La doppia presenza
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La doppia presenza

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Sara è una diciottenne nata e cresciuta a Rozzano, nell'hinterland milanese. I suoi genitori sono venuti dal Bangladesh, ma di quel luogo lei sa ben poco. Eppure non è totalmente italiana: gli altri non l'hanno mai fatta sentire tale, e adesso sta prendendo coscienza piena di questa sua doppia natura. Una doppia assenza, o forse una doppia presenza. Quella di Sara è un'identità multipla e complessa, con cui deve avere a che fare, come tanti suoi coetanei, chiamati impropriamente "G2", seconda generazione di immigrati; dove, invece, loro non sono immigrati, ma nati in Italia, e dunque italiani. Sara ha un rapporto molto stretto, e insieme conflittuale, con suo padre Arun che da quando è arrivato in Italia dopo un viaggio faticoso ha sempre lavorato duramente. Ma lei di questa durezza nulla sa: non del suo lavoro, non del suo viaggio, e nemmeno della sanguinosissima guerra civile in Bangladesh nel 1971. La sua vita ruota intorno all'amore contrastato per Lorenzo e alla passione per il teatro. E sarà proprio a partire da questo che comincerà lentamente a fare i conti con la sua cultura, con tutto il rimosso che pure sta dentro di lei, e, insieme, con la sua natura di donna.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788868513962
1
“Mio padre non sa quanti anni ha”. Sara continua a ripeterselo come per saggiare la verità di un fatto incredibile. Ha scoperto solo adesso che suo padre vive un altro tempo. Gli anni sono i passi del nostro stare al mondo, ma non per lui. Sa un più o meno, e quel che conta è solo un più, o un meno.
Non ha mai fatto un compleanno, Arun. E questo Sara l’ha sempre saputo, anche se non se n’è mai accorta. Lei sì, li faceva, ma era normale così, che fosse la figlia a festeggiare i compleanni, che il padre non ne facesse. Poi c’era la madre, lei li festeggiava, e Sara intuiva allora che fosse una questione di sesso, le femmine festeggiano, i maschi no. Tanto le bastava, i fenomeni naturali si accolgono come vengono, e intuizioni mitologiche sono sufficienti a darne conto. Solo a dieci anni Sara ha scoperto che il papà di una compagna di scuola festeggiava il compleanno, ed è stata come una rivelazione. Un miracolo, se è vero quel che dicono, che il miracolo è la collisione di due mondi. Ne chiese conto a suo padre che disse solo: «Non mi importa del compleanno, che ti importa di quando sei nato? Importa cosa sei e cosa fai.» E poi si richiuse nel suo silenzio. È sempre stata una persona silenziosa Arun. Non che le abbia fatto mancare affetto, tutt’altro, il suo silenzio è carico d’affetto, e Sara sa interpretare i suoi piccoli gesti e sguardi, ognuno spalanca un mondo, ci sono sguardi che stringono più di un abbraccio. E lo ringrazia, per questo, perché il suo silenzio le ha fatto comprendere che si tratta di vivere tutto ciò che la circonda come un enigma da svelare.
«Bambini, disegnate la vostra famiglia, i vostri genitori.» La maestra di religione ha spiegato il miracolo della resurrezione di Lazzaro, dice che Gesù ha fatto risorgere dalla tomba un uomo che era morto, e in quell’uomo noi vediamo la nostra condizione, insomma Gesù ci dà la nuova vita, e noi dobbiamo aspettarlo, dobbiamo credergli, volergli bene e aspettarlo. Sara conosce le storie di Gesù per sentito dire, e sa che quello è un uomo buono. Così le piace ascoltare quelle storie. E adesso che disegna si immagina che siano, lei, sua mamma e suo papà, vite già nuove, vite salvate e risorte, così attorno a loro disegna solo azzurro, un grande cielo infinito, è come se in quel cielo galleggiassero, fermi, immobili, senza terra sotto i piedi, luminosi, belli, senza sudore né fatica, quel sudore e quella fatica che troppo spesso vede sulla fronte del padre quando la sera torna a casa dal lavoro, quei pochi minuti che lo vede. Adesso sono tutti trasfigurati in quella luce, anche se Sara non sa cosa significhi la parola “trasfigurati”, ma quella luce avvolge tutte quelle tre figure geometriche e colorate di rosa, un bel rosa splendente.
Intorno a lei ci sono bambini che non sono così rapiti, e si alzano dal banco, parlano, si tirano le penne, e la maestra di religione è indulgente, un po’ li lascia fare, sa che non si possono tenere inchiodati ai loro banchi dei bambini di sei anni, è mica una galera. Il vicino di Sara, che invece è seduto e sta facendo svogliatamente il suo disegno, si sporge per vedere quello della compagna.
«Ma te non sei mica rosa!» Sara non capisce. Lo guarda stupita. Che cosa sta dicendo quello stupido? Li ha sempre disegnati così i suoi, si è sempre pensata e disegnata così, rosa! Che cosa sta dicendo? «Tu sei marroncina, non sei rosa!»
Sara si guarda intorno, ma non c’è nessuno che possa dirle «Sì, questo bambino è uno stupido.» Adesso ci sono solo lei e il suo disegno. E quel bambino stupido che ha aperto un varco tra lei e il disegno. All’asilo no, all’asilo nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. All’asilo erano tutti uguali, tutti rosa, punto e basta. I colori stanno negli occhi di chi guarda. All’asilo non c’era differenza negli occhi dei bambini. Ma adesso è diverso, e Sara avvampa, prova vergogna. Si sente come presa in fallo, t’ho beccata! Dentro di sé lo avvertiva che lei non era rosa come gli altri, il suo era un rosa differente: ma era pur sempre rosa. E se gli altri non le dicevano niente, voleva dire che il suo era davvero nient’altro che un rosa differente! Ma adesso è questa differenza che s’impone. Ed è in questo momento che Sara si installa nella differenza. Si sente come una bambina con un piede su una sponda – quella del colore rosa – e un piede su un’altra – quella del colore marroncino – e queste due sponde sono divise, anzi tendono ad allontanarsi, e lei fatica a mantenersi in equilibrio, è tutto un gioco d’abilità adesso, tenersi in piedi tra due blocchi di colore evitando di annegare nel fiume della differenza, sarà sempre così per lei, stare in bilico, equilibrista che rischia di cadere a ogni passo, una che non ha un colore solo, e ogni volta si tratterà di dosare il colore, di capire qual è il colore giusto. Se ce n’è uno.
Sara è bengalese, dicono. Lo dicono tutti, a cominciare dai suoi professori. Così Sara, che viene alla fine di una lunga catena di nominazioni, subisce l’imposizione e dice anche lei di essere bengalese. (In realtà dice di essere «del Bangladesh, vicino all’India», ché ormai conosce bene le ignoranze dei suoi interlocutori). Ma Sara bengalese non è. È italiana, invece, se italiano significa qualcosa. In Italia è nata, parla italiano e non conosce il bengalese, condivide in tutto e per tutto i gusti e le passioni dei suoi coetanei italiani. In Bangladesh c’è stata una sola volta, all’età di sette anni, e non ricorda quasi nulla. Eppure tutti la identificano con quella traccia di un altrove fantasma, e lei si rassegna a essere dislocata, accetta di essere separata da se stessa, e lo fa senza volere, con la grazia di chi non sa.
Rozzano, dove abita Sara, è un paesone dell’hinterland milanese. Si ritrova al parco con i suoi amici: si scambiano parole, amori, malignità, promesse di fedeltà, fumi, salive, immagini, miti, passioni, mani che si intrecciano, abbracci, pugni, spintoni, desiderio del nulla, il domani che incombe. Di fronte al domani, molti tengono gli occhi socchiusi, guardando di lato, o all’indietro: c’è solo il presente, e il futuro non è che una fantasia lontana, che un giorno verrà, ma adesso è solo una cosa da sognare e immaginare. E si cullano vicendevolmente nel presente, un presente che non finirà mai.
Sara è invece tra quelli che il tempo lo sentono. All’incombenza della scelta non si sottrae. E ne sente, inevitabilmente, il peso.
Se l’eterno presente è il tempo in cui non si deve mai scegliere, per lei quel tempo è finito molto tempo fa.
2
Al compimento dei suoi diciotto anni, Sara decide di festeggiare il prossimo compleanno del padre, malgrado lui. Fruga nel suo portafoglio e trova la data di nascita sulla carta d’identità: 01/01/1960. Così pensa di organizzargli una festa a sorpresa.
A capodanno rientra presto, senza fare l’alba. Ché tanto poi era a una festa noiosa, dov’erano tutti ubriachi o fatti. La solita festa di diciottenni senza idee, pensava lei mentre si annoiava, avvitati su se stessi, implosi. Aveva dato alla sua amica Veronica la torta da tenere, senza dire nulla neppure alla madre. Così a mezzogiorno va a prenderla a casa sua. Lei è appena tornata, peraltro lucidissima, con quello che aveva bevuto non pareva possibile, ma ha buon sangue, e un corpo che resiste.
Entrata in casa, Sara dice a sua madre, che sta tagliando carne d’agnello sul tavolo di cucina, di tenere la torta in frigo. «Una sorpresa per papà.» La madre la guarda stupita. «Vuoi iniziare il nuovo anno con buoni propositi, dunque.» Poi abbassa la testa e continua a cucinare il suo kashir kari, il curry d’agnello, buttando i pezzi di carne nella padella con il soffritto di aglio, cipolla e zenzero. Sono in Italia da tanti anni i genitori di Sara, ma non hanno mai smesso di cucinare quel che mangiavano in Bangladesh. Così Sara sa almeno una cosa bengalese, il gusto del cibo, il piccante, insomma un altro mondo ce l’ha in bocca.
Durante il pranzo, il padre dice quel che gli ha raccontato Mahendra, l’unico amico bengalese che frequenta di tanto in tanto, della festa di capodanno a cui lui non è andato perché doveva lavorare, e comunque, anche se avesse potuto, non ci sarebbe andato lo stesso. Dice di Omit che ha fatto la corte a Chandra e ha litigato con Tapan che è il cugino di Chandra, pure lui innamorato di lei, che sono venuti alle mani e li hanno sbattuti fuori di casa, che poi in strada hanno continuato a picchiarsi, e non avevano nemmeno bevuto un goccio d’alcol, ma come si fa a battersi per Chandra, che poi sì, è carina, ma nella sua famiglia non ce n’è uno con un briciolo di intelligenza, certo in effetti Tapan è suo cugino, però Omit mi sembrava più intelligente… Sara ascolta sorridendo: che suo padre sia così critico verso l’universo mondo la fa divertire, in fondo è un segno di vita, è molto peggio quando se ne sta zitto e rimugina, e pare che nulla lo tocchi (tranne Sara, certo, tranne lei), e questo accade quasi sempre; ma soprattutto non sta nella pelle pensando alla sorpresa. Alla fine del pranzo, va a prendere la torta – grande, con la sfoglia, la panna sopra e pezzi di frutta sparsi – ed entra in salotto cantando «Tanti auguri» con le candeline accese, quarantanove. Suo padre la guarda stupito, e così anche la madre. Lui ride, una bella risata piena. Di quelle che fa di rado. E questo è il regalo.
«Ma che bella! È per me?»
«Certo, per il tuo compleanno. Sono diventata maggiorenne, era l’ora di festeggiarlo!»
Allora lui soffia sulle candeline, poi dice: «Grazie ancora. Ma non sono nato il primo gennaio…»
A Sara le parole risuonano come se qualcuno le avesse dato una testata e lei adesso fosse lì tramortita, contro il muro.
«Da noi non è obbligatoria la data di nascita, Sara. Quando ti iscrivevano a scuola, attorno ai cinque anni, il maestro chiedeva: “Quanti anni ha il bimbo?”. E loro gli rispondevano: “Scrivi cinque”. E allora avevi cinque anni. Ma mica li avevi davvero. Più o meno sì, però nessuno teneva a mente il giorno in cui eri uscito dal corpo di tua madre. Per ricordare meglio, poi, si sceglieva una data semplice: c’è un sacco di gente nata il primo gennaio come me. Ma io di certo non sono nato quel giorno…»
«E allora quando sei nato?»
«Te l’ho detto Sara, non lo so. L’unico a saperlo era il libro di famiglia. Lì c’erano segnate tutte le cose importanti successe. Anche il giorno della mia nascita. Ma se l’è preso il fuoco. Nel Settantuno, con la guerra civile, la casa bruciò, e anche il libro.»
«D’accordo papà, ma la nonna si sarà ricordata quando sei nato. Per una madre è impossibile dimenticarsene.»
«Sara, tutto dipende dalle usanze. E da noi non c’è l’usanza di ricordarsi la data di nascita, nessuno la chiede, nessuno la festeggia. Certo, se fossi andato da mia madre a chiederglielo, lei più o meno si sarebbe ricordata il periodo, mese più mese meno, avrebbe fatto un calcolo di quando si è sposata, del primo figlio, eccetera. Ma da noi non c’è questa usanza, e morta lei, quando io avevo tre anni, a chi poteva interessare saperlo? La nonna è morta molti anni dopo mia mamma, però io non gliel’ho mai chiesto.»
«Papà, sono più di vent’anni che vivi in Italia, qui è un’usanza il compleanno, il mio l’avete sempre festeggiato, sarebbe potuta diventare un’usanza anche per te, no?»
«Sara, nella vita il gusto non cambia. Il compleanno non vuol dire niente per me, non ha sapore, perché dovrei festeggiarlo?»
«Ma significa per me, papà.»
«E infatti il tuo lo festeggiamo, no?»
«Sì, e voglio festeggiare anche il tuo.»
«Sara, perché dovrei fare una cosa di cui non mi frega niente?»
«“Perché mi vuoi bene” potrebbe essere una risposta sufficiente? Oppure perché non abiti più in Bangladesh, papà.»
Sara si accalora, le monta la rabbia, non capisce. Allora interviene la madre: «Intanto festeggiamo questo, no? Anche se è una data finta, la feste...

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