1. Qualche ora
più tardi
Domenica 9
dicembre 2018, ore 14 e qualche minuto.
Mi trovavo
seduto sul divano di casa, ancora vestito di tutto punto come se dovessi
partire per andare a correre la mia prima maratona, ma quello, fortunatamente,
lo avevo appena fatto.
Stavo guardando
la mia immagine riflessa nello schermo nero e spento della TV a 46 pollici del
soggiorno, completamente privo di qualsiasi tipo di energia psicofisica.
Lo vedevo a
pochi centimetri da me il telecomando, il cervello dava il giusto input
a prendere l’oggetto che serviva appunto a telecomandare. Il problema era che
gli impulsi che continuava a dare la testa non venivano recepiti dai sottoposti
arti, con la tragica conclusione che il telecomando rimaneva al suo posto, la
televisione di conseguenza rimaneva spenta e io continuavo a fissare entrambi i
dispositivi, senza che nulla accadesse, incredulo su quello che stava
avvenendo.
Ero distrutto,
ero felice. In effetti ero più felice che distrutto, o forse era il contrario,
la sensazione che stavo provando non era ben definibile, ricordo un misto di
emozioni che mi assalivano e mutavano il mio umore da un minuto all’altro.
Finita la gara,
dopo aver sorseggiato il meritato tè ristoratore e dopo essermi preso un po’ di tempo per
recuperare un minimo di energie, con immane fatica riuscii ad alzarmi dal prato
del campo di atletica, aiutato anche da mia moglie, dai miei figli e dal mio
compagno di avventura Claudio, anche lui abbastanza spossato.
Il viaggio di ritorno mi sembrò eterno; mi sentivo un novello Ulisse in
cerca della sua Itaca, i semafori erano come ciclopi con un unico occhio rosso,
mentre le altre vetture immerse nel traffico sembravano i maiali trasformati
dalla maga Circe e il suono dei loro clacson echeggiava alla stregua del canto
delle sirene. Ero avvolto in un limbo tra pensiero e realtà, non vedevo l’ora
di arrivare a casa per farmi una bella doccia, sdraiarmi sul divano e godermi
il meritato riposo.
Feci a stento le
due rampe che portavano alla mia abitazione posta al secondo piano di una
palazzina degli anni Quaranta, poco fuori dal centro storico di Taggia. Il
paese in cui vivo, borgo antico ligure riconosciuto come uno dei borghi più
belli d’Italia e secondo centro storico, come estensione, di tutta la Liguria,
dopo Genova ovviamente, era per me ora, esclusivamente chioccia e rifugio per i
miei stanchi muscoli.
Quella domenica
non andai a consumare il classico pranzo dalla suocera con tutta la famiglia,
restai a casa. Ero ancora seduto sul divano dopo un’ora, fissavo il telecomando
e la televisione, fino a quando arrivò il famigerato sintomo del post gara. Non
ero preparato, pensavo di essere stanco e non avrei mai immaginato di provare
del vero e proprio dolore fisico, un attacco al centro della pancia, come il
pugno del “Grande Carro” di Kenshiro. Giocoforza, mi
dovetti alzare e, piegato quasi in due, riuscii a raggiungere il bagno.
Quello che
successe dopo preferirei non descriverlo, non mi sembra corretto nei confronti
dei più deboli di cuore e delle persone prive di coraggio.
Dovetti chiamare
rinforzi, chiaramente l’unica persona che mi poteva sopportare in quei
frangenti, Nicoletta, che arrivò quando ero già sdraiato sul letto, in
posizione supina e contraria a come mi coricavo di solito. Ero riuscito a
mettere tutti e quattro i cuscini del nostro letto uno sopra l’altro, mi ero
sdraiato mettendo le gambe sopra quel soffice castello in maniera da tenerle
alte, mi ero coperto con il mio plaid da divano con i girasoli di Van
Gogh ed ero rimasto in attesa.
Il giorno dopo
ho inviato la fotografia di quell’immagine di me sdraiato nel letto a Claudio,
sembravo un sopravvissuto, Cristo Morto del Mantegna. Dopo alcuni
minuti dall’invio del messaggio tramite WhatsApp, sento il telefono
vibrare, sul display appare la classica notifica verde con la scritta
Claudio: apro il messaggio e muoio dal ridere, la stessa foto con la stessa
posizione, diverso colore di plaid e diverso soggetto, ma ugualmente
annientato.
Avevamo finito
quella gara ed entrambi avevamo capito che la maratona è una corsa ma non è un
gioco, è una cosa seria e come tutte le cose serie non deve essere
sottovalutata. In quegli istanti, il solo pensiero di effettuare lo sforzo che
avevo appena compiuto mi faceva rivoltare nuovamente lo stomaco, ma si sa, il
giorno dopo è un nuovo giorno e il tempo cura tutte le ferite.
2. The day after
Il giorno dopo era tutto diverso, il dolore fisico non contava più, a prevalere e a soccombere il corpo era la testa, era il pensiero di avere fatto qualcosa per cui pensavo di poter essere ricordato per l’eternità: la chiamo la psicologia del “the day after”.
Ovviamente, come quasi tutti i comuni mortali o perlomeno quelli che praticano lo sport come me e sono dei principianti, il giorno dopo qualsiasi gara che si svolge di domenica c’è il lunedì. Il mio idolo adolescenziale cantava che odiava quel giorno lì e per la maggior parte dei casi anche io odiavo il lunedì perché era sinonimo dell’inizio di una lunga settimana lavorativa. Ma quel giorno ero felice anche di andare a lavorare, quel giorno per me rappresentava il giorno in cui dovevo raccogliere i frutti dell’impresa che avevo appena compiuto.
Dicevo che il dolore fisico non contava più, anche se avevo i polpacci che continuavano a muoversi da soli, è un fenomeno che succede quando si sono fatti degli eccessivi sforzi fisici, si chiama “fascicolazione muscolare”, i muscoli continuano a fare dei guizzi improvvisi, come se fossero stimolati di continuo da piccole scariche elettriche. Guizzi a parte, quella mattina feci una lauta colazione, mi vestii in maniera più elegante del solito e andai a lavorare.
Appena uscito di casa, la sensazione che provavo era quella dell’osservato speciale, mi sentivo come Fabio Grosso il giorno dopo aver alzato la coppa del mondo nel 2006.
«Ragazzi, è lui che ha messo quel pallone a giro alle spalle di Lehmann, dopo quel meraviglioso assist no look di Andrea Pirlo», «Grazie a lui che Fabio Caressa ha potuto gridare a tutta l’Italia: “Andiamo a Berlino”», «Lui ha tirato l’ultimo rigore contro la Francia, pensa che responsabilità ci vuole, io non ce l’avrei mai fatta», «Grazie a lui abbiamo vinto i mondiali». Queste credo che siano le frasi che Fabio Grosso immaginava pensassero, vedendolo, le persone che incontrava quel fatidico giorno dopo.
Nel mio piccolo e in piena psicosi del “the day after”, anche io pensavo che tutte le persone che incontravo quel giorno pensassero qualcosa di simile su di me, del tipo:
«Ragazzi, è lui che ieri ha corso la maratona di Sanremo», «Grazie a lui mi è venuta voglia di correre anche a me», «Pensate che voglia correre 42.195 chilometri, ma come ci è riuscito», «Io non ce l’avrei mai fatta».
Il lunedì è anche il giorno per me di ricevimento dei tecnici in Comune, immaginavo che avrei passato tutta la mattina a dover raccontare della mia fatica.
Arriva il primo tecnico e parliamo di lavoro, pe...