Idee per un'antropologia teologico-pastorale
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Osservando l’uomo dal punto di vista teologico-pastorale, è possibile suggerire (nuove) idee all’antropologia teologica? Certamente! Anzitutto perché spetta alla teologia pastorale verificare se un’antropologia si è (o non si è) dimostrata “adeguata” a edificare la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Poi, perché la legittimità di un’antropologia teologico-pastorale non si fonda sulla rivendicazione del miglior modello antropologico presente sul “mercato” delle religioni.
Parlare dell’uomo dal punto di vista teologico-pastorale significa mettere a tema la novità che Dio ha realizzato nella morte e resurrezione del Figlio unigenito del Padre che spalanca l’abisso della carità dentro il quale cresce e si alimenta la vita dell’uomo nuovo chiamato all’amore del “fratello per cui Cristo è morto” (1Cor, 8, 11).

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788865128657
Categoria
Religion

1. L’antropologia adeguata

Il mondo, così inteso, non è pertanto l’insieme delle cose esistenti nell’universo o nel cosmo, è un concetto riflessivo che non indica qualcosa , ma designa l’orizzonte di ogni rapporto che l’uomo instaura con tutte le cose. Di tutte le cose l’uomo può e deve cercare di dare una spiegazione, ma non del mondo, giacché esso è la condizione di ogni spiegazione. Questa sorgiva e invalicabile inerenza al mondo che ogni uomo sperimenta (per il fatto di essere uomo) obbliga a porsi la domanda su come si configura – da una visuale mondana – l’esperienza religiosa e, in particolare, quella cristiana. La risposta per certi versi è tutto sommato semplice: si tratta di una delle tante possibilità offerte dal mondo, di un determinato modo, tra i molti possibili, di essere-nel-mondo. A prima vista, l’ovvietà di questa risposta non pone problemi, poiché è chiaro che l’uomo può vivere nel mondo religiosamente o irreligiosamente, e non c’è scritto da nessuna parte che chi vive religiosamente viva meglio (in tutti i sensi) di chi vive irreligiosamente o viceversa. Se però, si prende in considerazione la specificità dell’esperienza religiosa cristiana (ma anche ebraica e, in parte, islamica) la banalità della risposta si complica, non tanto perché venga meno la consapevolezza dell’alternativa mondanamente possibile tra vivere religiosamente o meno, quanto perché il credente non considera la fede unicamente come una propria scelta, ma come ciò che sempre «…prende le mosse dalla grazia preveniente di Dio, per mezzo di Gesù Cristo …» [1] , che rende possibile, nello Spirito, la decisione umana nei confronti dell’iniziativa divina. L’esperienza di fede che ne deriva è compresa quindi come un dono, come l’incontro inaspettato con un Dio che si è preso cura degli uomini quando questi neppure si preoccupavano di lui ed erano «per natura meritevoli d’ira» (Ef 2,3). Il Nuovo Testamento e la prassi ecclesiale dei primi secoli sono concordi nell’affermare questa connotazione escatologica (perché di questo si tratta) della fede cristiana che sancisce il passaggio dal vecchio al nuovo uomo. Di conseguenza, appare evidente che l’esperienza cristiana, così compresa, non si lascia ridurre a una forma religiosa tra le altre e, dunque, a una possibilità di vita da sempre inclusa tra quelle le offerte dal mondo, dato che la scelta umana di credere (o di non credere) prende la forma dell’adesione (o del rifiuto) a una novità che non ci si poteva attendere poiché proveniente da Dio, non dal mondo.
Tale caratterizzazione dell’esperienza cristiana evidentemente ha senso unicamente in prospettiva teologica. Teologico in questo contesto prende il significato di ciò che è possibile affermare dal punto di vista di Dio e della sua rivelazione. Questa semplice constatazione fa immediatamente intravedere quanto precedentemente veniva affermato come decisivo per l’antropologia teologico-pastorale. Pastoralmente l’uomo va compreso come agente e destinatario dell’azione ecclesiale e, pertanto, essendo la teologia pastorale una disciplina teologica, il profilo a partire dal quale considerare l’uomo è quello della coppia credente/non-credente. Solo teologicamente è possibile affermarlo, dal momento che solo dal punto di vista di Dio gli uomini non hanno alternative: o credono (accogliendo la Sua rivelazione) o non credono (non accogliendola). Dal punto di vista del mondo credere o non credere, partecipare alla prassi devozionale di un’istituzione religiosa oppure vivere una spiritualità creativa individuale, ricercare nella trascendenza la propria autenticità oppure essere del tutto indifferenti a qualsiasi forma religiosa sono varianti e possibilità da sempre iscritte nell’insuperabile orizzonte del mondo.
Dato questo assunto, in qualunque modo s’intenda l’azione della Chiesa, questa ha il dovere di porsi nello stesso modo con cui Dio ha agito nei confronti degli uomini nella storia della salvezza, e in particolare nell’avvenimento di Gesù Cristo. Una Chiesa che pensasse la sua azione come qualcosa di diverso non potrebbe neanche chiamarsi Chiesa di Gesù Cristo. Pertanto, il punto di riferimento è come Dio ha agito e agisce ancora oggi attraverso la Chiesa. L’antropologia (intesa come visione dell’uomo) come si vede non c’è. L’uomo è unicamente il destinatario dell’azione salvifica di Dio e, se vogliamo proprio qualificarlo in qualche modo, è caratterizzato dal bisogno di redenzione che Dio gli offre, stando attenti però a considerare che l’azione di Dio è univoca: non aspetta che l’uomo prenda coscienza di essere salvato, Egli – che «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19) – agisce comunque. L’antropologia come autocomprensione dell’uomo non appare dunque rilevante per un progetto teologico-pastorale e neppure l’antropologia intesa come “Dio che ci dice quello che l’uomo è veramente”.
Tutto ciò suona sicuramente strano e potrebbe facilmente essere incompreso se non si chiarisse preliminarmente cosa significa pensare un’antropologia teologico-pastorale su questo presupposto. Fin dall’inizio, infatti, la Chiesa non ha mai avuto dubbi sul primato dell’iniziativa di Dio e sulla novità che l’adesione di fede all’evento della morte e resurrezione di Cristo realizza nella vita dell’uomo. Facendosi battezzare gli uomini accettano dalle mani di Dio di «essere santificati e rinnovati» [2] , sapendo che tale santificazione non deriva «dall’osservanza della legge o dalla forza della natura umana» [3] , ma dall’accoglienza del dono di Dio che consente, liberamente, di aderire all’azione di Dio che da «ingiusti ci rende giusti e da nemici amici» [4] . Non è anzitutto una scelta umana, ma una grazia scaturita dall’iniziativa divina che, venendo incontro all’uomo, permette a quest’ultimo, nello Spirito, di «consentire cooperando liberamente» [5] all’azione di Dio. Riuniti nella comunità dei credenti, i fedeli sperimentano quindi che la nuova vita in Cristo è anzitutto un dono che genera una prossimità con Dio e tra gli uomini capace di trasformare, attraverso una carità effettiva, la convivenza umana. Questa convinzione non è mai venuta meno nella vita della Chiesa: la schiera di santi (canonizzati e non) che ha caratterizzato ogni epoca della storia lo documenta in modo inequivocabile, così come l’immutata permanenza della prassi del pedobattesimo e del battesimo degli adulti. Nello stesso tempo non si può non notare (e la letteratura è su questo immensa) che, divenuta religione dominante e istituzionale dell’Impero romano, il cristianesimo, facendo leva sulla legittimazione che le istituzioni politiche mondane garantivano, è divenuto una forma religiosa tra le tante, che differiva dalle altre solo per il fatto che era largamente prevalente e ufficiale. Rassicurato dal potere politico sull’indispensabile ruolo che esso svolgeva, il cristianesimo si è quindi sviluppato accentuando un profilo istituzionale che lo ha reso sempre più organico alle forme mondane della vita socio-politica. Questo ha fatto sì che esso divenisse un tutt’uno con la società civile, dal momento che si nasceva e ci si formava culturalmente e socialmente nel cristianesimo quale unica forma religiosa possibile. Venuta man mano a mancare (dalla Rivoluzione francese in poi) l’ufficialità, che i regni o gli stati garantivano e, soprattutto, il monopolio culturale e sociale, il cristianesimo, seppur per molto tempo ancora largamente maggioritario, ha assistito impotente al formarsi di un mondo nel quale esso ha dovuto prendere atto obtorto collo del fatto che era diventato, appunto, una forma religiosa qualsiasi: l’essere cristiani era un’opzione tra le tante a disposizione di tutti coloro che decidevano di vivere religiosamente la propria vita. È la cosiddetta epoca secolare che ha visto (e vede) una costante perdita di importanza delle Chiese cristiane, che ha finito per rendere, in molte parti dell’occidente, il cristianesimo decisamente minoritario. La Chiesa e l’Occidente sono a lungo vissuti in una simbiosi politica, culturale e sociale in cui la prima aveva il controllo. Era il punto di passaggio obbligato e l’istanza suprema che aveva il potere di dare senso alla storia umana. Il dominio della società umana, con il potere politico, si accordava con un monopolio della verità, difficile da contestare e più ancora da far vacillare. L’avvento di un sapere i cui criteri erano incompatibili con un tale controllo ha finito per smantellare questa concezione unitaria, generando quel senso di smarrimento che ha avuto l’effetto di porre alla Chiesa il problema del suo agire nel mondo, anch’esso minato nella sua unitarietà e, di conseguenza, problematizzato sotto il profilo dell’armonia tra azione ad intra e ad extra.
Prendere coscienza del venir meno nella coscienza individuale della maggioranza delle persone di un senso di appartenenza ecclesiale unitamente alla costatazione di non riuscire più ad avere un influsso determinante sui comportamenti quotidiani, è stato sicuramente il frangente nel quale la Chiesa cattolica ha maturato la convinzione di dover mutare radicalmente postura nei confronti del mondo contemporaneo. In fin dei conti nelle battaglie politiche e culturali combattute dalla Riforma protestante in poi, la Chiesa poteva sempre contare su una larghissima adesione “popolare”. Quando questa è venuta improvvisamente e velocissimamente a mancare, la consapevolezza di dover imprimere un cambio di direzione è emersa in maniera evidente. Prima il Concilio, poi il pontificato di Giovanni Paolo II col lancio della “nuova evangelizzazione” ne sono la documentazione acclarata. Di rilevante in questo sviluppo tracciato a grandi linee è però l’unilateralità con la quale il dibattito teologico-filosofico e teologico-pastorale in ambito ecclesiale ha accompagnato questo processo. Portata avanti sul duplice presupposto apologetico delle radici cristiane dei valori moderni e dell’inevitabile necessità del cristianesimo per edificare la convivenza umana, questa strategia ha voluto delineare una antropologia adeguata che, senza mai mettere in discussione la caratterizzazione mondana della scelta in favore (o contro) il cristianesimo, avrebbe dovuto rendere quasi scontata l’adesione al cristianesimo. In pratica, tentando di evidenziare le “ragioni” che consentirebbero agli uomini e alle donne del nostro tempo di decidersi in favore della religione cristiana, anziché optare per qualsiasi altra decisione (religiosa o irreligiosa), si è pensato che tali “ragioni” coincidessero con una precisa visione antropologica, la quale avrebbe dovuto rendere evidente che l’essere cristiani e identificarsi con la Chiesa cattolica è l’unica scelta adeguata. Com’è facile riconoscere, questa strategia, che avrebbe dovuto determinare un cambio di posizione di fronte al mondo, muove esattamente dallo stesso presupposto di prima, accetta la stessa posizione del problema e adotta il medesimo stile argomentativo [6] .
Molte reazioni ecclesiali al processo della secolarizzazione sembrano incapaci di leggere l’epoca contemporanea secondo un modello differente da quello che l’ha prodotta. Se, infatti, all’origine si pone la riduzione del cristianesimo a una possibilità di vita religiosa tra quelle mondanamente accessibili, è difficile pensare che si dia una motivazione adeguata a mostrare che se ne debba sceglierne solo una. L’unica strada sarebbe quella di evidenziare l’impossibilità di sceglierne un’altra, ma in questo caso (semmai questo sia possibile), non essendoci alcuna alternativa, non ci sarebbe neppure nulla da scegliere. Pertanto, finché si concepisce l’essere cristiani come la scelta tra o/oppure, nel senso di una delle tante possibilità messe a disposizione mondanamente, si resta dentro il presupposto che ha generato l’epoca secolare. E non serve a nulla rallegrarsi, come accade (e come è accaduto) in diversi contesti storici o geografici, del fatto che il cristianesimo sia maggioritario, dal momento che ciò rappresenta unicamente una variante del suo essere minoritario: che lo scelgano milioni di persone o poche centinaia, se il cristianesimo rimane una forma di vita possibile tra le tante a disposizione, non cambia nulla. La domanda sull’uomo contemporaneo – istituita a partire dall’interrogazione sul modello antropologico adeguato a rendere evidente la scelta di essere cristiani e di appartenere alla Chiesa – svilisce la stessa singolarità del fatto cristiano perché, non garantendo ciò che vorrebbe garantire, di fatto, non pensa fino in fondo quel che dice di voler pensare. Accettando il presupposto che il cristianesimo sia una possibilità di vita religiosa tra le tante, tale impostazione non cerca di caratterizzare la singolarità cristiana sull’azione di Dio, ma sulla definizione del profilo antropologico capace di indirizzare la scelta dell’uomo sul cristianesimo anziché su un’altra forma di vita religiosa (o irreligiosa). Nel fare questo, oltre a ignorare una serie di importanti cambi di prospettiva nella storia della cultura, è evidente che si contrappongano visioni diverse: una cosa è definire l’uomo, teologicamente, come colui che, di fronte a Dio e alla sua rivelazione non ha alternativa tra credere o non credere; un’altra è definirlo, mondanamente, come colui che ha la possibilità di credere o non di credere. Il focus teologico della prima definizione e quello secolare della seconda non possono essere confusi e sommati mettendoli sullo stesso piano. In modo analogo, un conto è respingere da un’angolatura teologica l’indifferentismo religioso dell’uomo di oggi, un conto è farlo da una prospettiva mondana. In quest’ultimo caso l’indifferentismo è criticato proprio dalla prospettiva che lo ha generato, perché la singolarità e la pretesa universalistica del cristianesimo (così come quella di qualsiasi altra forma di vita religiosa) è normativamente messa fuori gioco dal sistema delle possibilità garantite dal mondo. Cercare di piegare questo sistema al rigetto dell’indifferentismo religioso (o cristiano), introducendo non importa quale argomentazione teologica, non risolve la questione, ma finisce per fare della religione (e del cristianesimo) solo una variante sistemica contraria al sistema che l’ha generata. Il modello dell’antropologia adeguata a sostenere la scelta dell’uomo in favore del cristianesimo non è, quindi, il ritorno all’uomo prima che smarrisse le ragioni del vivere cristiano nel mondo, ma la protesta di un cristianesimo marginalizzato che si è smarrito nel mondo.


[1] Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, cap. V, tr. cit. Conciliorum Œcumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, edizione bilingue, EDB, Bologna 1991, 672.
[2] Ibid., Cap. VII, 673.
[3] Ibid., Cap. I, 671.
[4] Ibid., Cap. VII, 673.
[5] Ibid., Cap. V, 672.
[6] A questo proposito è noto che l’espressione antropologia adeguata sia stata lanciata in primis da Giovanni Paolo II nelle sue catechesi sull’amore umano ( L’amore umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle catechesi del mercoledì [1979-1984], a cura di G. Marengo, LEV-Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia 2009). Nato dal desiderio di offrire una migliore (e più ampia) base antropologica agli insegnamenti di Humane vitae, l’autorevole input si è rivelato organico alla prospettiva qui impugnata nel momento in cui è stato “assorbito” dalla teologia secondo una visione eminentemente naturalistica che ha consentito di mostrare una profonda continuità tra il Papa polacco e i suoi predecessori, in particolare quelli pre-conciliari (cfr. ad es. «Humane vitae»: 20 anni dopo. Atti del II Congresso Internazionale di Teologia Morale, 9-12 novembre 1988, a cura del Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, Ares, Milano 1989). Ora, se è difficile (e, forse impossibile) negare la presenza di un’angolatura naturalistica nel dettato di Giovanni Paolo II, è altrettanto difficile sottrarsi alla constatazione che una teologia – non preoccupata unicamente di ripetere il magistero – avrebbe potuto sviluppare l’intuizione del Papa secondo un modello differente, più adeguato alle esigenze epocali della Chiesa, senza venir meno al doveroso ossequio nei confronti di quanto in quel contesto insegnato.

2. Il “mercato” delle religioni

L’insufficienza di pensare l’uomo da un’ottica teologico-pastorale su questo sfondo emerge clamorosamente nel momento in cui si è pensato (e si pensa) che un’antropol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Idee per un’antropologia teologico-pastorale
  3. Indice dei contenuti
  4. Al lettore
  5. Introduzione
  6. I problemi
  7. 1. L’antropologia adeguata
  8. 2. Il “mercato” delle religioni
  9. 3. La presenza della Chiesa nel mondo
  10. 4. Ingenuamente ottimisti
  11. Legittimità dell’antropologia teologico-pastorale
  12. 1. Comprendere teologicamente l’azione ecclesiale
  13. 2. Antropologia e/o teologia
  14. L’uomo nuovo in azione
  15. 1. Resi partecipi di una nuova creazione
  16. 2. “Il fratello per cui Cristo è morto” (1Cor 8,11)
  17. 3. La carità aequi-voca
  18. 4. Condividere la carità
  19. AUTORE
  20. Indice dei nomi
  21. IL CALAMO – TEOLOGIA