunta all’orizzonte. E allora sgrani gli occhi, li apri per bene, ma è ancora un fantasma.
Mentre ci avviciniamo il traffico cresce gradualmente mentre la città si fa più vicina. È proprio la massa di automobili che aumenta. Prima traffico sciolto, macchine che superano da tutt...