Nessuno torna indietro
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  1. 312 pagine
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Si chiamano Vinca, Valentina, Augusta, Silvia, Xenia, Anna, Milly, Emanuela. Otto ragazze attorno ai vent'anni che si ritrovano tutte al collegio Grimaldi di Roma, tra l'autunno del 1934 e l'estate del 1936. Diverse per origine geografica e familiare, si affacciano alla vita adulta con attese differenti - l'amore, l'emancipazione professionale e intellettuale, il ritorno alle origini, la partenza -, e chiuderanno il loro percorso con scelte altrettanto differenti.

Sperimentale nello stile e nei contenuti, Nessuno torna indietro rivoluziona il canone della narrativa di formazione: originale è l'adozione di un punto di vista multiforme, che non si disperde in un coro ma mantiene vive le specificità delle singole voci; inedita è la totale mancanza di giudizio, implicito o esplicito, sui percorsi delle otto protagoniste; del tutto nuova, in particolare, la rottura dell'unità di quell'immagine femminile che aveva dominato la cultura e la società, fino alla "donna nuova" creata dal regime.

Accolto fin dal primo apparire, nel 1938, da grande successo, il romanzo d'esordio di Alba de Céspedes esplora la formazione dell'identità femminile nell'Italia fascista senza voler proporre storie esemplari, facendo conoscere da subito l'autrice come una delle grandi voci letterarie del Novecento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835717836

IV

La nuova dignità impediva a suor Lorenza di scendere incontro alle ragazze che arrivavano; dalla sua camera udiva il suono della campanella chiamare suor Luisa in parlatorio; le pareva di percepire un affrettato fruscìo di gonne nelle scale. Nessuno veniva più a chiamare lei: tuttavia lei, ogni volta, lo sperava. «Perché non m’avete chiamato?» domandava, affacciandosi nel corridoio. La risposta era sempre la stessa: «Non volevamo disturbarvi, Madre».
Più tardi, preceduta da suor Luisa, la nuova arrivata veniva introdotta nel suo studio: in presenza della Madre, le ragazze assumevano un’aria compunta, qualcuna tentava perfino di baciarle la mano che lei ritirava, stizzita; dopo uno scambio di frasi convenzionali, suor Luisa le riconduceva.
L’unica che, tornando, andò subito a salutarla fu Silvia Custo. Mancavano pochi giorni alla discussione della sua tesi.
«E dopo?»
«Chissà?» Silvia rispose: «Purché possa continuare a lavorare con Belluzzi.» S’affacciò nel cortile; vide le tristi piante verdi, la fontana, le panche delle monache. «Sempre tutto uguale» disse.
Suor Lorenza replicò con amarezza: «Proprio eguale, ti sembra?».
«Sa che, al paese, avevo dimenticato com’era la mia camera, qui? E le altre camere e i corridoi: tutto vago, annebbiato. Perfino i volti delle compagne mi sfuggivano; e anche il Suo, suor Lorenza... oh, scusi... Madre. Il Grimaldi mi pareva lontanissimo; ora, invece, mi sembra di non averlo lasciato mai.»
Poi tornarono Anna e Valentina; l’ultima fu Emanuela. S’abbracciavano sorridendo, tra grandi effusioni rumorose, ma sulle prime non trovavano nulla da dirsi. Anna, indicando il suo vestito di lutto, spiegò: «Ho perduto mia nonna».
Augusta non scendeva mai incontro a nessuno. Emanuela entrò da lei gioiosamente, per farle una sorpresa, e la trovò al tavolino come sempre. Ai suoi piedi, c’era Margherita in dormiveglia. Prima ancora di darle il bentornato, Augusta le disse:
«Hai visto quanto sono dimagrita? Ho lavorato giorno e notte, sfiatata dal caldo; non avevo nemmeno la forza di mangiare. Ho quasi finito un nuovo romanzo. Questo, vedrai, non lo rifiuteranno.»
«Ambientato in Sardegna, come l’altro?» domandò Emanuela.
«Sì, ma stavolta tratto di un problema universale: il conflitto tra uomo e donna. Susciterà molte polemiche perché asserisco che, noi, possiamo benissimo fare a meno di loro; che li sopportiamo per secolare tradizione di schiavitù, non per vera attrazione fisica. Dico, anzi, della istintiva repugnanza che la donna prova per l’uomo. Un libro rivoluzionario, insomma. Vuoi che te lo mostri? Aspetta.»
In un sospiro fece rientrare il suo voluminoso seno per trarre dal cassetto del tavolino un manoscritto che porse all’amica come un oggetto delicato, fragile.
Erano almeno trecento cartelle. Augusta era davvero smagrita, aveva un solco livido sotto gli occhi. In estate, il collegio era deserto, perfino le suore uscivano a giocare nel cortiletto. Augusta guardava fuori, lasciando che i suoi occhi s’abbacinassero nel grigio metallico del cielo. Esco, non esco. Infine, vincendosi, decideva: “Rimango”. Le ore le pesavano come giorni. Le settimane come anni. Dal paese tutti le scrivevano, informandosi: “E allora, questo romanzo? Quando uscirà?” e lei non aveva fatto nulla. Anzi, era portata a indugiare in quella parentesi di attesa, che la tratteneva in una giovinezza fittizia. Al Grimaldi, nonostante la sua età, era ancora una studentessa: fuori, sarebbe stata una donna.
Riprese il manoscritto di cui Emanuela con un gesto mostrò di aver apprezzato, se non altro, la voluminosa consistenza; poi, avvedendosi di aver parlato soltanto di sé, domandò:
«E tu, che hai fatto?»
«Ho girato un po’, ma papà non sta bene.»
«Quando ti sposi?»
«Tra un anno: dopo la laurea di Andrea.»
Augusta, senza nemmeno esprimerle i rallegramenti d’uso, si alzò per prendere due bicchierini e una bottiglia che pareva contenere un medicinale: «È un liquore fatto in casa, ha un buon sapore d’erbe aromatiche. Devi assaggiarlo». Mentre bevevano accese ancora una sigaretta. Aveva preso gesti e atteggiamenti virili.
«Fumi molto, adesso» osservò Emanuela.
«Sì, soprattutto quando lavoro: per tenermi sveglia.»
Era il crepuscolo, ombre lente invadevano la camera. Tra le due amiche si formavano imbarazzanti silenzi. Emanuela si rendeva conto che Augusta si preparava a dirle qualcosa; e, istintivamente, avrebbe voluto evitarlo. Ma restava soggiogata da qualcosa di indefinibile: forse dalla vita di Augusta, diversa da quella di loro tutte. “Sprecata” pensò “eppure sempre sorretta da un’illusione.”
«Senti» Augusta le disse infine con voce affettuosa: «tu sei contenta di sposarti. Ti sposi. Ma hai riflettuto che, da quel giorno, non sarai più padrona di te? Anche quando sarai sola, una presenza, una volontà, un potere a te estraneo ti dominerà. Non serberai più nulla di tuo, neanche il nome, sarai soltanto la moglie del signor Lanziani; il quale, però, avrà il diritto di conoscere tutto di te: che fai, che pensi, e se glielo nasconderai sarà un tradimento. Anche i tuoi figli saranno suoi. Tu li metterai al mondo e lui, per legge, ne disporrà a suo piacimento.»
«Ma no» interruppe Emanuela: «che c’entra la legge? Noi faremo tutto di comune accordo, Andrea è una persona civile, ha fiducia in me, mi lascia libera...»
«Adesso...» precisò Augusta malignamente. «Ma, una volta sposata, non sarai mai più libera, neanche nel tuo intimo. Ne conosco...» sospirò, crollando la testa: «o sono devastate, sorridenti e vuote come bambole, oppure resistono alla devastazione e, per resistere, devono acquisire una forza mostruosa. È il caso peggiore: divengono blocchi di pietra, rocce, contro le quali chiunque si ferisce... Dimmi: hai pensato che un uomo avrà il diritto di entrare nella tua camera anche di notte, di metterti le mani addosso quando gli piacerà? E tu avrai il dovere di soddisfarlo. Il dovere!... Come si può parlare di dovere o di diritto, per un corpo umano? Disporre di qualcosa che è animato dallo spirito come di un oggetto inanimato?»
«Tu giudichi di tutto in teoria» obiettò Emanuela: «e l’amore non lo metti in conto? L’attrazione fisica?»
Augusta si sporse verso di lei, fissandola negli occhi: «Ma sei sicura di provarla sempre? Sei sicura di non sentire questo diritto come un sordido abuso, quando ormai hai già giurato, firmato, quando ormai sei legata? Per sempre! Finché il tuo corpo, giovane, fresco, non sarà che un ammasso di carne flaccida come quello della badessa. Ti piace veramente il modo che gli uomini hanno di baciare? Anch’io sono stata fidanzata, anni or sono: desideravo rimanere sola con lui – Loris, si chiamava – mi struggevo pensando a un suo bacio. Eravamo in giardino, lui mi baciò e aveva un viso diverso dal solito, altri occhi... Tanti anni sono passati ma se ci ripenso sputo. Non potrò mai dimenticare quell’intrusione, quella violenza...». S’interruppe, sopraffatta dalla sgradevolezza del ricordo: «Hai pensato anche a questo, Emanuela?».
Emanuela annuì: pensava che avrebbe conosciuto ore simili a quelle trascorse con Stefano nella casa del Viale dei Colli. Avrebbe voluto replicare: “Senti, voglio dirti la verità, Augusta. Io conosco già tutto e mi piace”. Ma doveva continuare a recitare la parte di ingenua; e, in fondo, ci si divertiva.
Augusta trasse l’ultima boccata dalla sigaretta e, spegnendola, osservò: «Capisco sempre meglio quanto sia urgente che io finisca il mio libro; che tutte le donne possano leggerlo». Dopo una pausa, soggiunse: «E tuo padre, che ne dice?». Emanuela ripeté, incerta: «Mio padre?».
Gliene aveva parlato poche ore prima di partire per l’Alto Adige. Era entrata nella sua camera mentre lui, in maniche di camicia, preparava la valigia: un’operazione che amava compiere con calma e avvedutezza, perciò il momento non era scelto bene; ma ormai s’era decisa, se avesse rimandato ancora forse non gli avrebbe parlato più. Sapeva che la notizia lo avrebbe scosso, e non ne aveva tenuto conto, sembrandole che il fatto stesso di esser padre comportasse la prevalenza della vita dei figli sulla propria. Allo stesso modo, anni prima, era andata a dirgli che si era fidanzata con Stefano; poi che Stefano era morto, che era incinta, che voleva riconoscere la bambina, l’aveva tormentato per Stefania, per raggiungere Stefania; e, adesso, andava a dirgli che intendeva sposare Andrea Lanziani.
Papà indossava una camicia bianca, calzoni bianchi; la sua testa, completamente calva, sembrava una vecchia cera. Nell’udire la notizia, aveva continuato a disporre la biancheria nella valigia senza neppure girarsi verso la figlia.
«Anche di questo sei già l’amante?» le aveva domandato.
«No» aveva risposto lei, aggiungendo risentita: «del resto, che importanza avrebbe?»
«E Stefania?»
«Potrebbe andare in un collegio all’estero, per il momento. In seguito, si vedrà. Mi hai sempre detto che Stefania non avrebbe dovuto influire sulla mia vita.»
«Sì, ma tu dopo mi convincesti del contrario.»
«Ho sbagliato.»
«Quante volte hai sbagliato, figlia mia?» papà aveva replicato: «Mi sembra che ormai sia difficile allontanare Stefania dalla tua vita e tu mi hai convinto che non sarebbe giusto. Lui, insomma... questo ragazzo... che ne dice?»
«Andrea?... Non lo sa, non ne sa nulla.»
«Non lo sa?!...» ripeté il vecchio, irritato: «Ma, allora, perché discutere adesso questo argomento? Oppure pensi di tenerlo all’oscuro di tutto per sempre?» Emanuela non aveva risposto perché, in realtà, non aveva alcun programma. «Digli tutto e, dopo, ne riparleremo, vedremo.»
Si era passato la mano sulla fronte corrugata, come per scacciarne quei pensieri; poi, con un sospiro, aveva ripreso a preparare la valigia. Emanuela s’era allontanata piena di dispetto. Stefania era ad Amalfi, in una splendida villa ove il collegio aveva sede nella stagione estiva. Le suore avevano scritto che stava bene, mangiava, faceva i bagni, si divertiva. “Non basta averle assicurato tutto questo? Per il solo fatto di vivere, può impedirmi di vivere a mia volta?”
Avrebbe dovuto ascoltare suo padre fin dal principio, quando, per convincerla a non riconoscere la bambina, egli asseriva che oggi – grazie alla mentalità moderna, scevra di vieti pregiudizi sociali – i trovatelli stanno benissimo. Lei gli aveva risposto che il timore di quella nipotina illegittima era invece la riprova che tali pregiudizi duravano ancora. Ma il padre insisteva: la prima ad essere danneggiata dal riconoscimento sarebbe stata proprio Stefania, che non avrebbe goduto né della libertà dei senza famiglia né dei vantaggi concessi ai figli naturali, poiché avrebbe sempre anelato ciò che non possedeva.
Per lei, invece, riconoscere la bambina era stata l’unica alternativa. Questo voleva far intendere ad Andrea; ma, non avendo parlato subito, era meglio aspettare. “Se il padre di Stefania fosse ancora vivo, ti avrei confessato tutto immediatamente: altrimenti, tu avresti potuto ingelosirti, supporre che ero ancora attaccata a lui. Ma siccome è morto...”
Aveva un padre veramente, Stefania? Non riusciva a collegare in alcun modo ciò che era avvenuto nella casa del Viale dei Colli e la bambina. La concezione di Stefania le sembrava dovuta a lei sola: una figlia cresciuta in lei come un tumore. Eppure la bambina non le somigliava: non possedeva la sua capacità di suscitare simpatia. A dire delle suore, era piuttosto dura, capricciosa: egoista, concludevano. Forse anche il padre era stato così, Emanuela non sapeva nulla di lui, si conoscevano appena. Le venne in mente di raccontare ad Andrea che era stata vittima di un’aggressione. Uno sconosciuto lungo la strada da Firenze a Maiano: e poi la bambina: una disgrazia. “Per questo l’abbiamo nascosta.” Poi scartò l’idea di quello stratagemma assurdo. Nel cedere a Stefano, si disse, sapeva ciò che faceva.
Sebbene, a dire il vero, lo sapesse vagamente. “Non si sa mai nulla, prima; una ragazza è sempre sprovveduta, sempre sola di fronte a tali avvenimenti: con i genitori non ha coraggio di accennarne poiché essi gliene parlano come di cose sporche o di cose scientifiche. Descritto da loro, l’atto dell’amore diviene una sorta di operazione chirurgica, niente affatto attraente. Di quello che si prova accanto a un uomo, degli istinti, dei sensi, i genitori non parlano mai, non tengono conto.” “Uno sconosciuto che m’è comparso davanti sulla strada e mi ha costretta con la forza.” In fondo, era proprio uno sconosciuto comparsole davanti sul Lungarno: e l’aveva costretta con la forza della curiosità che una ragazza prova verso ogni aspetto dell’amore. Ma papà non si sarebbe mai prestato a una simile commedia. Non c’era scampo: l’invisibile presenza di Stefania nella sua vita la costringeva, la incatenava, le toglieva la libertà. Non avrebbe mai potuto disporre del suo avvenire; di fronte a qualunque sogno, a qualunque progetto, sarebbe sorto quell’ostacolo, inesorabile.
Durante il viaggio nelle Dolomiti, aveva recitato con sforzo la parte della figlia; ormai era abituata all’indipendenza, a disporre della sua giornata, dei suoi orari, e lì era sempre papà che decideva tutto. Aveva ragione Augusta: è impossibile tornare a casa dopo aver conosciuto la libertà, non fosse che la libertà innocente di uscire con le compagne, di andare all’università, di vivere la casta e spensierata vita del Grimaldi. Anche per essere giovani, per ridere, bisogna essere libere: lo pensavano tutte ed erano, tutte, ragazze intelligenti. Aveva fatto bene Xenia ad andarsene: i poveri possono iniziare la propria vita rubando un oggetto o la fiducia di un’anima. Del resto, rubandole l’anello Xenia aveva dimostrato di volerle bene giacché l’aveva scelta per chiederle aiuto e pietà, sia pure in modo colpevole.
Buttarsi allo sbaraglio – Emanuela andava considerando – è privilegio di coloro che non hanno alcuna configurazione sociale. Gli altri, nonostante la libertà e magari la spregiudicatezza che ostentano, sono costretti da timori vaghi ma invincibili, da tradizioni che tutto, attorno, rammenta loro. Per quanto possa sembrare assurdo, la libertà è negata a coloro che non esistono sol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nessuno torna indietro
  4. Capitolo I
  5. Capitolo II
  6. Capitolo III
  7. Capitolo IV
  8. Copyright