Canzone bretone e Il bambino e la guerra
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Canzone bretone e Il bambino e la guerra

  1. 192 pagine
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Canzone bretone e Il bambino e la guerra

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Dal premio Nobel per la Letteratura, un canto che celebra l'infanzia scritto con un linguaggio musicale, tra i più melodiosi.
Tornare all'infanzia, alle sue fantasie, alla sua limpidezza, percorrendo le strade che l'hanno accolta: lo fa J.M.G. Le Clézio in queste due chansons, compiendo un viaggio sul filo della memoria che dalla brughiera della Bretagna approda al mare calmo di Nizza, alle montagne erbose e accoglienti delle Alpi Marittime, fino all'Africa con i suoi spazi di avventura e libertà. Lo fa senza alcuna nostalgia e con voce sobria, eppure emozionata, soprattutto fedele alla musica dell'innocenza, quell'età della vita in cui i ricordi sono ancora pochi, integri, quando le paure non hanno ancora un nome. Ne emerge un flusso di pensieri pieno di dolcezza, una condivisione dell'incanto - nonostante il frastuono della guerra vicinissima - per il periodo del raccolto in estate, il calore delle feste di paese, o anche il tocco, delicato sui piedi nudi, di un polpo incuriosito, o la bellezza di un campo di grano lambito dalle onde. Pennellate magiche, ma prive di idilli, colorate da certe parole solide mutuate dalla lingua bretone, immerse nel respiro amico della natura; e percorse dalle sensazioni vive e sussultanti che si colgono da bambini, anche quando a pochi metri esplode una bomba.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831808002

Il bambino e la guerra

Per la Francia, la Seconda guerra mondiale è cominciata il 3 settembre 1939. Io sono nato a Nizza il 13 aprile 1940. I primi cinque anni della mia vita li ho vissuti in una guerra. Per me questa guerra – tutte le guerre – non può essere un evento storico. Non posso comprenderla come un fatto, analizzarne le cause e dedurre le conseguenze. Non posso parlarne in maniera oggettiva, ricondurla a una situazione politica o morale, farne un tema, esaminarne l’ineluttabilità, trarne una lezione filosofica. Non ho il distacco per parlarne. Solo sentimenti, sensazioni, il flusso continuo che porta un bambino tra il giorno della sua nascita e il principio della sua memoria cosciente, all’età di cinque o sei anni.
Non si tratta di scrivere ricordi d’infanzia. Altri lo hanno fatto, molto meglio di quanto saprei fare io. E poi, con un pizzico di vanità, ho fatto mio il motto del poeta Isidore Ducasse, conte di Lautréamont, in Poesie: «Non lascerò memorie».
Come parlarne? Forse dicendo semplicemente che la guerra è la cosa peggiore che può capitare a un bambino. La vita moderna ci ha abituato alle immagini della distruzione. Le vediamo di continuo, al telegiornale, all’ora di pranzo, o nei grandi reportage. Occupano la prima pagina dei quotidiani, la copertina delle riviste. Immagini scioccanti, violente. Una bimbetta che corre per strada tutta nuda, circondata da passanti, in fuga dalle bombe al napalm sganciate da un soldato americano che non si fa il minimo scrupolo nel cockpit del suo cacciabombardiere a tremila metri di altitudine. Su certe foto amatoriali in bianco e nero scattate dopo il bombardamento di Berlino si vedono vagare bambini cenciosi sullo sfondo di macerie fumanti. In questa iconografia della guerra non ci sono né buoni né cattivi. Non ci sono nemici. Da una parte ci sono i bambini, dall’altra la macchina cieca e feroce, nelle mani di adulti che le uniformi e le armi mettono al riparo da qualsiasi identificazione.
I bambini non sanno cos’è la guerra. Per tutto il tempo che è durata non ricordo di aver mai sentito questa parola, nemmeno negli anni successivi. Per loro tutto quello che succede è normale, non immaginano che la loro vita potrebbe essere diversa. Non se lo immaginano perché gli adulti intorno a loro non ne parlano, tranne forse per dire cose incomprensibili, dei «si dice…», dei «pare che…», giusto un accenno, per non spaventare, ma il silenzio è senz’altro più spaventoso. Non ricordo di aver sentito la parola, ma ricordo che succedeva qualcosa. Da un’altra parte, fuori, per la strada. Non potevamo uscire. Non potevamo guardare dalla finestra. C’era una minaccia, un divieto, invisibile e presente, bisognava restare dietro i muri, al riparo. Era così diversa da un’infanzia in tempo di pace? Lo ignoro. Forse. Posso immaginare che ci fosse una specie di paura esterna, non la paura che si può provare all’arrivo di un violento temporale, o quella che si avverte in una situazione imprevista, se qualcuno bussa alla porta, se qualcuno ci minaccia. Il tipo di paura che è alimentata nei bambini dalle storie di demoni o di streghe, dalle favole con i lupi che si aggirano nei dintorni, dalle leggende che narrano di capanne nella foresta, di orchi e di streghe. I bambini immaginano quello che non esiste. E gli piace perché a volte è delizioso avere paura. Per il bambino che ero io durante la guerra, non si trattava di una storia di lupi o di streghe. Era una paura senza volto, senza nome, senza storia. Non era delizioso. Non lo è mai stato.
Il primo ricordo della mia vita è un ricordo di violenza. Risale alla fine della guerra, non all’inizio. È un ricordo così vivido che non posso dubitare di averlo vissuto. Sono nel bagno dell’appartamento di mia nonna, al sesto piano di un palazzo di boulevard Carnot, a Nizza, dietro il porto. Un boiler a gas fornisce l’acqua calda in bagno. Sento l’odore del gas perché l’apparecchio si accende sempre con un attimo di ritardo e il gas ha un odore forte, pungente, che conosco bene. Il boiler è acceso, a ripensarci oggi suppongo che mia nonna si preparasse a fare il bagno, doveva essere tarda mattinata, perché lei non si alzava mai prima. Il bagno ha un che di rituale. C’è la guerra, ma il gas arriva ancora, e noi stiamo in un appartamentino mansardato, un po’ ammassati: il nonno, la nonna, mia madre, mio fratello e io. L’anno prima abbiamo abbandonato la Costa Azzurra per rifugiarci in montagna. Poi siamo tornati a Nizza, probabilmente per permettere a mia nonna di racimolare un po’ di soldi, viveri e vestiti. Nizza era occupata dagli italiani, ma l’esercito tedesco stava arrivando. Io tutto questo non lo so, ma posso dedurlo dai fatti storici. L’impatto della bomba è tremendo. Non ricordo il boato. Ricordo solo l’onda che fa tremare il pavimento del bagno, i miei piedi che si staccano da terra e il grido che mi sfugge dalla gola. Tutte sensazioni che avvengono contemporaneamente: l’impatto, il terremoto, la caduta e il mio grido. In seguito, in età adulta, ho vissuto un fortissimo terremoto, nel 1985, a Città del Messico. La strana sensazione che la terra diventi liquida, che più niente sia saldo, che tutto può scomparire. Eppure c’è una differenza: quando la bomba esplode sono un bambino, incapace di precisare le emozioni. Non penso: To’, una bomba!, come in Messico ho pensato: Un terremoto! Non penso a niente. Sono un tutt’uno con il mio grido. Un grido così strozzato che, sforzandomi di ricordare, ho l’impressione che non esca dalla gola. Esce dal mondo intero. Si confonde con il boato della detonazione che mi sfonda i timpani. Fa tutt’uno con il mio corpo. È il mio corpo a gridare, non la mia gola. Non ho scelto io di gridare. Non ho scelto quest’istante. La guerra, per un bambino, è questo. Lui non ha scelto nulla.
La bomba caduta nel giardino del palazzo di mia nonna ha mandato in frantumi tutti i vetri delle finestre del quartiere. Ha aperto delle crepe nel muro delle scale. Ha spento il boiler. Non lo so, ma immagino che mia nonna si sia precipitata in bagno per assicurarsi che stessi bene, che non fossi stato ferito dalle schegge di vetro. E anche per chiudere il gas, dato che l’onda d’urto doveva aver spento la fiammella del boiler. Forse ha cominciato da quello, prima ha chiuso il gas e poi si è occupata di me. È così che si comportano gli adulti. Sono logici. Loro, sì, sanno cos’è la guerra. Conoscono tutti i trucchi, sanno cosa fare in caso di bombardamento, di terremoto. Non farsi prendere dal panico. I gesti utili. Mia nonna era una donna forte. Una che non si spaventava facilmente. Era passata attraverso la Grande guerra, un’epoca orribile e terribile durante la quale aveva sentito le granate lanciate dal più grande cannone del mondo, piazzato dai tedeschi sulla riva destra della Marna, filare in cielo verso Parigi.
La bomba caduta nel giardino del palazzo di mia nonna ha provocato un boato, un fragore spaventoso, ha disintegrato tutti i vetri delle finestre. Era una bomba di 277 chili. Oggi, nei bombardamenti, l’aviazione americana (inglese, francese o di qualunque altro paese) sgancia sui civili bombe da due tonnellate. Penso spesso ai bambini che sono sotto quelle bombe, in Iraq, in Afghanistan, in Siria, in Libia, in Palestina, in Libano. Bambini che, come me, sono nel bagno della nonna a guardare la vasca riempirsi d’acqua. O semplicemente stanno giocando a casa loro con un camioncino, una bambola, un bicchiere di plastica. Oppure sono in cortile a guardare la mamma che stende il bucato. Se la bomba canadese che mi ha sfondato i timpani ha causato tutti quei danni, loro che ricordo avranno delle bombe moderne, così pesanti, così efficaci, bombe concepite per squarciare il cemento e raggiungere il nemico fino a tre piani sotto terra? Come potranno riprendersi? Anche se non rimangono feriti, anche se non sentono un’unica esplosione ma dieci, venti, anche se sanno di che si tratta, anche se gli dicono: «È la guerra». Come potranno guarirne?
Quella bomba canadese (in realtà non ne so niente, ma ho immaginato in seguito che potesse essere canadese perché l’aviazione canadese ha cominciato l’invasione in Francia con dei bombardamenti, soprattutto nelle regioni portuali, a Saint-Malo, a Brest, a Dunkerque, e anche a Tolone, a Marsiglia, e dunque a Nizza) segna per me l’inizio della violenza. Fino a quel momento la gente di Nizza era stata relativamente risparmiata. Nizza significa Costa Azzurra, sole, villeggiature, le belle donne a passeggio sulla Jetée Promenade, d’inverno avvolte in pellicce di visone. Fino a quel momento la guerra è altrove. All’altro capo della Francia, al «fronte». E poi dal lato sbagliato della linea di demarcazione, nel territorio annesso dalla Germania. Il Sud – a Nizza, a Cannes, ad Antibes e fino a Tolone, passando per Saint-Tropez o Ramatuelle – è il «lato giusto» del conflitto. Qui hanno trovato rifugio i ricchi artisti, gli scrittori, i cineasti. Sulle foto degli anni Quaranta si vedono quei bei signori e quelle avvenenti signore a passeggio sulla Promenade des Anglais. I fotografi di strada si guadagnavano da vivere scattando foto di quei fortunati, di quei benestanti. Foto di mia nonna non ne ho viste, ma lei potrebbe benissimo far parte di quella folla. È una bella donna, vestita alla moda del Novecento, abito lungo, cloche, cappotto di pelliccia, scarpe nere décolleté con il tacco. Lei e il marito hanno deciso di stabilirsi a Nizza un po’ prima della guerra. A Parigi hanno perduto tutto, non a causa della sconfitta, ma piuttosto del Fronte popolare, della crisi finanziaria del 1931 e della proroga della moratoria sul pagamento degli affitti. Non lo avevano previsto e si erano indebitati con le banche. Le quali non si lasciano certo impietosire, hanno preteso di essere pagate, ma gli affitti non permettevano più di rimborsare i tassi di interesse. Si è reso necessario vendere in perdita e fare fagotto. Come molte persone finite sul lastrico, mia nonna ha scelto Nizza per il sole, il mare e gli affitti rimasti bassi. E poi mio nonno, mauriziano, ne aveva abbastanza di Parigi, dove il sole, diceva, assomiglia a un’ostia.
Dunque la guerra, ma a Nizza sembra una guerra da operetta. L’esercito di occupazione è italiano. Gli italiani sono gentili, si sa. Con le loro belle divise, i cappelli piumati. Mia madre è una bella ragazza bionda, gli italiani ne sono ammaliati. La aiutano a portare la spesa per strada quando risale boulevard Carnot. Sono galanti. Anche quando partiamo per la montagna non abbiamo la sensazione di vivere una situazione di grande pericolo. È ancora possibile circolare per le strade, andare e tornare a piacere.
È allora che l’aereo canadese sgancia la bomba. Probabilmente mira agli impianti portuari, la banchina, le gru, i cannoni di artiglieria che i tedeschi hanno piazzato lungo la costa. Manca il bersaglio, la bomba, planando si allontana dalla traiettoria e cade nel giardino del palazzo di mia nonna. Ho detto che per me quella bomba segna l’inizio della violenza perché batte un colpo di tamburo, un colpo di gong, un colpo di avvertimento. Viene a dire a mia madre, a mia nonna, a tutta la gente come noi: «Ecco, ci siamo. Non è più per finta».
Quando parlo di colpo di tamburo (una bomba farebbe pensare più a uno scoppio di tuono), intendo dire che questo fragore ha letteralmente cambiato qualcosa nelle nostre vite (di mia nonna, di mia madre e dei bambini). Fino a quel momento ci eravamo illusi che, varcando la linea di demarcazione e stabilendoci a Nizza, la guerra non ci avrebbe raggiunti.
Ma la guerra arriva a Nizza. Gli inglesi, gli americani, i canadesi hanno cominciato ad attuare il loro piano di invasione della Francia. I tedeschi hanno oltrepassato la linea di demarcazione e deciso di occuparsi del Sud. Non si fidano degli italiani. Hanno deciso di occuparsi di tutta quella gente fuggita al sole, dei transfughi, dei ricchi. Hanno deciso di occuparsi degli ebrei. Perché allora noi?
Noi non siamo ebrei. Non siamo ricchi. Non avremmo nulla da temere. Ma siamo cittadini britannici, da parte di mio padre e di mio nonno. I mauriziani all’epoca non esistono. Apparteniamo alla nazione più detestata dai tedeschi. Quando sono nato, mio padre ha chiesto a mia madre di denunciarmi al consolato degli Stati Uniti, giacché a Nizza non c’era più nessuna rappresentanza britannica. Il console americano è irlandese, si chiama O’Gilvy. Conosce i miei genitori. È lui ad avvertire mia madre: «Stanno arrivando i tedeschi. Dovete andarvene, rifugiarvi da qualche parte, rischiate di essere deportati in un campo di concentramento, lei e tutta la sua famiglia». Ironia della sorte, direi, considerando il fatto che mia nonna, come all’epoca molti francesi, detesta gli inglesi. I tedeschi, però, non andranno troppo per il sottile. Deporteranno tutti. Noi finiremo nei campi.
Il rifugio è il paesino di Roquebillière, nell’entroterra di Nizza, nella valle della Vesubia. Perché mia madre, mia nonna scelgono proprio questo paese? Chi gliel’ha consigliato? La scelta c’entra qualcosa con Saint-Martin, anch’esso nella medesima valle, che accoglie nello stesso periodo (aprile del ’43) una parte della comunità ebraica di Nizza? Forse gli abitanti di questi paesi si sono mostrati caritatevoli? In seguito daranno prova di grande generosità verso i migranti clandestini venuti dall’Italia. Accogliere dei fuggiaschi mentre l’esercito tedesco entra in Provenza è una dimostrazione di coraggio e fermezza. Gli abitanti di quei paesi, a Roquebillière o a Saint-Martin, si esponevano a rappresaglie, gli uomini che restavano rischiavano per primi la deportazione, di essere mandati nei campi. La cosa più straordinaria è che in questi due paesi della Vesubia la solidarietà è stata totale. Non c’è stata nessuna denuncia, non un’obiezione. Tutti gli abitanti, senza eccezione, hanno aiutato i fuggiaschi. La famiglia che ci ha accolto a Roquebillière ha aperto il primo piano di una casa, il cui pianterreno serviva da garage, per accogliere una famiglia di fuggitivi, due donne, un vecchio e due bambini piccoli. Dei britannici, ossia dei nemici degli occupanti. A Saint-Martin, gli stessi montanari hanno accolto famiglie ebree, le hanno ospitate nelle loro case, le hanno aiutate a vivere, in un momento di grande difficoltà generale. Se siamo sopravvissuti, lo dobbiamo senz’altro al loro eroismo tutto d’un pezzo e senza ostentazione.
I bambini, ovviamente, non sanno nulla. Il trasloco dev’essere stato fatto con un camioncino, impensabile circolare per le strade di montagna con l’auto di mia nonna, una De Dion-Bouton giallo paglia, residuo della sua fortuna passata, che avrebbe attirato l’attenzione delle spie. In simili circostanze, che cosa si racconta ai bambini? Partiamo per un viaggio, in vacanza, nient’altro. Non lasciamo nessun indirizzo, troppo rischioso. Mio padre, a ottomila chilometri di distanza, in Africa, non ne sa niente. O magari è stato avvisato dal canale diplomatico americano, da Mr O’Gilvy, senza precisare il luogo. La sua famiglia è al sicuro. È allora che decide di raggiungerci in Francia per aiutarci ad arrivare in Inghilterra? Risale la Nigeria fino a Kano, salta su un camion che attraversa il Sahara, con la speranza di prendere una nave ad Algeri per ricongiungersi con noi nel Sud della Francia. Ma si scontra con il rifiuto di un ufficiale delle Forze francesi libere rimaste in Nordafrica che gli nega il passaggio: lui è inglese, e gli inglesi sono responsabili di aver affondato la flotta francese a Mers-el-Kébir. A meno che non ci sia proprio questo rifiuto all’origine della partenza di mia madre e di mia nonna per l’entroterra nizzardo, per sfuggire ai tedeschi. In un paese in rotta come lo era la Francia nel 1940, non c’è più solidarietà, non ci sono più leggi né dignità. È il regno delle vendette, dei compromessi. Le vecchie ruggini appannano la vista, quelli che ancora potrebbero fare qualcosa, insorgere, imbracciare le armi, sbagliano nemico. Piuttosto che aiutare un inglese si schierano dalla parte del vincitore, gli danno man forte. Ciò spiega forse la sconfitta.
Potrei dire, come Radiguet nell’incipit di Il diavolo in corpo, che la guerra fu per me (per i bambini) quattro anni di ininterrotte vacanze? Eravamo troppo giovani per renderci conto della fortuna che rappresentava per degli adolescenti essere gli unici uomini disponibili. È anche vero che avevamo vissuto in un paese dove c’erano praticamente solo donne e gli unici maschi erano bambini o vecchi. Faceva qualche differenza per noi? I primi anni della mia vita sono cresciuto senza mio padre, che era medico nell’Africa equatoriale. Sapevamo che esisteva, tutte le sere mia madre inscenava una specie di rituale invitandoci a dire una preghierina per «papà» che si struggeva nell’attesa di vederci. Un po’ astratto. Quel «papà» avrebbe potuto benissimo essere «papà Natale». Non scriveva, non mandava foto. Avrebbe potuto essere in prigione o non esistere per niente. Ci mancava? Chi lo sa. Puoi sentire la mancanza di qualcuno che non conosci?
Ma il fatto di aver passato i primi anni della mia esistenza in un ambiente di donne ha sicuramente cambiato l’idea che posso avere di una guerra. Anche oggi, pur sapendo quanto è costato quel periodo in termini di vite umane, soldi, risorse, nel sentire collettivo la guerra conserva una certa nobiltà. Si esalta l’eroismo degli uni, l’astuzia degli altri, il genio dei grandi capitani, il valore degli uomini che quegli anni terribili rivelano. Non si parla delle donne né dei bambini. O al massimo lo si fa per deplorare le perdite di vite umane, i massacri dei civili, gli orrori. Di recente è stato inventato un termine per definire tutto questo: danni collaterali. Il che significa: donne, bambini sono elementi collaterali della guerra, si contabilizzano, si contano le loro ferite e le loro morti come si conteggiano i capi di bestiame persi, gli edifici distrutti, le riserve d’oro o le vettovaglie razziate. Non sono vittime, sono «danni». Non saranno mai eroi. Gli eroi, come scrive il narratore di Per Esmé: con amore e squallore, lo splendido racconto di Jerome David Salinger, bisogna cercarli tra gli sbruffoni, come quell’Hemingway che fa annunciare da un colpo di tamburo il suo ingresso nella mensa degli ufficiali, in Inghilterra, e che il soldato semplice guarda sgomento.
Vivere la guerra in mezzo alle donne era al tempo stesso inquietante e molto dolce. Inquietante perché le donne (anche quelle forti come mia nonna) non avevano il controllo di quello che succedeva fuori. Erano sottomesse alla guerra come, a quei tempi, potevano esserlo all’autorità assoluta degli uomini. Senz’altro non me ne sono reso conto, ma i bambini, anche molto piccoli, intuiscono che gli si nasconde qualcosa e avvertono d’istinto quando gli si mente. C’era una minaccia, ma da dove veniva? Da fuori, sicuramente, poiché bisognava oscurare le finestre con la carta. Poiché si poteva uscire solo in determinati orari, per accompagnare la nonna o la mamma fino al centro del paese, dove vendevano carne, latte, verdure. Da fuori, perché c’era la morte. C’era la parola «morte». Anche a tre, quattro anni, quella parola voleva già dire qualcosa. Spuntava nella conversazione, sulla bocca delle donne. «Tizio è morto. Tizio è stato ucciso.» Non è la morte visibile, è la morte invisibile. Non ne ho un vero e proprio ricordo, ma devo senz’altro aver sentito spesso quelle parole: «morto», «ucciso».
Ma era anche un’atmosfera dolce. Sicuramente molto dolce.
L’appartamento del primo piano si trovava proprio in cima al paese di Roquebillière. Era molto piccolo: una stanza che fungeva da cucina e sala da pranzo, una camera per la nonna, una per me, mia madre e mio fratello e uno stanzino per il nonno (fumava troppo, a dire della nonna, e puzzava di tabacco stantio). La guerra l’abbiamo passata lì. A rendere così gradevole quel posto era l’atmosfera femminile. Poteva sembrare una sistemazione angusta, soprattutto con due bambini piccoli, scalmanati ed esigenti. Al contrario, ho un ricordo generale di una calorosa intimità, una specie di bozzolo dove potevamo crescere al riparo. Fuori l’aria era grigia, umida, fredda; dentro era calda, scaldata dal tepore dei respiri. Con le imposte massicce chiuse, la luce elettrica non lasciava nessuna zona d’ombra, tutti i rumori erano smorzati. Non c’era ness...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CANZONE BRETONE
  4. Sainte-Marine
  5. La signora Le Dour
  6. War an hent
  7. Il Château de Cosquer
  8. Mietitura
  9. Erranze notturne
  10. Dorifore
  11. La guerra
  12. Al mare
  13. Bassa marea
  14. La Torche
  15. Religione
  16. Prima della storia
  17. Il mistero
  18. Breizh atao!
  19. Verso l’autonomia?
  20. Un eroe bretone
  21. IL BAMBINO E LA GUERRA
  22. Copyright