Stalking - Seconda edizione
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Atti persecutori - art. 612 bis c.p.

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Atti persecutori - art. 612 bis c.p.

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In occasione dell’esercizio delle funzioni di GIP/GUP presso il Tribunale di Sciacca ho riscontrato taluni profili di complessità nell’applicazione della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.
Sulla scorta dell’ineludibile approfondimento di tematiche ricostruttive ed interpretative ho articolato in sede cautelare e di merito più percorsi motivazionali, che hanno, di fatto, costituito il fondamento per lo sviluppo del presente testo.
Ho rilevato parimenti talune difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa determinate dalla particolare “struttura aperta” della fattispecie e dal concreto atteggiarsi della prova.
Con riferimento alle problematiche probatorie riscontrate, ho dunque ritenuto utile individuare tecniche per eventuali iniziative difensive, considerato il particolare e preponderante valore delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nell’ambito di tale tipologia di procedimenti.
Su tali brevi premesse, devo quindi necessariamente ringraziare il dott. Salvatore Cardinale e la dott.ssa Andreina Occhipinti per l’indispensabile apporto reso nella stesura del testo. I colleghi, al pari dello scrivente, possono in concreto individuarsi come autori in ragione del prezioso contributo offerto, sviluppato sul fondamento di una sicura preparazione tecnico giuridica, oltre che di una vasta esperienza maturata nell’ambito delle funzioni giurisdizionali svolte.Il testo non avrebbe mai potuto essere pubblicato senza tale contributo.
Testo integrato e rivisto in relazione alle modifiche normative di cui alla legge 19 luglio 2019, n. 69 “Codice Rosso”.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788833794778
Argomento
Diritto
QUESTIONI E CASI

Parte prima
La fattispecie tipica

I. La materialità della condotta tipica, tra forma libera e oggetto della tutela

Il delitto di “atti persecutori” di cui all’art. 612 bis c.p. può essere realizzato attraverso vari tipi di condotte – oggettivamente riconducibili ai concetti di molestia o minaccia – suscettibili di assumere diverse sfumature, ma con un imprescindibile connotato di ripetitività e che si traducano in una persecuzione asfissiante della vittima con conseguenze tangibili sul suo percorso esistenziale e abitudini di vita, con sconvolgimento delle stesse. L’esigenza di assicurare un ampio raggio di tutela alle vittime ha indotto il legislatore ad adottare una tecnica peculiare consistita nel dare una definizione minima alla fattispecie di condotta tipica – tratteggiata attraverso il riferimento alle minacce e molestie e alla necessità che le stesse risultino reiterate – risultando di contro posto l’accento sulle conseguenze della medesima condotta.
La scelta di una definizione soft dell’elemento costitutivo di reato, agganciata peraltro a nozioni già appartenenti alla sfera del diritto penale, ha portato all’effetto di allargare l’alveo applicativo della fattispecie fino a ricomprendere le manifestazioni più disparate (ora appostamenti davanti a casa o al posto di lavoro, ripetute telefonate, sms, e-mail, provocazioni o ripetute attenzioni a scopo di corteggiamento non gradite, atti vandalici contro oggetti o animali), pur tuttavia connotate da un irrinunciabile tratto caratterizzante costituito dalla ripetitività.
L’elemento tipico della condotta integratrice della fattispecie in esame appare, dunque, essere quello della ripetitività della stessa essendo stato introdotto il reato in esame nel 2009, per l’esigenza avvertita di elaborare una figura di reato autonomo che consentisse di assicurare maggiore tutela alle vittime di ripetuti comportamenti molesti e intimidatori nella consapevolezza della natura esponenziale degli effetti invasivi determinati sulle medesime dagli stessi comportamenti quando plurimi e ripetuti, nonché in una prospettiva anticipata rispetto ad altri possibili, anzi prevedibili, sconfinamenti rispetto all’integrità fisica e morale delle persone individuate come vittime.
Alla base della scelta del legislatore di punire come delitto autonomo i comportamenti molesti o intimidatori quando ripetuti e abituali vi è stata la consapevolezza della inadeguatezza delle sanzioni previste dal codice penale per singoli atti di molestie e di minaccia, pur globalmente e unitariamente intesi.
Il delitto di atti persecutori traduce, in ambito giuridico, quella che, in ambito psichiatrico, gli addetti chiamano “sindrome delle molestie assillanti” e che per gli anglosassoni, che hanno mutuato il termine dal mondo della caccia, è, più semplicemente, “stalking” (da “to stalk”, che significa “fare la posta” alla preda).
Appare immediatamente percepibile la portata del cambiamento di rotta dell’ordinamento, attuato attraverso la fattispecie in esame, trattandosi di delitto rispetto alla precedente fattispecie della molestia o del disturbo alle persone, integrante nel nostro ordinamento una contravvenzione sanzionabile con arresto fino a sei mesi.
L’introduzione del delitto di stalking riflette indubbiamente la medesima “filosofia” sottesa alla elaborazione della nozione di mobbing, introdotta in ambito lavoristico per dare maggiore spessore e rilievo alle situazioni di disagio dei lavoratori innestate da ripetute persecuzioni poste in essere in ambienti di lavoro, clinicamente accertabili.
Attraverso l’introduzione dell’art. 612 bis c.p., il legislatore ha voluto garantire una tutela specifica alle vittime di comportamenti molesti o intimidatori ripetitivi e assillanti così da assicurare – utilizzando lo schermo deterrente dello strumento penale – una tutela di gran lunga più efficace rispetto a quella in precedenza ottenibile generalmente con le contestazioni dei reati di cui all’art. 612 o 660 c.p.
Prima del 2009 le condotte degli stalkers erano considerate penalmente rilevanti e potevano integrare il reato di cui all’art. 660 c.p., o anche il reato di cui all’art. 610 c.p. quando la vittima fosse risultata costretta, contro al sua volontà, a fare, tollerare o omettere qualcosa.
Analoga tutela poteva essere garantita attraverso i reati di minaccia, semplice o aggravata (art. 612 c.p.), di percosse (art. 581 c.p.), di ingiuria (art. 594 c.p.) e di diffamazione (art. 595 c.p.).
L’analisi delle pronunce giurisprudenziali antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 11 del 2009 può sicuramente indurre a ritenere che sussista una notevole vicinanza fra l’ambito applicativo della nuova fattispecie e quella contravvenzionale di cui all’art. 660 c.p., pur nella consapevolezza della sussistenza, per tale ultima fattispecie, di un ulteriore elemento specializzante, della petulanza o altro biasimevole motivo, non esplicitamente richiesto per la fattispecie del delitto di stalking, e della mancanza del requisito della ripetitività della condotta, richiesto, viceversa, per la fattispecie delittuosa.
Per assumere rilievo ai fini della configurabilità di tale reato, non era dunque sufficiente che la condotta del molestatore fosse di per sé molesta o arrecasse disturbo, ma era altresì necessario che fosse “accompagnata da petulanza o altro biasimevole motivo” (così Cass., Sez. 1, n. 12230 del 25.10.1994). In applicazione di tale principio, era stato ritenuto penalmente sanzionabile ai sensi dell’art. 660 c.p. “il seguire petulantemente con automobili un gruppo di ragazze, richiamare la loro attenzione con suoni volgari, rasentarle pericolosamente e costringerle a rifugiarsi in casa, suonare insistentemente il clacson sotto le loro abitazioni” (Cass., Sez. 1, n. 2550 del 23.1.1990).
In alcuni casi, tuttavia, la molestia assillante diventava tanto insistita da trasformarsi in violenza privata. Tale momento andava individuato in quello in cui la vittima – come nel caso all’odierno esame – era costretta a modificare suo malgrado una o più delle proprie abitudini di vita per sottrarsi alla persecuzione dello stalker. Nei casi più gravi, dunque, si passava dal fastidio alla limitazione della libertà di autodeterminazione della vittima.
Di fronte a tali situazioni più gravi, veniva a crearsi un vasto orientamento dottrinario che evidenziava come il nostro Paese fosse ormai uno dei pochi che non prevedesse una figura di reato specifica, viceversa introdotta sin dai primi anni Novanta in tutti gli ordinamenti anglosassoni. Si perveniva, così, al D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 convertito, con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38 e all’introduzione nel codice penale dell’art. 612 bis.
Si deve sin da ora evidenziare che nella giurisprudenza di legittimità, individuato il delitto di atti persecutori come reato a forma libera, si attribuisce rilievo ai fini della integrazione della fattispecie all’effetto vessatorio delle condotte in danno della P.O. affermando che: “ai fini della sussistenza del delitto di atti persecutori non importa quale sia il mezzo attraverso il quale si manifestano le condotte incriminate, quanto piuttosto le modalità di queste ultime, dalle quali deve emergere l’effetto vessatorio sulla persona offesa” [cfr. Cass. pen., Sez. V, 31.03.2021, n. 19363, Diritto & Giustizia, 2021, 18 maggio (nota di Paolo Grillo)].
La giurisprudenza di legittimità ha d’altronde recentemente individuato il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p. proprio nella gravità e nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta, considerata l’idoneità a cagionare uno degli eventi previsti dalla fattispecie.
In particolare, secondo un recente arresto giurisprudenziale relativo a una vicenda cautelare: “il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’articolo 660 del c.p. consiste nel diverso atteggiarsi delle ‘conseguenze’ della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie. In proposito, il delitto di cui all’articolo 612-bis del c.p. si configura solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a causare uno degli eventi alternativi previsti dalla norma: un evento di ‘danno’, consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, alternativamente, un evento di ‘pericolo’, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva. Per l’effetto, per potere sostenere la sussistenza degli atti persecutori, anche in sede cautelare non è sufficiente l’accertamento di un quadro indiziario relativo alla sussistenza di reiterati atti molesti, ma occorre altresì valutare gli elementi indiziari sintomatici di un nesso causale tra la condotta ed almeno uno degli eventi indicati dalla norma incriminatrice” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 17.11.2020, n. 1541 in Guida al diritto, 2021, 7).
La giurisprudenza di legittimità precisava in modo coerente, con riferimento alle doglianze mosse avverso una sentenza di condanna per il delitto di atti persecutori e dunque avverso una pronunzia di merito, che: “è configurabile il delitto di stalking nel caso in cui la vittima, per le reiterate molestie subite mediante continui approcci ispirati da una logica di assillante velleità da pseudo-innamoramento o corteggiamento, manifesti un perdurante e grave stato d’ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita. Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p., consiste, infatti, nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, non vi è dubbio possa estrinsecarsi in varie forme di molestie; sicché si configura il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p., ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato” (nella specie, l’imputato era stato condannato per il reato di stalking aggravato, per avere commesso atti persecutori a sfondo sessuale nei confronti di una propria dipendente minorenne, costringendola a vivere in un perdurante stato d’ansia che l’aveva portata a rivolgersi anche al servizio di neuropsichiatria infantile dell’Asl del suo luogo di residenza) [cfr. Cass. pen., Sez. V, 10.05.2021, n. 27909, Diritto & Giustizia, 2021, 20 luglio (nota di Laura Piras)]. Nel perimetrare la rilevanza delle condotte persecutorie la Corte di Cassazione evidenziava ancora che integra reato un corteggiamento ossessivo e petulante, volto ad instaurare un rapporto comunicativo e confidenziale con la vittima a ciò manifestamente contraria e realizzato mediante una condotta di fastidiosa, pressante e diffusa reiterazione di sequenze di saluto e contatto, invasive dell’altrui sfera privata, con intromissione continua, effettiva e sgradita nella vita della persona offesa e lesione della sua sfera di libertà (cfr. Cass. pen., Sez. V, 17.05.2021, n. 26529).
Per comprendere l’elaborazione in materia, può rilevarsi che la S.C. osservava in motivazione quanto segue: «(…) 2. Alla stregua delle indicate premesse metodologiche, e passando all’esame dei motivi di impugnazione, rileva il Collegio che la Corte di appello, sulla premessa della in fondatezza dell’eccepita nullità per difetto di motivazione della sentenza di primo grado, alla luce del pacifico orientamento giurisprudenziale (Sez. 1, n. 4490 del 03.11.1992, Rv. 192430); (Sez. 3, n. 5636 del 08.03.1994, Rv. 197624; Sez. 2, n. 19246 del 30.03.2017, Rv. 270070), espressamente richiamato (che la Difesa, tuttavia, non prende affatto in considerazione), ha fornito congrui e ragionevoli argomenti a sostegno della propria decisione, ben delineando sia le reiterate condotte moleste, sia gli effetti prodotti sulla persona offesa, correttamente riconducendo il fatto nello schema degli atti persecutori, che, giova ricordarlo, è reato abituale e di danno, ed è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio. Ciò che rileva, pertanto, non sono i singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento. In tal senso, l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici (di per sé già rilevanti penalmente), bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis (Sez. 5 - n. 7899 del 14.01.2019 Rv. 275381; conf. a Sez. 5, n. 54920 del 08.06.2016, Rv. 269081; Sez. 5, n. 51718 del 05.11.2014, Rv. 262636).
2.1. È di tutta evidenza, allora, la rilevanza penale della condotta in questione, costituita dal reiterato avvicinamento della persona offesa, attraverso messaggi, telefonate, presentandosi allo studio, nelle aule di udienza e in altri luoghi dalla stessa frequentati, nell’insistere per ottenere appuntamenti dalla vittima. Nella giurisprudenza di questa Corte si è già considerato il disvalore di una siffatta condotta, ed è condivisibile l’osservazione che tali comportamenti, per l’ampiezza, per la durata e per la loro evidente connotazione molesta, sono idonei a creare nella persona offesa stati di disagio, di imbarazzo, di mortificazione, sfociati in un giustificato stato di ansia per la reiterata intrusione nella sua sfera esistenziale. (Sez. 5, n. 29826 del 05.03.2015 Rv. 264459). Di tanto la sentenza impugnata dà atto, peraltro, a fronte di una motivazione del primo giudice che aveva minuziosamente ricostruito i fatti, attraverso un completo richiamo alle fonti di prova, per lo più dichiarative, univocamente conformi a quanto denunciato dalla persona offesa circa il comportamento ossessivo, intrusivo, petulante, molesto e non tollerato dalla vittima, tenuto per oltre due anni dall’imputato. La donna, infatti, aveva apertamente e in plurime occasioni, come confermato concordemente dai testi P. e A., respinto le avances e chiaramente dimostrato di non gradire quel corteggiamento né di condividere i programmi di vita dell’uomo. Sicché, per un verso, è del tutto destituita di fondamento l’affermazione del ricorrente circa la mancanza di un valido corredo argomentativo, nella sentenza; dall’altro, il quadro probatorio si presenta solido e univoco, risultando le dichiarazioni della persona offesa dotate di plurimi riscontri (oltre alle fonti dichiarative rilevano anche gli sms acquisiti in atti) pur non necessari, a fonte della attenta verifica della attendibilità della stessa, operata dai giudici di merito, che l’hanno ritenuta coerente e circostanziata nel narrato e immune da pregiudizievoli ragioni di astio (Sez. U. n. 41461 del 19.07.2012, Bell’Arte, Rv. 253214). Le doglianze del ricorrente che lamenta l’erronea ricostruzione dei fatti sono, al contrario, assolutamente generiche, non indicando quali specifici elementi sarebbero stati pretermessi ovvero travisati, né quali sarebbero le emergenze fattuali che escluderebbero la responsabilità del ricorrente per i fatti addebitati; neppure sono esplicitate le ragioni della asserita inattendibilità della persona offesa, in ordine alla quale vale la pena di ricordare che l’attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell’insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 7667 del 29.01.2015, Rv. 262575) o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo “id quod plerumque accidit”, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (Sez. 4, n. 10153 del 11.02.2020, Rv. 278609).
2.2. Anche lo scrutinio dell’elemento soggettivo è stato correttamente condotto dai giudici di merito, dal momento che la sentenza si è pienamente conformata all’interpretazione di questa Corte che, nel reato di atti persecutori, ravvisa l’elemento soggettivo nel mero dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più con...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. INQUADRAMENTO
  6. QUESTIONI E CASI