Millanta facce
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Millanta facce

Racconti dal Salento

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Millanta facce

Racconti dal Salento

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"L'investimento di Piero Manni sulla parola come strumento non solo di narrazione, ma anche di dialogo, di partecipazione, di protesta è convinto ed estremamente fiducioso. Più sarà ricco il nostro vocabolario, sembra dire, più ricca sarà la nostra vita". Carlo D'Amicis"La prosa narrativa di Piero Manni dà allo sguardo antropologico una leggerezza e un'ironia affabulatoria, e commisura lo sguardo politico con il bizzarro, l'imprevedibile, l'irrisolto che abita i caratteri degli individui e le loro relazioni". Antonio PreteMillanta facce sono quelle che Piero Manni racconta della sua terra, il Salento: la civiltà contadina del dopoguerra, le feste patronali e le tarantate, l'emigrazione; la speculazione degli anni Settanta e Ottanta, la Sacra Corona Unita, gli sbarchi dei migranti dai Novanta, e l'esplosione del turismo nei Duemila, quando il Salento diventa the place to be, la tradizione si trasforma in una moda e il paesaggio viene sfruttato senza lungimiranza. Il libro riunisce racconti scritti dal 1983 al 2020 con sguardo appassionato e lucido su un lembo del Sud sineddoche dell'Italia tutta, luogo di una crescita non sempre sana, in cui guardare alle radici aiuta a comprendere storture e ricchezze dell'oggi.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2022
ISBN
9788836171743
ALTRI RACCONTI

CUNTU

Illis temporibus, quand’ivi eran viventi i mitili bivalve, datteri e le patelle cerulee e murmuri oggi prigioni dei sassi cementati con terra rossa e sudore dei muretti a secco e nei megaliti dei dolmen e delle specchie e quando ancora li turchi n’étaient pas arrivati alla marina, vivevano nella masseria del Melica sulla strada per Santo Nicola una famiglia di padre madre e tre figli maschi, perché alla mamma la sorte non gli aveva dato una femminella e il tata era contento che aveva tre maschi da portare alla fatia.
Un giorno il frate grande s’alzò e disse alla mamma: «Madre, datemi la santa benedizione che voglio andare per il mondo alla cerca dell’albero sonante l’uccello cantante l’acqua ballante».
«Fili mi», rispose la madre, «lo mondo è grande assai e quel che cerchi non lo troverai. Rimani qua», gli disse, «che quando fra cent’anni muore sireta tu sarai il capo della famiglia».
«None madre, datemi la vostra santa benedizione ché mi devo partire».
Sellò la mula, ripose nelle bisacce una puccia e mezzo pecorino e salutò parenti e vicini: e chi gli regalava una brancata di fichi secchi e chi mezza poscia di passule, poi fischiò al cane e partì.
Cammina cammina per tre giorni e tre notti arrivò a Roma, mangiò favenette e cicorine all’osteria e dormì all’albergo. La mattina dopo si leva col gallo all’alba, e cammina cammina per tre giorni e tre notti arrivò alla foresta cupa dove l’alberi eran tanto fitti che non li trapassava la luce del sole. La terza notte che stava nel bosco vide un lumicino lontano lontano e s’avviò verso quella luce, in mezzo alle ombre cangianti degli alberi tra le cui ramaglie comparivano ogni tanto gli occhi grandi dei gufi reali, quelli che stanno anche sopra il campanile della chiesa madre, e gli occhi gialli delle civette carine.
Via via che s’appressava la luce più grande si faceva, e arrivò finalmente ad una porta sgangherata che chiudeva l’accesso alla caverna, bussò e lento aprì l’uscio il vecchio di cento e cent’anni, l’eremita che a pena si manteneva in piedi, ingobbito sul bastone cui s’appoggiava con ambo le mani di ossa pelle e rughe. Salutò il giovane:
«Helà helà remitaggio».
Chiese il vecchio, e gli occhi socchiusi adocchiavano un’immagine sfocata:
«Helà helà, chi è chi è?»
«Sono un’anima battezzata, somigliante come a te».
«Qua non canta gallo, qua non luce luna, qui non ci sta nisciun’anima criatura».
«E mo’ ci sto io, per la mala sventura».
«E che vuoi figlio, de unde vieni?»
«Con rispetto nonno, quanti anni tieni ’ssignoria?» rispose il giovane sedendosi dentro il focalire.
«Cento e cent’anni figlio, e più di cento ancora».
«E io mille e millanta miglia ho fatte nonno, e di dove vengo il nome non serve dirtelo, perché ’ssignoria di così lontano non potesti sentirlo mentovare».
«Mille millanta miglia sono tante, anche per me che prima di arrivare a questo remitaggio tre fiate lo mundo girai, e passai la gola dell’inganno, la selva prena di ragnatele del potere, il deserto dei sepolcri imbiancati.
Ma dimmi figlio, che cosa cerchi?»
«Cerco l’albero parlante l’acqua corrente l’uccello cantante».
«L’albero parlante l’acqua corrente l’uccello cantante si trovano sopr’alla cima di questa montagna, nel giardino della maga Magàra; la maga Magàra è destinato che li deve lasciar prendere a un giovine ardimentoso e bello, ma non se ne vuole privare perché insieme sono la festa della vita, e perciò ti porrà un indovinello: se saprai rispondere, potrai tagliare l’albero parlante, attingere l’acqua corrente, catturare l’uccello cantante; ma se non trovi la risposta giusta, la maga Magàra ti taglierà la testa».
Il giovine si inginocchiò davanti all’eremita, gli baciò la mano di ossa e rughe e s’incamminò verso la cima della montagna.
Era mezzodì e quasi non aveva ombra quando giunse alla porta del maniero e gridò:
«Cala il ponte maga Magàra, sono un giovine ardimentoso e non ho paura degl’inganni tuoi».
«Calate il ponte», ordinò ai suoi servi logori e lerci la strega. «Bravo, bravo questo giovine bello», continuò la vecchia bavosa, «che va cercando senza tremore l’albero parlante l’acqua corrente l’uccello cantante. Bel giovinotto, tu li avrai se al mio indovinello risponderai».
Aveva paura ed ebbe un tuffo nero sopra al cuore, un sobbalzo del sangue, ma non diede a vedere niente alla maga Magàra, e anzi la sollecitò baldanzoso:
«Avanti sbrigati maga Magàra, che quand’anche io non ti risponderò, sappi che un giorno perderai la festa della vita».
Ghignò la vecchia strega, ma sentiva la morte nel cuore e sapeva che un giorno avrebbe perduto la festa della vita, ma intanto finché poteva se la difendeva; e disse cantilenando:
«Dimmi dimmi giovinotto: c’è un animale strano che prima cammina a quattro zampe, poi sta ritto su due soltanto, e da vecchio si regge su tre gambe; qual è?»
Il giovane si sedette su un masso, e pensò e ripensò, e con uno sterpo disegnava nella polvere animali con quattro, due e tre zampe, e rammentò tutti gli animali visti e quelli sentiti raccontare, ma non lo trovò.
Alla fine del terzo giorno venne la strega vecchia e disse ai suoi servi logori e lerci che gli fosse tagliata la testa al primo figlio.
In capo all’anno il secondo frate andò e disse alla mamma:
«Madre datemi la santa benedizione che voglio andare per il mondo alla cerca dell’albero sonante l’uccello cantante l’acqua ballante».
«Fili mi», rispose la madre, «ancora mi sanguina lo core per il grande, e tu già vuoi allargare questa ferita. Rimani qui con noi, cosa ti manca, e quando tra cent’anni muore sireta diventerai tu patre della familia e avrai la casa con la vigna, e so che Rosetta di massaro Tore ti cova con gli occhi ed è una buona ragazza di casa sua e ci ha una bella dote».
«None madre, non vi posso sentire, datemi la vostra santa benedizione ché devo partire».
Sellò la mula, ripose nelle bisacce una puccia e mezzo pecorino e salutò parenti ed amici: e chi gli regalava una cocchia d’uova lesse e chi una suppressata fatta a punta di coltello; partì, e arrivò a Roma all’albergo e poi trovò l’eremita nel bosco; quando bussò alla porta sgangherata e il vecchio di cento e cent’anni gli aprì l’uscio, disse il giovane:
«Helà helà remitaggio».
«Helà helà, chi è chi è?» chiese il vecchio, e a mala pena intravedeva una figura sulla porta, come in mezzo alle nebbie d’autunno.
«Sono un’anima battezzata, somigliante come a te».
«Qua non canta gallo, qua non luce luna, qui non ci sta nisciun’anima criatura».
«E mo’ ci sto io per la mala sventura».
«E anche tu cerchi l’albero sonante l’acqua ballante l’uccello cantante?»
«Anche io nonno, e feci mille millanta miglia per venire fino a qui».
«Mille millanta miglia sono troppe anche per me, che pure tre fiate girai lo mundo, e sono stato quattro dì nelle spurcizie delli peccata: il primo giorno peccai di superbia del pensiero, il secondo di superbia della lingua, il terzo con le opere e il quarto di consuetudine.
Ma tu sei giovane, vai sulla cima della montagna» e così e così, gli spiegò tutto della maga Magàra e degl’indovinelli suoi.
Il giovine arrivò alla porta del maniero a mezzogiorno in punto e gridò:
«Cala il ponte maga Magàra, ché io sono un giovine ardimentoso che non ho paura di streghe e di maghi».
La vecchia fece calare il ponte, e ghignando ma con la paura nel cuore gli pose l’indovinello: «C’è uno strano animale che prima cammina a quattro zampe, poi sta ritto su due e infine si regge su tre gambe: qual è?»
Il giovine disse:
«Non ho paura delle tue bindolerie, e sappi che se anche non riesco io a sciogliere l’enimma, un giorno qualcuno ti toglierà la festa della vita»; poi si sedette su un masso e pensò pensò, pensò tutti gli animali che conosceva e quelli di cui aveva sentito nei cunti della nonna, ma non gli venne alla mente niuno che camminava prima a quattro zampe poi a due e a tre infine. Dopo tre giorni venne la vecchia strega e chiese:
«Hai trovato qual è l’animale?»
«No, non l’ho trovato».
«Servi, tagliategli la testa» e i servi logori e lerci gli tagliarono la testa al secondo figlio.
In capo all’anno l’ultimo, il cacanidi, andò dalla mamma e disse:
«Madre, datemi la santa benedizione ché voglio andare per il mondo alla cerca dell’albero sonante l’uccello cantante l’acqua ballante».
Rispose la madre e disse:
«Da due mesi sposasti Rosina di massaro Tore, e quella povera figlia ci ha nel ventre il frutto tuo; ora non la puoi lasciare. Parti l’anno che viene».
Quando passò l’anno l’ultimo frate tornò dalla madre e disse:
«Madre datemi la vostra santa benedizione» eccetera eccetera. Rispose la madre:
«Come, ora che ci hai un figlicello bello che cammina a quattro zampe come un pecorello, e tua madre ci ha una ferita nel cuore grande quanto quella del costato di nostro signore Gesucristo, e vuoi partire per lo mondo? Rimani, e quando morirà padrita che oramai è vecchio e si regge sul bastone che due gambe non lo portano più, sarai domine della casa e della vigna».
«None madre, sempre vi ho portato rispetto ma ora non vi posso ascoltare. Datemi la santa benedizione ché devo partire».
Poi abbracciò Rosina, baciò Tonino che si chiamava come Ntoni suo nonno, e partì con una puccia con le olive e mezzo pecorino nella bisaccia, dopo aver salutato amici e parenti.
A Roma mangiò favenette e cicorine all’osteria e dormì all’albergo, e poi giunse nel bosco e bussò alla porta sgangherata dell’eremita e salutò: «Helà helà, remitaggio» e il vecchio gli chiese, forzando gli occhi a scorgerlo nel buio che l’andava vieppiù avvolgendo: «Helà helà, chi è chi è?»
«Sono un’anima battezzata, somigliante come a te».
«Qua non canta gallo, qua non luce luna, qui non ci sta nisciun’anima criatura».
«E mo’ ci sto io, per la mala sventura».
«Non dire la mala sventura, ché la sorte non si può mai sapere».
E gli disse anche a lui dove si trovano l’albero sonante l’uccello cantante e l’acqua corrente e gli disse della maga Magàra e dell’indovinello.
Il giovine arrivò alla porta del maniero a mezzogiorno in punto, e bussò baldanzoso:
«Cala il ponte maga Magàra, ché io sono un giovine ardimentoso che non ho paura degl’inganni tuoi».
Tremò la strega nel suo vecchio cuore, ma sghignazzò e disse:
«Bene, bene, un altro stolto che vuole togliermi la festa della vita. Ma io ti lascerò cogliere l’albero sonante, acchiappare l’uccello cantante e attingere l’acqua ballante se risponderai al mio indovinello» e gli chiese lo stesso indovinello degli altri due fratelli suoi.
Il giovine appena lo sentì aveva la morte nel cuore perché non sapeva qual era l’animale che prima cammina a quattro zampe poi a due e infine a tre, e aveva la morte nel cuore e si sedette su un masso e pensò e ripensò tutte le bestie che aveva conosciute e l’animali di cui aveva sentito raccontare anche quando era bambino e stavano a cerchio intorno al braciere e lui non voleva mai andare a coricarsi per paura di incontrare quegli animali mostruosi con tre teste o col corpo di cavallo e la testa umana dei cunti della nonna, ma non gli venne a mente l’animale giusto.
Allo scadere del terzo giorno, venne la maga Magàra e sogghignava:
«Allora», chiese, «ti sei tolto il collo alla camicia?»
E il terzo figlio girò la testa, per non farsi vedere le lacrime negli occhi e non piangeva tanto per lui quanto per quegli altri che lo aspettavano laggiù, mille millanta miglia lontano, e pensò Rosina che rivoltava il colletto consunto della camicia, mentre Tonino a quattro zampe seguiva vanamente la gatta, e Ntoni suo nonno che si trascinava stanco poggiandosi con ambo le mani al bastone, e tutto d’un tratto capì e rispose: «L’uomo è quell’animale strano, che quando è piccolo cammina a quattro zampe, poi su due e da vecchio aggiunge alle proprie il bastone».
Impallidì la vecchia maga Magàra e impazzita s’allontanò correndo nel folto del bosco e nessuno l’ha più mai vista.
Il terzo figlio salì alla cima del monte, e in una borraccia di zucca incisa coi ferri affocati attinse l’acqua nell’istante che risorgiva ballante, e nella zucca continuava a danzare figure di limpida purezza, e ben che ne bevevi sempre n’avanzava, e tutti potev’innaffiare e semenzai e colture e n’avanzava per gli armenti e per la casa.
Poi in una notte di vento colse un ramo di caprifico e le foglie serbarono fremiti e fruscii e sempre stormirono come natura viva e tutti l’alberi cui legavi con fil di rafia una foglia di albero sonante impregnati vegetavano grandi e sani e davano frutti che non ti puoi immaginare.
Infine, una mattina di sereno s’arrampicò su una palma alta che toccava le nuvole, e pigliò l’uccello cantante, piccolo e grigio, che gorgheggiava così che quando lo sentivi ti pigliava una serenità una dolcezza che nemmeno le malelingue ti potevano turbare.
E il terzo figlio tornò a casa e abbracciò Tonino e la vecchia madre, il padre e Rosina e salutò tutti i parenti e tutti stettero felici e contenti e ora, di preciso non lo so, ma se non sono morti ancora son viventi.

LA MORTE A ELIOTAU

A Eliotau la morte era di casa, non doveva arrivare da fuori come i pochi forestieri i quali attraversavano le paludi malariche un paio di volte all’anno per barattare le mercanzie o la loro opera con i manufatti di giunco che le donne intrecciavano con sapere antico e con le terrecotte zoo e antropomorfe dalle linee essenziali, primitive e le sculture lignee che gli uomini lavoravano sin da bambini, la sera al ritorno dalla caccia o dal lavoro nei campi; abitava lì, da sempre, da quando era comparsa la vita, e gli Eliotani fin da bambini si abituavano alla sua presenza compagna, rassicurante. Gli anziani raccontavano di quella volta che durante un rito di iniziazione era crollato di morte fulminante Piedediporco, il padre di Arataa già segnato al pene ed al costato dalle lame della cerimonia; Arataa chiese permesso al vecchio stregone, si piegò sulle spalle il corpo di Piedediporco e di corsa agile come daino inseguito dai lupi andò a seppellirlo nel più vicino stagno, attese una manciata di secondi fin che le acque ricoprirono il padre e tornò a proseguire il rito.
«Tuo padre?», gli domandò il centenario Asirata.
«Qui», rispose Arataa percorrendosi con ambedue le mani il corpo, dalla testa ai piedi, mentre Asirata annuiva sereno e concludeva:
«Di certo, un altro come lui furbo nella caccia ai cinghiali non lo avremo per molti anni».
I forestieri che rari arrivavano a Eliotau attraversando le paludi malariche ostili per le buche celate dalla melma sui sentieri ogni ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. TARANTA NOIR
  5. L’INVERNO DEL DICIOTTO
  6. SALENTO SALENTO
  7. SENZA CAPO NÉ CODA
  8. ALTRI RACCONTI
  9. Nota bibliografica