Novembre 1961
Nel 1961, quando le donne giravano in chemisier, frequentavano circoli di giardinaggio e trasportavano allegramente legioni di bambini in automobili prive di cinture di sicurezza; quando nessuno poteva ancora immaginare l’imminente nascita di un movimento epocale, né tantomeno che chi l’aveva sostenuto avrebbe trascorso i successivi sessant’anni a parlarne e raccontarlo; quando le grandi guerre erano ormai finite e quelle segrete appena iniziate e la gente cominciava a pensare in modo nuovo e a credere che tutto fosse possibile, la madre trentenne di Madeline Zott si alzava ogni mattina prima dell’alba, certa di una cosa sola: che per lei la vita era finita.
Nonostante quella certezza, andava in laboratorio e cucinava per la figlia.
Carburante per l’apprendimento, scriveva su un biglietto che le infilava nel cestino del pranzo. Poi si fermava con la matita a mezz’aria, ripensandoci. All’intervallo fai sport, ma non lasciare che vincano sempre i maschi, aggiungeva su un altro. E, dopo una nuova pausa in cui tamburellava con la matita sul tavolo: Non sei tu che te lo sogni, scriveva su un terzo, la gente può essere davvero orribile. Gli ultimi due biglietti li metteva sopra al primo.
La maggior parte dei bambini piccoli non sa leggere, e se sa leggere al massimo sono parole come «cane» o «mela». Madeline, invece, aveva imparato a tre anni e adesso, a cinque, aveva già letto quasi tutto Dickens.
Era una bambina particolare, capace di canticchiare un concerto di Bach ma non di allacciarsi le scarpe, di spiegare la rotazione della Terra ma non di vincere a tris. E proprio lì nasceva il problema. Perché, mentre i bambini prodigio musicalmente dotati fanno grande scalpore, i lettori precoci no, in quanto abili in qualcosa in cui alla fine riusciranno tutti. Dunque primeggiare nella lettura non è una cosa speciale, solo fastidiosa.
Madeline se ne rendeva conto. Ecco perché ogni mattina – dopo che la madre era uscita e Harriet, la sua vicina di casa e babysitter, si trovava impegnata in altro – sfilava con attenzione i biglietti dal cestino, li leggeva e li aggiungeva alla collezione che conservava in una scatola da scarpe in fondo all’armadio. A scuola fingeva di essere come gli altri: in pratica, di non saper leggere. Per lei, far parte del gruppo era più importante di tutto il resto. E il motivo era più che valido: sua madre del gruppo non aveva mai fatto parte, e guarda com’era finita.
Succedeva a Commons, California, dove faceva quasi sempre caldo ma non troppo caldo, il cielo era quasi sempre azzurro ma non troppo azzurro e l’aria pulita semplicemente perché a quei tempi era così. Madeline restava a letto con gli occhi chiusi e aspettava. Sapeva che la attendevano un delicato bacio sulla fronte, una sistematina premurosa delle coperte all’altezza delle spalle, l’invito appena sussurrato a cogliere l’attimo. E un minuto dopo sentiva accendersi il motore, la ghiaia del vialetto scricchiolare sotto gli pneumatici della Plymouth che procedeva in retromarcia, e infine lo stridore secco del cambio che ingranava la prima: sua madre che, irrimediabilmente depressa, partiva per lo studio televisivo dove avrebbe indossato il grembiule e fatto ingresso sul set.
Il programma si chiamava Cena alle sei ed Elizabeth Zott ne era la star indiscussa.
Ex chimica ricercatrice, Elizabeth Zott era una donna dalla pelle perfetta e dal tipico atteggiamento di chi non rientra nella media, né mai ci rientrerà.
Come tutte le vere star era stata scoperta per caso, sebbene nella fattispecie non ci fossero di mezzo fortunati incontri in gelateria, avvistamenti casuali mentre era all’opera o presentazioni provvidenziali. No, nel caso di Elizabeth a portare alla sua scoperta era stato un furto, per la precisione un furto di generi alimentari.
I fatti erano semplici: una bambina di nome Amanda Pine, affetta da una passione per il cibo che un dietologo non avrebbe esitato a definire importante, si era messa a mangiare il pranzo di Madeline. Questo perché il pranzo di Madeline era un po’ diverso dalla media. Mentre tutti gli altri bambini biascicavano i loro panini con burro di arachidi e marmellata, Madeline apriva il cestino e ci trovava una bella porzione di lasagne con contorno di zucchine burrose, un esotico kiwi tagliato a spicchi, cinque pomodori ciliegini annidati contro un minuscolo salino Morton, due biscotti con gocce di cioccolato ancora tiepidi e un thermos rosso scozzese di latte ghiacciato.
A causa di questo contenuto tutti volevano il cestino di Madeline, Madeline compresa. Lei però lo offriva ad Amanda, perché l’amicizia implica sacrificio e perché Amanda era l’unica di tutta la scuola a non prenderla in giro per essere la strana bimba che Madeline sapeva già di essere.
Solo quando notò che i vestiti le penzolavano addosso come su uno spaventapasseri, Elizabeth cominciò a chiedersi che cosa stesse succedendo a sua figlia. Secondo i suoi calcoli, l’apporto calorico giornaliero di Madeline era esattamente quello previsto per uno sviluppo ottimale, il che rendeva scientificamente impensabile una perdita di peso. Uno scatto di crescita, allora? Impossibile, visto che quelli li aveva messi in conto. I prodromi di un disturbo alimentare? Improbabile. A cena Madeline mangiava con grande appetito. Leucemia? Ma neanche per sogno. Elizabeth non si allarmava facilmente: non era tipo da restare sveglia la notte immaginando la figlia colpita da una qualche malattia incurabile. Da scienziata qual era, cercava sempre la spiegazione più razionale, e il giorno in cui conobbe Amanda Pine, la bocca ancora sporca di salsa di pomodoro, seppe di averla trovata.
«Signor Pine» disse un mercoledì pomeriggio, entrando come un tornado nello studio televisivo senza curarsi della segretaria, «sono tre giorni che la cerco e che lei non si degna di ritelefonarmi. Mi chiamo Elizabeth Zott, sono la madre di Madeline Zott. Le nostre figlie vanno alla Woody Elementary insieme. Sono qui per dirle che la sua si spaccia per amica di Madeline al solo scopo di approfittarsi di lei.» E, poiché il signor Pine aveva l’aria confusa, aggiunse: «Le mangia il pranzo».
«Il... pranzo?» ripeté a fatica Walter Pine, osservando quello splendore di donna fermo davanti a lui, il camice bianco da laboratorio che diffondeva un alone di luce sacra, tranne che per il dettaglio delle iniziali – E.Z. – ricamate in rosso appena sopra il taschino.
«Amanda» ripartì in quarta lei «si sbafa ogni giorno il pranzo di mia figlia, e a quanto pare la cosa va avanti da mesi.»
Pine la fissava senza parlare. Alta e spigolosa, capelli bruni come il pane tostato fissati in uno chignon con una matita, se ne stava con le mani piantate sui fianchi, le labbra sfacciatamente rosse, la pelle luminosa, il naso dritto, guardandolo dall’alto in basso come un ufficiale medico indeciso se tentare di salvare un ferito sul campo di battaglia.
«E il fatto che si finga amica di Madeline solo per questa ragione mi pare decisamente riprovevole.»
«Mi... mi ripete chi è lei, scusi?» balbettò Pine.
«Elizabeth Zott!» ringhiò. «La madre di Madeline!»
Lui annuì, sforzandosi di comprendere. Da navigato produttore di programmi televisivi pomeridiani aveva una certa dimestichezza con il dramma, ma questo? Continuò a fissarla. Era incantevole. Ne era letteralmente stregato. Che fosse venuta per un provino?
«Mi dispiace» riuscì finalmente a dire. «Purtroppo il cast è già a posto con le infermiere.»
«Come, prego?»
Seguì una lunga pausa.
«Amanda Pine» ripeté quindi Elizabeth.
«Oh» esclamò lui, improvvisamente nervoso, «mia figlia? Cos’è successo? Lei è un medico? La manda la scuola?» Si alzò di scatto dalla sedia.
«Ma no, che diamine!» ribatté lei. «Sono un chimico, e sono venuta fin qui dall’Hastings sacrificando la pausa pranzo perché lei non si degnava di richiamarmi.» Poi, di fronte alla sua espressione ostinatamente disorientata, ricominciò: «Ha presente l’Hastings Research Institute? Innoviamo l’innovazione?». A quel vuoto slogan, sospirò. «Il fatto è che ogni giorno ce la metto tutta per preparare a Madeline cibi nutrienti, cosa che sono certa facciate anche voi per Amanda.» E, visto che ancora non gli si accendeva nessuna lampadina, aggiunse: «Perché di sicuro ci tenete allo sviluppo fisico e cognitivo di vostra figlia e sapete quanto dipenda da un apporto equilibrato di minerali e vitamine».
«Ecco, vede, mia moglie...»
«Sì, lo so: dispersa. Ho provato a contattarla e mi hanno detto che vive a New York.»
«Siamo divorziati.»
«Desolata, ma il vostro divorzio ha poco a che fare con l’alimentazione di Amanda.»
«Così potrebbe sembrare, solo che...»
«Anche un uomo può preparare da mangiare, signor Pine, non è un evento biologicamente impossibile.»
«Ma certo» convenne lui, offrendole goffamente una sedia. «La prego, signora Zott, si accomodi.»
«Ho una cosa nel ciclotrone» rispose lei in tono irritato, lanciando un’occhiata all’orologio. «Allora, ci siamo capiti?»
«Ciclo...?»
«Acceleratore di particelle subatomiche.»
Elizabeth si guardò intorno. Le pareti erano tappezzate di locandine pubblicitarie di soap opera e giochi a quiz.
«È il mio lavoro» disse Pine, di colpo imbarazzato da tanta prosaicità. «Forse conosce qualche titolo?»
Lei tornò a girarsi. «Signor Pine» riprese, in tono più conciliante, «mi dispiace di non avere né il tempo né le risorse per preparare il pranzo anche per sua figlia. Sappiamo entrambi che il cibo è il catalizzatore che stimola l’attività del cervello, il cemento che tiene unite le famiglie e un fattore determinante per il nostro futuro. Eppure...» Le sue parole si spensero, mentre socchiudeva gli occhi studiando il manifesto di una soap opera in cui un’infermiera somministrava cure poco convenzionali a un paziente. «Qualcuno ha forse tempo di insegnare al nostro paese a far da mangiare in modo sensato? Vorrei averlo io, ma non è così. Lei ce l’ha?»
Mentre si voltava per uscire, Pine, che non voleva lasciarla andare ma nemmeno si rendeva conto della valanga che stava per scatenare, si affrettò a dire: «Un attimo, la prego... un attimo. Che cos’è che... che ha detto? Di insegnare al paese a far da mangiare... in modo sensato?».
Cena alle sei debuttò quattro settimane dopo. E pur non essendo del tutto entusiasta dell’idea – in fondo era una chimica ricercatrice – Elizabeth accettò quel lavoro per le solite ragioni: era pagato meglio e lei aveva una figlia da mantenere.
Fu chiaro fin dal primo giorno in cui indossò il grembiule e mise piede sul set: bucava. Possedeva quella qualità elusiva e meravigliosamente guardabile che bucava lo schermo. Ma era anche una persona di sostanza, così schietta e concreta da sfuggire alle classificazioni. Se gli altri programmi di cucina proponevano simpatici chef che stappavano bottiglie di sherry con aria giuliva, Elizabeth Zott era serissima, non sorrideva mai e nemmeno faceva battute. I suoi piatti erano come lei: semplici e onesti.
Dopo sei mesi il suo show era già lanciato verso il successo. Nel giro di un anno era diventato un’istituzione. Tempo due anni e aveva dimostrato la straordinaria capacità di riconciliare non solo i genitori con i figli, ma addirittura i cittadini con il loro paese. Non è esagerato affermare che con la sua cena Elizabeth Zott metteva a tavola un’intera nazione.
Tra gli spettatori del programma c’era persino il vicepresidente Lyndon Johnson. «Lo sa cosa penso?» disse una volta, per levarsi di torno un giornalista particolarmente molesto. «Penso che dovrebbe scrivere meno e guardare più televisione. Inizi con Cena alle sei: quella Zott sì che sa il fatto suo.»
Ed era vero. Lei non perdeva tempo a spiegare come confezionare elaborati minisandwich al cetriolo o delicati soufflé. Le sue ricette erano sane e genuine: spezzatini, stufati al forno, cibi per cui servivano grossi tegami di metallo. Insisteva sui quattro gruppi alimentari. Era una sostenitrice delle porzioni generose. E ripeteva che qualunque piatto valesse la pena d’essere portato in tavola non richiedeva più di un’ora di preparazione. Chiudeva ogni puntata col suo motto: «Bambini, andate ad apparecchiare. Vostra madre ha bisogno di un attimo di tregua».
Un importante giornalista scrisse un pezzo intitolato Perché mangiamo qualunque cosa ci scodelli, dove en passant la chiamava «Bocconcino Lizzie», soprannome azzeccato tanto nella sostanza quanto nel suono e che da allora non riuscì più a scrollarsi di dosso. Da quel giorno tutti cominciarono a chiamarla Bocconcino, ma per sua figlia non cambiò niente. Benché piccola, anzi, Madeline si rese immediatamente conto che quel nomignolo sminuiva i talenti di sua madre, che er...