Gheddafi
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Nell'ottobre 2011, Muhammar Gheddafi, da quarantadue anni leader della Libia, fu assassinato da alcuni ribelli dopo otto mesi di guerra e una campagna aerea della Nato. Costruito su documentazione d'archivioe interviste inedite ai protagonisti di quei torbidi, l'autore ritesse in questo libro la trama dei retroscena che portarono alla caduta del regime del colonnello sfidando le più comuni ricostruzioni. Ne emerge una realtà complessa e a tratti grottesca: da un lato, un Gheddafi trasformatosi in un vecchio e triste tiranno, circondato da una famiglia disfunzionale e da una cerchia di cortigiani e fanatici in un labirinto di paranoie e abiezioni; dall'altro, un Occidente, a lungo colluso, improvvisamente desideroso di muovergli guerra per interessi più triviali che machiavellici. Indagando la vita interna del regime, i tentativi di riforma di Saif al-Islam, le proteste e la crisi degli Stati arabi, ma anche le motivazioni di Nicolas Sarkozy, Barack Obama, David Cameron e Silvio Berlusconi, il libro offre una ricostruzione storica per capire la crisi della Libiae del Medio Oriente, ma ancheper indagare i temi del dispotismo, della caduta e della rivoluzione.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788833373577

Capitolo 1
Il Mediterraneo e il Medio Oriente
durante la Guerra Fredda

Considerazioni di longue durée sulle dinamiche politiche del Medio Oriente
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il Mediterraneo ed il Medio Oriente attraversarono tumultuosi periodi di transizione. Un ordine regionale dominato da traballanti potenze coloniali fu sostituito da un ordine politico definito dalla rivalità tra Stati Uniti ed Unione Sovietica che, gradualmente, si impose su autonome dinamiche regionali condizionate ad un tempo dalla questione palestinese e dallo scontro inter-arabo.1 Quest’ultimo fu non soltanto espressione di una politica di potenza indirizzata a ridefinire gli equilibri e l’egemonia del Medio Oriente ma anche conseguenza di una competizione ideologica e religiosa per i cuori e le menti del mondo musulmano. Da un lato c’erano coloro i quali difendevano le aspirazioni all’unità araba con gli strumenti ed il linguaggio del nazionalismo e del socialismo rivoluzionario; dall’altro chi, come i Fratelli Musulmani, professava un’interpretazione politica dell’Islam destinata a confliggere, spesso violentemente, con i regimi autoritari di stampo apparentemente secolare che si sarebbero nel tempo insediati nell’area. Questa convergenza tra la storia del Mediterraneo e le dinamiche globali della Guerra Fredda consente riflessioni di longue durée.2
L’assenza di un potere legittimo fu la causa, sebbene non l’unica e non in modo esclusivo, che nel 1945 portò al collasso l’ordine politico in Medio Oriente. Problemi di autorità e legittimità si sommavano alla ricerca di un equilibrio di potenza regionale in un ambiente altamente competitivo che finì per influenzare, oltreché esserne influenzato a sua volta, le dinamiche globali della Guerra Fredda.3 Buona parte della storiografia è concorde nell’affermare che, almeno fino alla costruzione del Muro di Berlino nell’agosto 1961 o alla crisi di Cuba dell’ottobre 1962, il conflitto bipolare avesse l’Europa come campo di battaglia e la risoluzione della questione tedesca come obiettivo. Di fronte all’impossibilità di raggiungere un accordo, fosse di natura politica o militare, le superpotenze accettarono di non poter modificare lo status quo in Europa al costo di un conflitto generale e la Guerra Fredda iniziò a globalizzarsi, incrociando il grande momento della decolonizzazione.4 Tuttavia, se il Terzo Mondo divenne il pomo della discordia dopo il 1960, la regione del Mediterraneo fu motivo di preoccupazione già dalla crisi iraniana (1945-46), dalla guerra civile in Grecia (1946-1949) e dalla prima guerra arabo-israeliana (1948). Sebbene la linea del fronte fosse stata stabilita a Berlino, il Fianco Sud dell’Europa richiese fin da subito l’attenzione degli Stati Uniti.
Dal 1945 fino alla disfatta anglofrancese a Suez nel 1956, sia il Regno Unito sia la Francia tentarono di salvare il salvabile dai loro Imperi, pensando a nuovi modi per mantenere la propria influenza nella regione del Medio Oriente. Londra cercò inizialmente di proteggere il suo interesse storico: dominando un territorio cuscinetto esteso dall’Egitto all’Iran, la Corona poteva controllare la principale e più rapida via di comunicazione verso l’India. Nondimeno, all’indomani dell’indipendenza indiana del 1947, gli inglesi avevano trovato una nuova ragione rimanere: il petrolio.5 La produzione di greggio generava i profitti necessari a migliorare la bilancia dei pagamenti britannici e contenere la crisi finanziaria del dopoguerra.6 Allo stesso tempo, di fronte alle prime avvisaglie del conflitto bipolare, una catena di governi arabi filo-occidentali appariva come la soluzione più immediata ed efficiente per escludere i sovietici dall’area, controllare una regione che avrebbe potuto essere utilizzata per dislocare basi aeree da cui lanciare attacchi contro il fianco meridionale dell’Urss e tagliare a quest’ultima una via diretta di accesso all’Africa. L’interesse russo nel Medio Oriente risaliva ai primi decenni del XVIII secolo quando Mosca cominciò a cercare l’accesso al Mediterraneo esercitando pressione dai suoi possedimenti sul Mar Nero. L’Unione Sovietica, dopo la rivoluzione del 1917, semplicemente ereditò questo imperativo geostrategico che rifletté non tanto, o non soltanto, le vecchie ambizioni degli zar a lambire i mari caldi ma anche il desiderio di rompere l’accerchiamento, reale o presunto che fosse, al quale si sentivano soggetti.7 Ma nell’immediato dopoguerra né la Gran Bretagna né tantomeno la Francia avevano più il potere politico o la forza economica necessarie alla restaurazione delle loro politiche imperiali senza soffrirne le inevitabili ripercussioni.8
Tra il 1945 e il 1952, il governo inglese si risolse a scommettere sulle vecchie monarchie alleate di Egitto, Iraq e Giordania. Il contestuale disimpegno francese dai mandati di Siria e Libano creò inoltre l’opportunità per un allargamento a settentrione dell’influenza della Corona, un tentativo che finì per generare attriti con Parigi al punto che la Francia tentò di ostacolare l’avvicinamento in corso tra la Siria e l’Iraq hashemita.9 La situazione era ancor più grave in Palestina dove Londra aveva ottenuto un mandato della Società delle Nazioni: sporadici scontri tra le comunità ebraiche ed arabe esplosero in un conflitto aperto che reclamò vittime anche tra i soldati britannici. Il costo economico di sostenere il mandato, senza considerare quello politico e di immagine derivato da un’aspra repressione, non erano semplicemente sostenibili e il governo inglese girò la questione alle Nazioni Unite. Quest’ultime pianificarono la partizione della Palestina storica, un progetto approvato dall’Assemblea generale nel novembre 1947 e che aprì la strada alla nascita di Israele nel maggio 1948.10 La Terra Santa si trasformò in terra di contesa e subito dopo la dichiarazione di indipendenza del nuovo Stato ebraico gli eserciti arabi invasero quel lembo di terra sparando i primi colpi di una guerra mai realmente conclusa.
L’insieme di questi pochi elementi serve a chiarire l’interesse che il bacino del Mediterraneo suscitò nelle due superpotenze ben prima dell’inizio della decolonizzazione. Inizialmente, l’amministrazione di Harry S. Truman confidò che i Britannici avrebbero promosso e difeso gli interessi occidentali nella regione ma, già nei primi mesi del 1947, gli Stati Uniti dovettero intervenire a causa del peggioramento della crisi turca e di quella greca. Quest’ultima, sebbene in modo artatamente forzoso, divenne il pretesto per pubblicizzare il significato nuovo che la politica estera americana stava acquisendo sotto la direzione del Segretario di Stato George Marshall e grazie alla trasformazione delle intuizioni di George Kennan nella dottrina del contenimento. Il nuovo impegno globale degli Stati Uniti scontava in effetti due ordini di problemi: da un lato, la pressione inglese all’azione non lasciava spazio per un’attenta pianificazione dell’intervento in Medio Oriente; dall’altro, la diplomazia americana avrebbe dovuto difendere politiche che contrastavano con i principi democratici che essa incarnava in nome di un imperativo strategico, cioè il contenimento dei sovietici, che non era ancora ben compreso nella sua importanza dall’opinione pubblica americana. Dean Acheson, Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri, insistette sulla pericolosità del comunismo, profetizzando funeste ripercussioni che si sarebbero verificate nel Mediterraneo in seguito ad una vittoria comunista in Grecia o se i sovietici avessero ottenuto il controllo dei Dardanelli e degli Stretti.11 Non possiamo sapere fino a che punto la minaccia comunista fosse reale, nondimeno l’idea di lasciare ai sovietici il controllo della Grecia o della Turchia, e di conseguenza del Bosforo, non era un rischio da ritenersi in alcun modo accettabile. La minaccia dell’Urss fu allora controbilanciata dalla dottrina Truman nel marzo 1947. John Lewis Gaddis ha sfidato la vulgata secondo cui la dottrina avrebbe rappresentato un punto di svolta nella politica estera americana, affermando la coerenza della stessa con la premessa di prevenire che una singola potenza ostile dominasse il continente europeo; un’ipotesi che la Casa Bianca aveva cominciato a considerare già durante la guerra guardando con preoccupazione al comportamento dei sovietici in Polonia e più generalmente in Europa orientale.12 Si potrebbe allora sostenere che la dottrina Truman fu un annuncio formale, diretto più all’opinione pubblica americana che non ai sovietici, dell’impegno globale degli Stati Uniti. Parimenti, la dottrina non riguardava il contenimento del comunismo in quanto ideologia: l’amministrazione americana si era infatti dimostrata ben lieta dello strappo tra Tito e Stalin e avrebbe cercato di promuovere una soluzione jugoslava in Cina. I funzionari del Dipartimento di Stato temevano infatti che introdurre sottili sfumature tra forme diverse di comunismo e suddividere gli interessi americani tra “vitali” e “periferici” avrebbe creato ulteriore confusione e indebolito l’impalcatura della costituenda politica estera del dopoguerra. Gaddis sottolinea d’altronde che la traduzione in concetti operativi di quegli input politici non sarebbe giunta che tre anni dopo il discorso del Presidente al Congresso. In altre parole, Truman portò avanti una importante operazione in virtù della quale il perimetro di sicurezza degli Stati Uniti, che la dottrina Monroe del 1823 aveva implicitamente fissato all’emisfero occidentale, veniva esteso a tutto il Mediterraneo orientale e di conseguenza al Medio Oriente.13
L’interesse sovietico nell’accesso al Mediterraneo non significava un interesse nel Medio Oriente in senso stretto. Nikita Krusciov osservò nelle sue memorie che prima del 1955-56 la leadership sovietica realisticamente aveva riconosciuto che l’equilibrio di potenza nel Medio Oriente non era in loro favore. Stalin considerò la regione come un’area essenzialmente ad influenza occidentale, senza per altro nascondere una certa diffidenza nei confronti degli arabi, ritenendo che anche il colpo di Stato egiziano del 1952 fosse semplicemente “un altro di quei putsch militari a cui ci ha già abituato il Sud America”.14 Dietro ai colonnelli egiziani non poteva che esserci o la rivalità angloamericana o un tentativo di abortire una insurrezione popolare. Lidiia Nina Vatolina, principale analista sovietica di questioni egiziane, descrisse a Stalin gli Ufficiali Liberi come: “volgari reazionari, terroristi, antidemocratici, demagogici”.15 Agli occhi dei sovietici dunque, il Medio Oriente, almeno fino ai prodromi della crisi di Suez, era inteso come una vasta area controllata da entità monarchico-tribali e tradizionaliste sotto la pressione e l’influenza dell’Occidente. Questo insieme di percezioni negative influenzarono la decisione di riconoscere lo Stato d’Israele poco dopo la proclamazione di indipendenza: nel 1948, i sovietici guardarono al nuovo Stato ebraico come ad un’isola di progressismo in un mare reazionario, consapevoli oltretutto che larga parte della popolazione israeliana era originaria delle comunità ebraiche dei paesi dell’Europa orientale e condivideva sentimenti e inclinazioni socialiste. Soltanto dopo la morte di Stalin Krusciov immaginò un ruolo attivo per l’Urss nel mondo arabo, connettendo questa politica regionale ad un più ampio impegno globale verso quei paesi del Terzo Mondo che stavano marciando verso l’indipendenza dai loro vecchi padroni coloniali.
Per un breve momento, il Mediterraneo parve tornare al suo vecchio assetto imperiale con Francia e Gran Bretagna intenzionate a imporre nuovamente il loro controllo sul litorale nordafricano. Eppure, alla metà degli anni 1950, la posizione delle vecchie potenze coloniali si indebolì al punto che...

Indice dei contenuti

  1. GHEDDAFI Ascesa e caduta del ra‘is libico
  2. Prologo La caduta, la rivoluzione e la storia delle relazioni internazionali come metodo
  3. Capitolo 1 Il Mediterraneo e il Medio Oriente durante la Guerra Fredda
  4. Capitolo 2 Badw, Hurriyya, Musawa
  5. Capitolo 3 Il colonnello che venne dal freddo
  6. Capitolo 4 Il patto con il diavolo
  7. Capitolo 5 La quiete prima della tempesta
  8. Capitolo 6 Le rivolte arabe
  9. Capitolo 7 La caduta
  10. Epilogo Le déluge