Delitto in contropiede
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Delitto in contropiede

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Delitto in contropiede

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Informazioni sul libro

È l'ultima giornata di campionato per la squadra di calcio di Roccalta, un tranquillo paese tra i boschi della Sila.La sua quiete viene d'un tratto squarciata da un tragico evento che metterà in luce gli affari occulti del mondo del calcio. Il giovane pm Sergio Scarani e il maresciallo Luigi Pandolfi saranno catapultati in un mistero che si infittisce sempre più e che li costringerà a fare i conti con i loro limiti interiori e i fantasmi delle loro coscienze, prima di scoprire la verità.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9791220500982

Delitto in contropiede

Al quarantasettesimo colpo di spazzola, Scarani si rassegnò. I capelli ricci e vertiginosi che tutti, dopo averli passati in rassegna, definivano ribelli, proprio non ne volevano sapere di stare come lui avrebbe desiderato. Col passare del tempo, aveva imparato a convivere con quella mania di volere a tutti i costi dare un ordine alle cose esteriori, a regolarizzare le abitudini, ad incasellare gli altri in stereotipi e, purtroppo, come ammetteva lui stesso nei frequenti momenti di autocritica, ad anestetizzare l’anima. Si era convinto, man mano che andava avanti nella sua esperienza di magistrato della procura di Roccalta, paese silano di ottomila abitanti che si specchiava sulle acque del Lago Arvo, dove era arrivato quasi due anni prima (un anno, undici mesi e tre giorni, come ricordò a se stesso appena aprì gli occhi quella mattina), che il suo obiettivo neanche tanto nascosto era preservarsi, o meglio congelarsi, fino a quando non se ne sarebbe andato da quel posto, cosa che desiderava con tutte le proprie forze.
Poi, avrebbe spiccato il volo verso Torino, o magari no, verso Bologna, in ogni caso in un posto del nord, diverso e lontano dalla sua Galatina, dove i genitori avevano oramai perso le speranze di vederlo tornare. Un posto dove, era certo, il suo animo inquieto avrebbe finalmente trovato la sua dimensione. Dove avrebbe smesso di passare le giornate a borbottare con se stesso, incatenato ai suoi pensieri e prigioniero delle sue nevrosi, dove magari avrebbe faticato all’inizio, sì, ma poi in fin dei conti si fatica dovunque, all’inizio, ma poi si sarebbe ambientato, cacchio se non si sarebbe ambientato. E si sarebbe comprato una macchina come diceva lui, finalmente una BMW bianca, sostituendo la sua Mercedes Classe A dai centotrentaduemila chilometri, centotrentaduemilatrecento se non ricordava male, che ancora poteva tirare, dai, ma che non gli dava più emozioni. Forse non gliene aveva mai date in pieno, nel senso che aveva cominciato a piacergli solo quando nuova non lo era più, dopo averla prudentemente costretta per i primi due anni nel garage della casa dei suoi genitori in Salento (giammai si dicesse che era pugliese), chilometri totalizzati all’epoca sedicimilaseicento, per poi utilizzarla stabilmente solo quando aveva iniziato il tirocinio a Lecce.
L’appartamento che aveva preso in affitto nel centro di Roccalta era di medie dimensioni, di media bellezza, di medio comfort. Sarebbe stata molto più accogliente, se solo si fosse deciso a comprare qualche quadro in grado di stemperare il bianco ottico delle pareti spoglie, pitturate poco prima del suo arrivo, come aveva preteso dal proprietario con studiata ruvidezza, perché lo capisse subito che era un punto sul quale non intendeva transigere. Perché poi, vallo a trovare in quella terra sconosciuta un imbianchino decente che non pretenda un occhio della testa per due mani di vernice. Al prossimo rientro dai suoi, avrebbe sicuramente fatto acquisti per rendere viva quella casa. Era quanto si era promesso più volte, salvo essere costretto a rimandare da impegni senza dubbio più stringenti, come vagare in motorino nel centro di Galatina senza una meta precisa o fare l’ennesima rimpatriata con amici che vedeva sempre più diversi e lontani, ma di cui, manco a dirlo, sentiva la struggente mancanza quando era in Calabria. Rimpatriate che si consumavano in un’atmosfera sospesa, in interminabili e squallide mezz’ore davanti ad aperitivi allungati con l’acqua, in dei bar dove i neon viola, il sottofondo di musica techno e le risate dei diciottenni ai tavoli vicini erano la mazzata finale per ricordargli quanto tempo era passato inutilmente e come sarebbe stato difficile recuperarlo.
Dopo aver lavato i denti terminando il terzultimo tubetto di dentifricio (caspita, avrebbe dovuto subito comprarne un altro), fatto colazione con fette biscottate e nutella (un bicchiere di quelli piccoli poteva concederselo ogni tanto, senza esagerare, porca miseria), controllato quante vaschette di prosciutto crudo fossero presenti in frigo (sì, contengono conservanti, ma sempre meglio di perdere tempo prezioso facendo la fila al banco macelleria del supermercato), notando con soddisfazione che ce n’erano quattro, come ben ricordava, una sopra l’altra, era pronto ad uscire per andare in ufficio.
Aveva indossato capi di abbigliamento ampiamente collaudati, nel senso che li aveva messi così tante volte, e in quel preciso accostamento, da potersi evitare la tortura di squadrarsi allo specchio, con le annesse paranoie sulla propria inadeguatezza. Che poi non ne valeva la pena, in quel posto così provinciale, sbattersi tanto per un abito di sartoria o per una camicia su misura da cento euro. Non aveva neanche minimamente considerato di indossare quel jeans nuovo, comprato solo un mese e mezzo prima. Perché altrimenti non avrebbe potuto portarlo con sé nel fine settimana a Galatina, e si sarebbe privato dell’incomparabile piacere di tenerlo addosso alla programmata pizza con gli amici dell’università, sempre che non avessero accampato le solite scuse all’ultimo, lasciandolo solo a torturare il proprio Iphone sul divano di casa per tutto il sabato sera.
Il palazzo di giustizia distava cinquecento metri, che percorreva a piedi in preda al buon umore che si affacciava timidamente nel suo animo diffidente nei giorni di sole, sempre che non fosse lunedì, beninteso. Un buon umore autentico, ma tutt’altro che spontaneo. Era sempre la sua voce interna, quella che gli mangiava l’esistenza da tanti, troppi anni, a dirgli che doveva essere di buon umore, che c’erano tutte le condizioni per esserlo, che una volta tanto non aveva da attendere congiunzioni astrali differenti per concedersi qualche attimo di distensione.
La procura ed il tribunale erano ospitati in un edificio su due livelli, con una facciata grigia e cadente che implorava una ristrutturazione che non arrivava mai. Tuttavia, a ben vedere, quella costruzione non dava un’idea di pericolo, di rudere pronto a crollare. Anzi, sembrava il volto rugoso di un vecchio affabile e sorridente, che sopportava con matura rassegnazione i segni del tempo, senza lamentarsene, godendosi quel poco che la vita ancora gli riservava. Come la vista dei pioppi verdi e fogliosi che, in ordinata fila indiana, delimitavano il piccolo parcheggio rettangolare. E la strada stretta che lo costeggiava, separandolo dal vecchio palazzo nobiliare in cui si specchiava, con quelle arcate in pietra violentate dal progresso con degli orrendi citofoni ultimo modello e delle targhe in vetro di studi professionali di giovani figli di papà.
Il suo ufficio era al secondo ed ultimo piano. Attuò i soliti gesti. L’apertura della porta blindata, della finestra in alluminio per quei trenta secondi che gli avrebbero dato l’illusione di aver cambiato l’aria, in realtà dandogli solo l’effimera ed autistica soddisfazione dell’adempimento di un dovere, l’avviamento del PC, che non lasciava acceso, come facevano tutti, non per questioni di risparmio energetico pubblico, ma perché se si fosse rotto prima di andarsene da quella fogna, vai a fare la trafila per ottenerne un altro, vai ad implorare i laboriosissimi funzionari amministrativi della procura.
– Buongiorno Sergio!
Mauro Barillà da Reggio Calabria, il collega che condivideva con lui, con animo sintonizzato su frequenze diametralmente opposte, quella prima esperienza in magistratura alla Procura di Roccalta, entrò nella sua stanza eseguendo quello che era un rituale mattutino al quale non poteva rinunciare: il confronto con i colleghi. Era utile, formativo, ne era convinto, e lo avevano confermato anche ai corsi della Scuola Superiore della Magistratura.
Entrambi trentaquatrenni, Scarani e Barillà erano arrivati insieme in Calabria in un’afosa giornata di luglio di due anni prima, coprendo i soli due posti da sostituto procuratore che le sapienti mani del Ministero della Giustizia avevano riservato a quell’ufficio.
Il procuratore capo li aveva salutati dopo alcuni mesi di lavoro svogliato ed intermittente, andando in pensione per raggiunti limiti di età e lasciandoli soli a gestire l’ufficio, in attesa della nomina del successore, che tardava con ritardo sempre più imbarazzante.
– Allora, come procede il turno?
Scarani si chiese perché il suo collega fosse così masochista da volersi infliggere le torture ed i pensieri anche del suo, di turno, quando erano solo in due. Fu tentato di dirgli che, se proprio moriva dalla voglia, bastava attendere pochi giorni e avrebbe finalmente avuto il privilegio di essere disturbato giorno e notte da strampalate iniziative telefoniche della Polizia Giudiziaria del posto.
– Incrociamo le dita, Mauro, finora niente di che.
Barillà, a quel punto, si sedette alla sedia di fronte a lui, si accarezzò i corti e radi capelli rossicci e la barba vagamente incolta, che faceva molto magistrato studioso e prematuramente capace, si guardò la giacca stazzonata e polverosa, deglutì rumorosamente e lo guardò negli occhi con l’aria di chi sta iniziando un ragionamento importante. La giornata iniziava male. Scarani guardò le rassicuranti e ordinarie istanze da evadere, che ancora non aveva potuto toccare, con una malinconia così intensa da farlo sentire stupido.
– Tu come ti regoli con le denunce contro il proprio datore di lavoro che non versa i contributi?
Scarani non provò neanche a rispondere. Sapeva che la domanda di Barillà era solo l’ennesimo classico cavallo di troia per introdurre un monologo sulla sua arguzia ed intelligenza, sulla sua capacità di sviscerare ogni aspetto problematico del lavoro quotidiano.
Si limitò a guardarlo fisso negli occhi con aria di sfida. Vediamo che fai ora, se solleciti la mia risposta, della quale niente di frega, si disse mentre i battiti del suo...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Prologo
  3. Delitto in contropiede