A proposito di mia figlia
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A proposito di mia figlia

  1. 144 pagine
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A proposito di mia figlia

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In una torrida estate, nel cuore di Seoul, una madre vede ritornare a casa la figlia trentenne: da anni ormai il loro rapporto si riduce a una cena settimanale dove, dietro ciotole fumanti di udon, si nasconde un'infinità di cose non dette. La madre, vedova e infermiera, conduce una vita modesta, accompagnata dal terrore della vecchiaia, di cui Jen, una donna malata di Alzheimer presso la casa di riposo dove lavora, è simbolo e vittima al tempo stesso. La figlia, invece, si presenta in casa con la sua compagna e una carriera universitaria bruscamente interrotta a causa del suo coinvolgimento nella difesa di due colleghe omosessuali discriminate all'interno del campus. Sua madre è completamente impreparata ad accoglierle, schiacciata tra l'immagine di famiglia tradizionale a cui ha dedicato l'intera esistenza e gli ideali per cui lotta la figlia, in nome di un cambiamento necessario ma per lei impossibile da accettare.

Un muro di incomprensione, rabbia e freddezza le circonda, entrambe vittime di pregiudizi di una società che teme chi è diverso, chi lotta per migliorare le cose.

Dopo Han Kang e Cho Nam-joo, la nuova scoperta letteraria della Corea del Sud, Kim Hye-jin, scandaglia con immensa sensibilità le inquietudini di una generazione che si oppone ostinatamente all'autodeterminazione dei figli, mostrando lo scontro tra due visioni del mondo in apparenza inconciliabili. Una storia che insegna la forza dell'empatia, la complessa accettazione della diversità, la possibilità di un'altra idea di famiglia. Un romanzo che si confronta con le nostre paure più universali offrendo come antidoto la forza dell'amore in tutte le sue forme e sfumature.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835717799

A proposito di mia figlia

Ci portano due scodelle di udon fumanti. Mentre rovista nel contenitore delle posate per tirare fuori cucchiai e bacchette, mia figlia mi pare un po’ sbattuta e smagrita in viso, forse addirittura un filo invecchiata.
«Non hai letto il mio messaggio?» chiede.
«Hai ragione. Dico: “La devo chiamare, la devo chiamare”, ma poi mi passa sempre di mente.»
Mi limito a rispondere così. Con una bugia. È esattamente il contrario: pensare al suo problema per tutto il fine settimana mi ha prosciugata. Ma ancora una volta mi ritrovo seduta di fronte a lei senza uno straccio di alternativa, senza soluzioni.
«Sei andata da qualche parte, sabato e domenica?»
Le faccio il nome di una persona che in teoria conosce anche lei, e mi invento che abbiamo mangiato insieme. Sembra voglia chiedermi qualcos’altro ma poi fa solo: «Ah». Io rifinisco la storia con un paio di dettagli, giusto per sembrare più credibile.
«Ma potevate andare a farvi un giro, per una volta. È periodo di... fanno tutti quei festival, no?»
«Mah. Per quelle cose bisogna anche essere in vena.»
Pesco uno spaghettone con le bacchette e lo risucchio. Da ragazza ne andavo matta. Ero talmente fissata che uno dei miei tre pasti doveva assolutamente essere un qualche tipo di spaghetti in brodo. E mi piacciono come allora, ma il guaio è dopo. Perché non digerisco più così bene. Non so quante volte mi è toccato andare in giro per strada massaggiandomi la pancia gonfia, o alzarmi di notte. Ti toglie i piaceri della vita uno a uno. La vecchiaia, dico.
Quelli appena entrati devono essere studenti universitari, mentre un gruppo di impiegati fa la fila alla cassa. Parlano a voce più alta, ridono più forte. Dappertutto solo giovani. Io, con questo viso pieno di macchie e rughe, i capelli radi, le spalle curve. Sono fuori posto, qui. Tutte le volte percepisco la disapprovazione altrui, e mi sembra che non facciano nulla per nasconderla. Getto occhiate furtive attorno. Mia figlia sta svuotando vorace la scodella di udon. Io sono sempre impelagata nei miei dubbi. Devo proprio dirglielo? Provo? Meglio evitare? È comunque inutile? Ma la mia paura è una, e una sola.
La sua ripicca, se stavolta le dico di no.
«Lo sai anche tu» faccio dopo un po’. “Lo sai anche tu.” La tipica premessa di un rifiuto. Per un attimo, in quegli occhi che conosco bene, passa un lampo di delusione.
«Mamma... lo so che non nuoti nell’oro.»
Dice così, però mi fissa attentamente, e ha l’aria di aspettarsi che aggiunga qualcosa. Ma io non ho voce in capitolo sulle impennate del jeonse,a che in questo paese aumenta pure mentre dormi. Implacabile e incontrollabile. È da parecchio ormai che non sono più obbligata a correre sempre più forte e saltare sempre più in alto per riuscire a starci dietro.
«Appunto. Lo sai benissimo anche tu, la casa è l’unica cosa che mi resta.»
Case accavallate come denti guasti lungo le stradine della cintura metropolitana. Case a due piani che assomigliano ai proprietari: giunture corrose, ossa malandate, lì lì per cadere con la faccia per terra. Case che non hanno niente a che vedere con tutte le altre case del mondo dall’aria trionfale, in continua trasformazione. L’unico lascito di mio marito buonanima. Reale, tangibile. Se ho un potere di controllo e un diritto di proprietà, è solo per la casa.
«Lo so, vuoi che non lo sappia... ma anch’io non so dove sbattere la testa. Come sono messa, a chi dovrei chiedere? Chiedo a mia madre, no?» farfuglia rimestando con le bacchette nel piatto per tirare su gli ultimi udon. Ha un tono che oscilla tra la rassegnazione e l’attesa fiduciosa. E infine mi lancia la sua proposta. Che, se le presto quella somma, ogni mese mi pagherà gli interessi. Immagino si riferisca ai due appartamenti al secondo piano: soffitto del bagno chiazzato di muffa da infiltrazioni, linoleum vecchio e scurito, infissi cadenti che tra le fessure del legno lasciano passare a getto continuo vento, polvere e rumori. Ora mi chiederà se mandando via gli inquilini a canone mensile, e affittando con il jeonse, non potrei recuperare un gruzzoletto.
Ma liberare gli appartamenti e trovare qualcuno che subentri con un jeonse non è semplice. Anche l’altro giorno è scesa la signora di sopra, a lamentarsi per le perdite d’acqua dal soffitto sul lavandino. E nel pregarmi di chiamare una ditta specializzata che facesse dei lavori come si deve, e non il solito nonnetto, sulla sua faccia c’era un misto di irritazione, dispiacere per il disturbo, imbarazzo, scrupolo e non so che altro.
«Va be’. Porta ancora un po’ di pazienza.»
Le rispondo così, ma al momento una soluzione non ce l’ho. Perché non posso permettermi una ristrutturazione che non ho idea di quanto verrebbe a costare. Esattamente come non lo sa la signora che bussa di continuo a chiedere cose.
Mia figlia batte nervosamente i piedi sotto il tavolo. Scarpe da ginnastica con le suole consumate di traverso. L’orlo sfilacciato e sporco dei jeans. Ma veramente non sa che sono proprio questi piccoli particolari a determinare la prima impressione? Perché deve esibire in questo modo faccende assolutamente private, che non c’è bisogno di far sapere alla gente? Per dire, se è una spiantata, una scansafatiche di natura, o se piuttosto è indifferente e apatica. Perché permette agli altri di fraintenderla? Classe e dignità. Un aspetto curato e pulito. Valori fondamentali per chiunque: perché lei non gli attribuisce la minima importanza? Mi mordo la lingua a fatica.
«Mamma, mi stai ascoltando?» mi sollecita.
Dopo un po’ metto giù le bacchette, mi pulisco la bocca e la guardo dritta negli occhi. Eh, già. In fin dei conti, la famiglia è la famiglia. E io per questa ragazza sono l’unica famiglia. Potremmo esserlo. Forse. Grazie alla casa. Grazie al fatto che ho una proprietà.
Le dico solo: «Va be’. Vediamo un po’ come si può fare».
«No, senti... ma tu quanto hai messo?» bisbiglia la Moglie del Professore. Bisbiglia si fa per dire, perché ha un tale vocione che si sono girati tutti. Io mi fermo all’entrata e le rispondo con qualche colpetto sul dorso della mano: «Cinquantamila. Cosa vuoi, le possibilità sono quelle che sono...».
Lei prende la busta da dentro la mia borsa e ci infila ventimila won, protestando: «Cinquantamila a testa? Ma guarda che trenta bastano e avanzano!».
A ogni movimento, emana zaffate sempre più intense di un profumo dozzinale, alla rosa. E in quella borsa bordeaux ci terrà tutta la bancarella di cosmetici da quattro soldi che elargisce a chiunque come fosse chissà quale favore, tanto non le costa nulla, è roba scaduta o di bassa qualità. Ne ha dati anche a me, un paio di volte, ma non li ho mai veramente usati. Dico sempre: “Me li devo mettere”, quando capita l’occasione però mi dimentico. Da un certo momento in poi, la smemoratezza ha cominciato a perseguitarmi: mi sembra di vedere una cosa perfettamente illuminata, e l’attimo dopo è buio pesto.
«Che mi rappresenta, dare soldi a un morto? Si fa solo un piacere ai figli. Piuttosto gli paghi una cena da vivo! Ti pare? Sarebbe ora di finirla con queste usanze. Sai che ti dico...»
Non la smette di blaterare neppure superata la porta girevole, nell’atrio. Io mi riparo dalla violenza delle luci, e dal bagliore ancora più forte che emana dalle corone di fiori. Quando sollevo lo sguardo al gigantesco schermo con i numeri delle camere mortuarie, mi sfuggono di bocca queste parole: «Che orrore... Dio mio che orrore».
Se andiamo a vedere quanto mi ha offerto in pranzi e cene il signor Seong, siamo ampiamente sopra i centomila won. Ma alla fine, cosa sono centomila won? Il signor Seong era magnanimo. No, mi correggo. Non era tanto benestante da poterlo definire magnanimo. Però era sempre il primo a pagare, facendoti sentire in colpa, e in cambio tutti gli gravitavano intorno. Ma per quanto sia, fare gli spilorci al livello della Moglie del Professore non sta bene. Che poi, Moglie del Professore a chiacchiere, perché questo famoso marito chi l’ha mai visto? Non si è mai neppure saputo cosa avrebbe insegnato, e in quale università. Ma tanto, per quelli della nostra età, non è poi così importante. Da giovane stabilisci confini, metti paletti, e invece poi finisci a frequentare personaggi con cui mai e poi mai avresti pensato di avere a che fare.
Dipenderà dal fatto che invecchiando ci si assomiglia un po’ tutti. O sarà perché i posti dove prendono a lavorare quelli della nostra età si contano sulle dita di una mano.
Ma tutto questo lo tengo per me.
Trovato il posto, mentre il figlio del signor Seong è impegnato a ricevere quello che è chiaramente il cerimoniere, io mi siedo nella sala dove servono da mangiare e sorseggio un po’ dell’infuso ai funghi che mi versano da un thermos. La Moglie del Professore ingurgita cucchiaiate di riso immerso nel rosso vivo dello yukgaejang.b E si riempie la bocca con due o tre pezzi alla volta di maiale al vapore ormai stopposo. Poi apre il cellulare sulle foto del figlio e del nipote e si infervora: «Senti... non è che hai un fazzoletto? O per caso della pellicola?».
Fa come per chinarsi verso di me, ma è solo per riempire l’involucro dei piatti di plastica con la mia porzione di calamaro essiccato e snack salati vari. Senza dire niente, le avvicino i piatti che non riesce a raggiungere.
«Il mio nipotino li divora, ma mia nuora mi fa certe scenate! Una cosa assurda, no? Mi tocca darglieli di nascosto...»
«Certo. Metti, metti...»
In tutto ciò, io il cibo non lo degno di uno sguardo. Sarà che venire anche solo minimamente a contatto con l’energia inquietante liberata da chi ha appena varcato i confini della vita, l’idea che mi si attacchi addosso, mi terrorizza. Incrocio per un attimo lo sguardo di una donna con la schiena appoggiata alla parete di fronte. Occhi rassegnati. Che sembrano aver raggiunto la comprensione di tutto, e la prossima persona su cui stanno per appuntarsi sono io. Svio in fretta lo sguardo. Contare a occhi chiusi: uno due tre... quel gioco che fanno i bambini quando all’improvviso qualcosa ti agguanta alle spalle e ti agghiaccia dallo spavento. Il signor Seong è morto per colpa del cuore: gli si è fermato mentre tornava tranquillamente a casa dal lavoro. La morte che sistema tutto con un infarto. Quanto accidenti mi si sarà avvicinata? Come mai ho questa certezza di sentirmi il suo fiato sul collo?
Qualche mese fa bussò da me un parente dell’inquilina di sopra, quella dell’appartamento in fondo. Prima di lui erano venuti altri sedicenti amici o fidanzati, ma io non avevo mai dato la chiave a nessuno. Amicizie, amori... come fai a fidarti di relazioni così vaghe e instabili?
«Guardi, non riesco a contattarla... mi serve urgentemente la sua firma. Non sapendo come altro fare sono venuto di persona...»
L’uomo presentatosi quel giorno mi disse di essere il fratello minore. Ma vedendo che non reagivo, accennò al problema della traslazione dei resti del padre in un altro cimitero. Tirò anche fuori un documento e me lo mostrò. Lo guardai salire, e subito dopo lo scalpiccio dei passi sulle scale sentii il rumore della porta che si apriva. Poi più nessun segnale per parecchio.
«Senta! Signore... scusi un attimo!»
Lo chiamai a gran voce, ma senza decidermi a salire. Dopo un bel pezzo scese con un’espressione tesa: «Mia sorella è nella sua stanza. Non so. Una denuncia, bisognerà fare una denuncia...», e si precipitò fuori dal cancello senza voltarsi indietro. Un’ambulanza arrivò a portare via la donna, e una squadra di poliziotti mi tenne fino a tardi per le indagini, un interrogatorio pressante, mi chiesero di tutto, ma intanto l’uomo aveva avuto il tempo di diventare uccel di bosco.
«Lo avete trovato? Quello che diceva di essere il fratello?»
Quando due giorni dopo riuscii finalmente a farmi passare un agente che si occupava del caso, questa fu la sua risposta: «Quante volte glielo devo ripetere? La famiglia non vuole venire a prendersela, la donna. Ci deve pensare lei a disfarsi delle sue cose! Per la salma, le esequie, in qualche modo se ne occuperà la pubblica amministrazione, ma per il resto la vedo dura. Non aveva un jeonse? Intanto cerchi di risolvere con quello. E per piacere non chiami in continuazione, qui c’è gente che lavora...».
Non mi diede neppure il tempo di chiedere come, quando e perché fosse morta che mise giù. Mi ci vollero un paio ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A proposito di mia figlia
  4. Nota dell’autrice
  5. Copyright