Il
mondo, così inteso, non è pertanto l’insieme delle cose esistenti
nell’universo o nel cosmo, è un concetto riflessivo che non indica
qualcosa
,
ma designa l’orizzonte di ogni rapporto che l’uomo instaura con
tutte le cose. Di tutte le cose l’uomo può e deve cercare di dare
una spiegazione, ma non del mondo, giacché esso è la condizione di
ogni spiegazione. Questa sorgiva e invalicabile inerenza al mondo
che ogni uomo sperimenta (per il fatto di essere uomo) obbliga a
porsi la domanda su come si configura – da una visuale
mondana
–
l’esperienza religiosa e, in particolare, quella cristiana. La
risposta per certi versi è tutto sommato semplice: si tratta di una
delle tante possibilità offerte dal mondo, di un determinato modo,
tra i molti possibili, di essere-nel-mondo. A prima vista,
l’ovvietà di questa risposta non pone problemi, poiché è chiaro che
l’uomo può vivere nel mondo religiosamente o irreligiosamente, e
non c’è scritto da nessuna parte che chi vive religiosamente viva
meglio (in tutti i sensi) di chi vive irreligiosamente o viceversa.
Se però, si prende in considerazione la specificità dell’esperienza
religiosa cristiana (ma anche ebraica e, in parte, islamica) la
banalità della risposta si complica, non tanto perché venga meno la
consapevolezza dell’alternativa mondanamente possibile tra vivere
religiosamente o meno, quanto perché il credente non considera la
fede unicamente come una propria scelta, ma come ciò che sempre
«…prende le mosse dalla grazia preveniente di Dio, per mezzo di
Gesù Cristo …»
[1]
,
che rende possibile, nello Spirito, la decisione umana nei
confronti dell’iniziativa divina. L’esperienza di fede che ne
deriva è compresa quindi come un dono, come l’incontro inaspettato
con un Dio che si è preso cura degli uomini quando questi neppure
si preoccupavano di lui ed erano «per natura meritevoli d’ira» (Ef
2,3). Il Nuovo Testamento e la prassi ecclesiale dei primi secoli
sono concordi nell’affermare questa connotazione escatologica
(perché di questo si tratta) della fede cristiana che sancisce il
passaggio dal vecchio al nuovo uomo. Di conseguenza, appare
evidente che l’esperienza cristiana, così compresa, non si lascia
ridurre a una forma religiosa tra le altre e, dunque, a una
possibilità di vita da sempre inclusa tra quelle le offerte dal
mondo, dato che la scelta umana di credere (o di non credere)
prende la forma dell’adesione (o del rifiuto) a una novità che non
ci si poteva attendere poiché proveniente da Dio, non dal
mondo.
Tale caratterizzazione dell’esperienza cristiana evidentemente
ha senso unicamente in prospettiva teologica. Teologico in questo
contesto prende il significato di ciò che è possibile affermare dal
punto di vista di Dio e della sua rivelazione. Questa semplice
constatazione fa immediatamente intravedere quanto precedentemente
veniva affermato come decisivo per l’antropologia
teologico-pastorale. Pastoralmente l’uomo va compreso come agente e
destinatario dell’azione ecclesiale e, pertanto, essendo la
teologia pastorale una disciplina teologica, il profilo a partire
dal quale considerare l’uomo è quello della coppia
credente/non-credente. Solo teologicamente è possibile affermarlo,
dal momento che solo dal punto di vista di Dio gli uomini non hanno
alternative: o credono (accogliendo la Sua rivelazione) o non
credono (non accogliendola). Dal punto di vista del mondo credere o
non credere, partecipare alla prassi devozionale di un’istituzione
religiosa oppure vivere una spiritualità creativa individuale,
ricercare nella trascendenza la propria autenticità oppure essere
del tutto indifferenti a qualsiasi forma religiosa sono varianti e
possibilità da sempre iscritte nell’insuperabile orizzonte del
mondo.
Dato questo assunto, in qualunque modo s’intenda l’azione della
Chiesa, questa ha il dovere di porsi nello stesso modo con cui Dio
ha agito nei confronti degli uomini nella storia della salvezza, e
in particolare nell’avvenimento di Gesù Cristo. Una Chiesa che
pensasse la sua azione come qualcosa di diverso non potrebbe
neanche chiamarsi Chiesa di Gesù Cristo. Pertanto, il punto di
riferimento è come Dio ha agito e agisce ancora oggi attraverso la
Chiesa. L’antropologia (intesa come visione dell’uomo) come si vede
non c’è. L’uomo è unicamente il destinatario dell’azione salvifica
di Dio e, se vogliamo proprio qualificarlo in qualche modo, è
caratterizzato dal bisogno di redenzione che Dio gli offre, stando
attenti però a considerare che l’azione di Dio è univoca: non
aspetta che l’uomo prenda coscienza di essere salvato, Egli – che
«ci ha amati per primo» (1Gv 4,19) – agisce comunque.
L’antropologia come autocomprensione dell’uomo non appare dunque
rilevante per un progetto teologico-pastorale e neppure
l’antropologia intesa come “Dio che ci dice quello che l’uomo è
veramente”.
Tutto ciò suona sicuramente strano e potrebbe facilmente essere
incompreso se non si chiarisse preliminarmente cosa significa
pensare un’antropologia teologico-pastorale su questo presupposto.
Fin dall’inizio, infatti, la Chiesa non ha mai avuto dubbi sul
primato dell’iniziativa di Dio e sulla novità che l’adesione di
fede all’evento della morte e resurrezione di Cristo realizza nella
vita dell’uomo. Facendosi battezzare gli uomini accettano dalle
mani di Dio di «essere santificati e rinnovati»
[2]
, sapendo che tale santificazione non deriva «dall’osservanza
della legge o dalla forza della natura umana»
[3]
, ma dall’accoglienza del dono di Dio che consente,
liberamente, di aderire all’azione di Dio che da «ingiusti ci rende
giusti e da nemici amici»
[4]
. Non è anzitutto una scelta umana, ma una grazia scaturita
dall’iniziativa divina che, venendo incontro all’uomo, permette a
quest’ultimo, nello Spirito, di «consentire cooperando liberamente»
[5]
all’azione di Dio. Riuniti nella comunità dei credenti, i
fedeli sperimentano quindi che la nuova vita in Cristo è anzitutto
un dono che genera una prossimità con Dio e tra gli uomini capace
di trasformare, attraverso una carità effettiva, la convivenza
umana. Questa convinzione non è mai venuta meno nella vita della
Chiesa: la schiera di santi (canonizzati e non) che ha
caratterizzato ogni epoca della storia lo documenta in modo
inequivocabile, così come l’immutata permanenza della prassi del
pedobattesimo e del battesimo degli adulti. Nello stesso tempo non
si può non notare (e la letteratura è su questo immensa) che,
divenuta religione dominante e istituzionale dell’Impero romano, il
cristianesimo, facendo leva sulla legittimazione che le istituzioni
politiche mondane garantivano, è divenuto
una forma religiosa tra le tante, che differiva dalle
altre solo per il fatto che era largamente prevalente e ufficiale.
Rassicurato dal potere politico sull’indispensabile ruolo che esso
svolgeva, il cristianesimo si è quindi sviluppato accentuando un
profilo istituzionale che lo ha reso sempre più organico alle forme
mondane della vita socio-politica. Questo ha fatto sì che esso
divenisse un tutt’uno con la società civile, dal momento che si
nasceva e ci si formava culturalmente e socialmente nel
cristianesimo quale unica forma religiosa possibile. Venuta man
mano a mancare (dalla Rivoluzione francese in poi) l’ufficialità,
che i regni o gli stati garantivano e, soprattutto, il monopolio
culturale e sociale, il cristianesimo, seppur per molto tempo
ancora largamente maggioritario, ha assistito impotente al formarsi
di un mondo nel quale esso ha dovuto prendere atto
obtorto collo del fatto che era diventato, appunto,
una forma religiosa qualsiasi: l’essere cristiani era
un’opzione tra le tante a disposizione di tutti coloro che
decidevano di vivere religiosamente la propria vita. È la
cosiddetta epoca secolare che ha visto (e vede) una costante
perdita di importanza delle Chiese cristiane, che ha finito per
rendere, in molte parti dell’occidente, il cristianesimo
decisamente minoritario. La Chiesa e l’Occidente sono a lungo
vissuti in una simbiosi politica, culturale e sociale in cui la
prima aveva il controllo. Era il punto di passaggio obbligato e
l’istanza suprema che aveva il potere di dare senso alla storia
umana. Il dominio della società umana, con il potere politico, si
accordava con un monopolio della verità, difficile da contestare e
più ancora da far vacillare. L’avvento di un sapere i cui criteri
erano incompatibili con un tale controllo ha finito per smantellare
questa concezione unitaria, generando quel senso di smarrimento che
ha avuto l’effetto di porre alla Chiesa il problema del suo agire
nel mondo, anch’esso minato nella sua unitarietà e, di conseguenza,
problematizzato sotto il profilo dell’armonia tra azione
ad intra e
ad extra.
Prendere coscienza del venir meno nella coscienza individuale
della maggioranza delle persone di un senso di appartenenza
ecclesiale unitamente alla costatazione di non riuscire più ad
avere un influsso determinante sui comportamenti quotidiani, è
stato sicuramente il frangente nel quale la Chiesa cattolica ha
maturato la convinzione di dover mutare radicalmente postura nei
confronti del mondo contemporaneo. In fin dei conti nelle battaglie
politiche e culturali combattute dalla Riforma protestante in poi,
la Chiesa poteva sempre contare su una larghissima adesione
“popolare”. Quando questa è venuta improvvisamente e
velocissimamente a mancare, la consapevolezza di dover imprimere un
cambio di direzione è emersa in maniera evidente. Prima il
Concilio, poi il pontificato di Giovanni Paolo II col lancio della
“nuova evangelizzazione” ne sono la documentazione acclarata. Di
rilevante in questo sviluppo tracciato a grandi linee è però
l’unilateralità con la quale il dibattito teologico-filosofico e
teologico-pastorale in ambito ecclesiale ha accompagnato questo
processo. Portata avanti sul duplice presupposto apologetico delle
radici cristiane dei valori moderni e dell’inevitabile necessità
del cristianesimo per edificare la convivenza umana, questa
strategia ha voluto delineare una
antropologia adeguata che, senza mai mettere in
discussione la caratterizzazione mondana della scelta in favore (o
contro) il cristianesimo, avrebbe dovuto rendere quasi scontata
l’adesione al cristianesimo. In pratica, tentando di evidenziare le
“ragioni” che consentirebbero agli uomini e alle donne del nostro
tempo di decidersi in favore della religione cristiana, anziché
optare per qualsiasi altra decisione (religiosa o irreligiosa), si
è pensato che tali “ragioni” coincidessero con una precisa visione
antropologica, la quale avrebbe dovuto rendere evidente che
l’essere cristiani e identificarsi con la Chiesa cattolica è
l’unica scelta
adeguata. Com’è facile riconoscere, questa strategia, che
avrebbe dovuto determinare un cambio di posizione di fronte al
mondo, muove esattamente dallo stesso presupposto di prima, accetta
la stessa posizione del problema e adotta il medesimo stile
argomentativo
[6]
.
Molte reazioni ecclesiali al processo della secolarizzazione
sembrano incapaci di leggere l’epoca contemporanea secondo un
modello differente da quello che l’ha prodotta. Se, infatti,
all’origine si pone la riduzione del cristianesimo a una
possibilità di vita religiosa tra quelle mondanamente accessibili,
è difficile pensare che si dia una motivazione
adeguata a mostrare che se ne debba sceglierne solo una.
L’unica strada sarebbe quella di evidenziare l’impossibilità di
sceglierne un’altra, ma in questo caso (semmai questo sia
possibile), non essendoci alcuna alternativa, non ci sarebbe
neppure nulla da scegliere. Pertanto, finché si concepisce l’essere
cristiani come la scelta tra o/oppure, nel senso di una delle tante
possibilità messe a disposizione mondanamente, si resta dentro il
presupposto che ha generato l’epoca secolare. E non serve a nulla
rallegrarsi, come accade (e come è accaduto) in diversi contesti
storici o geografici, del fatto che il cristianesimo sia
maggioritario, dal momento che ciò rappresenta unicamente una
variante del suo essere minoritario: che lo scelgano milioni di
persone o poche centinaia, se il cristianesimo rimane una forma di
vita possibile tra le tante a disposizione, non cambia nulla. La
domanda sull’uomo contemporaneo – istituita a partire
dall’interrogazione sul modello antropologico
adeguato a rendere evidente la scelta di essere cristiani
e di appartenere alla Chiesa – svilisce la stessa singolarità del
fatto cristiano perché, non garantendo ciò che vorrebbe garantire,
di fatto, non pensa fino in fondo quel che dice di voler pensare.
Accettando il presupposto che il cristianesimo sia una possibilità
di vita religiosa tra le tante, tale impostazione non cerca di
caratterizzare la singolarità cristiana sull’azione di Dio, ma
sulla definizione del profilo antropologico capace di indirizzare
la scelta dell’uomo sul cristianesimo anziché su un’altra forma di
vita religiosa (o irreligiosa). Nel fare questo, oltre a ignorare
una serie di importanti cambi di prospettiva nella storia della
cultura, è evidente che si contrappongano visioni diverse: una cosa
è definire l’uomo, teologicamente, come colui che, di fronte a Dio
e alla sua rivelazione
non ha alternativa tra credere o non credere; un’altra è
definirlo, mondanamente, come colui che
ha la possibilità di credere o non di credere. Il
focus teologico della prima definizione e quello secolare
della seconda non possono essere confusi e sommati mettendoli sullo
stesso piano. In modo analogo, un conto è respingere da
un’angolatura teologica l’indifferentismo religioso dell’uomo di
oggi, un conto è farlo da una prospettiva mondana. In quest’ultimo
caso l’indifferentismo è criticato proprio dalla prospettiva che lo
ha generato, perché la singolarità e la pretesa universalistica del
cristianesimo (così come quella di qualsiasi altra forma di vita
religiosa) è normativamente messa fuori gioco dal sistema delle
possibilità garantite dal mondo. Cercare di piegare questo sistema
al rigetto dell’indifferentismo religioso (o cristiano),
introducendo non importa quale argomentazione teologica, non
risolve la questione, ma finisce per fare della religione (e del
cristianesimo) solo una variante sistemica contraria al sistema che
l’ha generata. Il modello dell’antropologia adeguata a sostenere la
scelta dell’uomo in favore del cristianesimo non è, quindi, il
ritorno all’uomo prima che smarrisse le ragioni del vivere
cristiano nel mondo, ma la protesta di un cristianesimo
marginalizzato che si è smarrito nel mondo.