Introduzione
di Giovanni Bacchini
L’uomo
L’eccelsa figura di san Bernardo di Chiaravalle domina la prima metà di quel XII secolo che gli storici hanno chiamato, per il grande slancio degli studi filosofici e teologici oltre che per un rinnovato interesse per la natura, «il secolo della rinascita»; o anche, per la straordinaria fioritura di scritti sul tema dell’amore – avvenuta sia nei chiostri, ove si cantano la carità di Dio e i suoi meravigliosi effetti, sia nel secolo, ove assume l’aspetto di amor cortese –, «il secolo dell’amore»; o ancora, proprio perché contraddistinto dalla eccezionale personalità dell’abate di Clairvaux, «il secolo di san Bernardo».
Il contesto sociale, politico ed economico di questo periodo si presenta particolarmente vivace, segnato da grandi eventi e da profonde trasformazioni. L’incremento demografico, iniziatosi nel secolo X, aveva innescato un processo gravido di notevoli e irreversibili rivolgimenti, provocando la crisi del tradizionale assetto della società, composto da bellatores, quelli che combattono, oratores, quelli che pregano, e laboratores, quelli che lavorano (secondo la nota tripartizione di Adalberone di Laon, il quale però, quando ne scrive intorno al 1030, tradisce la preoccupazione che questo ordine sociale si stia scompaginando). Si assiste, infatti, alla fuga dei contadini dalle campagne – per l’aggravamento delle loro condizioni a causa della nascita di una nuova classe di imprenditori agricoli del ceto medio, particolarmente interessata alle rendite delle terre ottenute in affitto a lunghissimo termine dai signori –, alla ripresa della vita cittadina, alla nascita della civiltà comunale, alla progressiva formazione delle monarchie nazionali, alla crescente irrequietezza della feudalità minore, la quale, esclusa dal potere per ragioni dinastiche, troverà sfogo nella Cavalleria e nella Crociata, incanalandosi poi nel sempre più potente ceto mercantile.
Anche in campo culturale c’è grande ricchezza di fermenti, che si evidenzia soprattutto nella nascita delle università e della teologia scolastica, in seguito alla diffusione dalla Spagna, attraverso l’opera dei filosofi arabi, degli scritti logici di Aristotele, che impongono alla vecchia Europa cristiana un ripensamento sulla propria identità e alla teologia un linguaggio nuovo e più adeguato per considerare le verità di fede, inducendola a confrontarsi con la filosofia pagana greco-ellenistica. Da qui lo scontro con la plurisecolare tradizione della teologia monastica, di cui san Bernardo sarà uno degli ultimi esponenti, e di cui avremo occasione di parlare diffusamente più avanti.
In campo religioso, poi, era in pieno svolgimento la cosiddetta «riforma gregoriana» – dal nome di Papa Gregorio VII (1073-1085) –, un movimento di grande rinnovamento che, partito dal monastero di Cluny nel secolo X, si proponeva una radicale lotta alla corruzione dei costumi del clero, afflitto da mali endemici come la simonia e il concubinato, conseguenza dell’infeudamento della Chiesa a opera dell’imperatore Ottone I (936-973). Costui, per arginare la potenza dei grandi feudatari laici e resistere alle pressioni della nobiltà minore, che pretendeva anche per sé l’ereditarietà dei feudi, concessa alla maggiore nell’877, concepì il disegno di inserire a pieno titolo la Chiesa nella struttura feudale dell’Impero, conferendo a vescovi e abati i diritti e le funzioni governative dei conti. Ma, a lungo andare, gli imperatori, per puntellare il loro potere sempre più precario, furono indotti a privilegiare, nella scelta dei vescovi-conti, doti politico-militari a scapito di quelle spirituali e religiose, con la conseguente corruzione della gerarchia ecclesiastica.
Neppure le masse popolari restarono assenti in questo processo di rinnovamento, conducendo una lotta senza quartiere contro vescovi e prelati simoniaci, spesso in modo spontaneistico e tumultuoso, come fecero, per esempio, i «patarini» a Milano, i quali videro uno dei loro capi, Anselmo da Baggio, diventare prima vescovo di Lucca e poi addirittura Papa col nome di Alessandro II (1061-1073).
Tutti i riformatori si trovarono, comunque, d’accordo nell’individuare la causa dei mali che affliggevano la Chiesa nell’ingerenza laica nelle nomine ecclesiastiche. Da qui la cosiddetta «lotta per le investiture», la quale oppose aspramente il papato, che combatteva per la propria autonomia (la libertas Ecclesiae), all’impero, che non intendeva rinunciare al suo potere di controllo sull’istituzione ecclesiastica: chiusasi momentaneamente col compromesso del Concordato di Worms del 1122, si trascinerà fino al secolo successivo, cioè fino alla dissoluzione dell’impero come potestà universale.
Questo è, molto sommariamente, il quadro della situazione che fa da sfondo alla vita di san Bernardo. Ricostruirla con sufficiente precisione, soprattutto per quanto riguarda l’infanzia e la giovinezza, è impresa ardua, visto che se ne è sottratto anche il più insigne studioso del grande santo, dom Jean Leclercq, che pure ha passato la vita a occuparsene. Il motivo è che anche Bernardo, come si scrisse di altri, «è entrato nella leggenda prima ancora di entrare nella storia». Egli era ancora in vita quando il suo segretario, Goffredo di Auxerre, aveva incominciato a raccogliere materiale per una biografia del santo, naturalmente a sua insaputa, temendo che l’insigne apostolo dell’umiltà, qualora ne fosse venuto a conoscenza, glielo avrebbe impedito. Non potendo attingere notizie direttamente da Bernardo, fece ricorso a Vite di santi precedenti, tutte più o meno fondate su un canovaccio comune, fatto di episodi edificanti allo scopo di esaltarne la figura. Questo «dossier» venne poi trasmesso a Guglielmo di Saint-Thierry, grande estimatore e amico di Bernardo – e che morì nel 1148, cinque anni prima di colui del quale doveva scrivere la Vita –, perché gli conferisse degna veste letteraria: questi vi aggiunse le proprie considerazioni personali sul santo, fatte dall’angolo visuale della propria esperienza e delle proprie idee sulla vita religiosa e sulla ricerca di Dio. Ne uscì, come scrive il Leclercq, «un capolavoro, non di storia obiettiva, ma di letteratura spirituale», che andò a costituire il Libro I della Vita prima. La stesura del Libro II fu affidata a un altro valente letterato, Arnaldo di Bonneval, che aveva frequentato poco il santo, e gli altri tre Libri di nuovo a Goffredo di Auxerre, il quale, però, in questi ultimi, racconta da testimone diretto ed è quindi maggiormente attendibile. Successivamente e sulla base della Vita prima, ne furono redatte altre tre, fra storia e leggenda.
Limitiamoci alle notizie sicure. Bernardo vede la luce da nobili natali nella fortezza di Fontaines, vicino a Digione, nel 1090. Il padre, Tescelino, era vassallo del duca di Borgogna; la madre, Aletta, era figlia del conte Bernardo di Montbard. Prese, dunque, il nome dal nonno ed ebbe cinque fratelli e una sorella. Mentre i fratelli furono avviati alla carriera militare, egli fu affidato per i primi studi ai canonici di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine. Non si sa se qui abbia frequentato solo il trivio (formato dalle prime tre arti liberali: grammatica, retorica e dialettica) o anche il quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica). È comunque certo che manifestò presto eccellenti abilità retoriche e letterarie – dovute all’assidua frequentazione dei classici e dei Padri – che traspaiono anche dal gusto per le allitterazioni, giochi di parole e artifici di ogni genere. Una conferma di queste brillanti capacità ci viene, oltre che dalla sua straordinaria produzione, anche da un suo detrattore, Berengario lo Scolastico, discepolo di Abelardo, che ci fornisce del santo un ritratto caricaturale, fatto con toni talmente violenti e sarcastici da indurre lo stesso autore a una successiva ritrattazione. Per vendicarsi di lui, reo di aver voluto a tutti i costi la condanna del suo maestro al Concilio di Sens del 1141, compose una Apologia nella quale scrive che Bernardo «quasi dall’inizio della sua adolescenza» componeva «canzonette ritmiche», «poemi spassosi» e che «nei concorsi di versificazione egli cercava di prevalere su tutti con la sua astuzia».
Comunque, di questo periodo della sua vita Bernardo non dice nulla. Si lascia sfuggire soltanto un cenno, a proposito della sua vocazione, in una lettera (la II, che può essere datata approssimativamente intorno al 1120), quando, parlando di un suo cugino, arcidiacono di Langres, che aveva convinto un suo nipote a lasciare la vita religiosa, aggiunge: «In me, certamente, ha voluto spegnere il fervore del noviziato, ma non c’è riuscito».
La sua vocazione maturò da adulto, poiché il suo ingresso nel monastero di Cîteaux avviene nel 1112 (o nel 1113). Anche a questo proposito ci si può rendere conto della forte personalità di Bernardo, delle sue doti di leader, poiché, nel giro di non molti mesi, convinse i cinque fratelli e uno zio, impegnati in quel momento in operazioni militari, a seguirlo, in compagnia di altri amici e congiunti: in tutto, una trentina di persone. Gli storici si sono affrettati a farci sapere che questa entrata in massa nella vita religiosa non era poi così infrequente; resta, comunque, confermato il suo temperamento da vero trascinatore.
Un altro indizio del suo carattere è la scelta di entrare nell’ordine cistercense, un ordine monastico di nuova fondazione, dovuta a Roberto di Molesmes, il quale, dopo essere entrato giovanissimo nell’ordine benedettino, se ne era staccato e, desideroso di una sempre maggior perfezione, si era rivolto all’eremitismo e poi aveva fondato, nel 1098, il monastero di Cîteaux (Cistercium), per rivivere l’antica austerità della regola di san Benedetto.
In questo periodo, infatti, la spinta innovativa del movimento partito da Cluny si stava esaurendo e si verificava come in esso fosse insito il germe di una diversa forma di corruzione, dovuta all’aumento sempre crescente di ricchezza e di potenza. L’esempio di autenticità religiosa professato dai monasteri cluniacensi finì per concentrare su di essi una quantità sempre più ingente di lasciti e di pie donazioni, che li trasformarono a loro volta in vere e proprie istituzioni feudali, inserendoli nelle competizioni territoriali al pari delle altre simili e assorbendone importanti energie nell’amministrazione e nella difesa dei diritti di beni sempre più vasti e contrastati. Inoltre, il sistema della congregazione (a differenza del monachesimo precedente, che faceva dei singoli monasteri entità autonome, soggette unicamente all’autorità dell’abate locale) rese l’abate di Cluny uno degli uomini più potenti d’Europa già ai tempi dell’abbaziato del grande Odilone (998-1048); nel momento della sua massima diffusione, all’inizio del XII secolo, poi, la sua giurisdizione si estendeva a circa 2.000 fra abbazie, priorati e celle. Anche esteriormente le residenze cluniacensi manifestavano visibilmente tale condizione. Le chiese dei monasteri – proprio per la rinnovata importanza data alla preghiera, alla recita comunitaria delle ore canoniche, al canto, alle celebrazioni liturgiche, svolte con grande solennità e sfarzo – si distinguevano per grandiosità e straordinaria esuberanza decorativa; le stesse celle dei monaci, da austere, povere, nude, si erano fatte belle e confortevoli – «sontuose e, pudore permettendo, anche sfarzose», «non tanto eremitiche, quanto aromatiche, dal valore di cento monete d’oro ciascuna, cupidigia dei nostri occhi, ma provenienti dalle elemosine dei poveri», tuona Guglielmo di Saint-Thierry nella Lettera d’oro (147-148) –. Anche lo stile di vita si era notevolmente rilassato, come stigmatizza lo stesso Bernardo in una lettera, indirizzata a suo nipote Roberto, il quale, approfittando dell’assenza dello zio da Clairvaux, era passato alla meno rigida regola di Cluny. Bernardo lo paragona a una pecorella, sedotta dalla propaganda di un pezzo grosso dell’ordine cluniacense, il quale come un lupo rapace, «rivelandosi predicatore di un nuovo Vangelo, gli raccomanda la crapula, gli svaluta la parsimonia, bolla come miseria la povertà volontaria, definisce pazzia i digiuni, le veglie, il silenzio, il lavoro manuale; di contro, dà all’ozio il significato di contemplazione, fa passare per discrezione la voracità, la loquacità, la curiosità, ogni forma di intemperanza... Il ragazzo finisce col credere, per sua disgrazia, a queste circonvenzioni, ne è irretito e sedotto, segue il suo seduttore, è condotto a Cluny; è tosato, è rasato, è lavato; è spogliato dei suoi abiti rozzi, vecchi, sporchi, è rivestito di abiti nuovi, puliti, preziosi, e quindi viene accolto in convento» (Lettera I, 4-5).
Si assiste, perciò, a una reazione tesa a ripristinare l’ideale eremitico – simbolo di austerità, povertà, semplicità, distacco dal mondo e dai suoi beni – e il lavoro manuale, visto come importante strumento di ascesi: «È l’esercizio – scrive ancora san Bernardo al nipote – a ridare sapore alle cose a cui l’ha tolto l’inerzia. Molti cibi che, quando stai in ozio, ti disgustano, li addenterai con piacere quando avrai faticato, perché l’ozio genera la nausea e l’esercizio provoca la fame; e la fame, a sua volta, rende miracolosamente dolci i cibi che la nausea respinge come insipidi. I legumi, le fave, la polenta, il pane grossolano con l’acqua a chi sta senza far niente destano ripugnanza, ma sono una delizia per chi s’è dato da fare» (Lettera I, 12).
Fin dagli inizi del secolo XI, perciò, nascono all’interno del monachesimo nuove correnti, caratterizzate da manifestazioni di predicazione itinerante e di pratiche penitenziali, destinate a riaccendere il fervore dell’antica spiritualità orientale. Le fondazioni più famose che si richiamano a questi ideali sono, in Italia, quelle di Camaldoli e Fonte Avellana (dovute a san Romualdo), di Vallombrosa (a san Giovanni Gualberto), di Grottaferrata (a ...