1.
Incombeva la tragedia, ma in pochi la vedevano
Il mio incontro con quella che di lì a poco, l’11 marzo 2020, sarebbe stata dichiarata ufficialmente una pandemia ha avuto due facce: quella istituzionale dell’Organizzazione mondiale della sanità il 3 febbraio e quella della brutale realtà sul campo il 19 febbraio. Ed è quest’ultima che mi ha aperto gli occhi.
Il 3 febbraio, dunque, a Ginevra si tenne la riunione del Comitato esecutivo dell’OMS, l’organo di governo dell’organizzazione internazionale in cui ho rappresentato l’Italia dal 2017 al 2020. In quell’occasione, il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, da poco rientrato dalla Cina, ci illustrò la drammatica situazione che Wuhan, capoluogo e città più popolosa della provincia di Hubei, stava vivendo ormai da qualche settimana fornendo informazioni provenienti dallo stesso governo cinese, in un clima finalmente di franca comunicazione e cooperazione, anche se con alcune settimane di ritardo.
Tedros Ghebreyesus incoraggiò tutti gli Stati membri ad adottare misure proporzionate alla gravità del pericolo, per evitare sia di sconfinare nell’eccessivo allarmismo sia di sottostimare la realtà.
Proprio in quei giorni l’Italia iniziava a muovere le prime pedine in una sfida che di lì a poco l’avrebbe vista protagonista assoluta per numero di contagi e di vittime. In questa prima fase le decisioni prese dal governo non mi videro favorevole. Bloccare i voli dalla Cina verso l’Italia (30 gennaio) era – a mio avviso – una scelta che, oltre a non avere alcuna base scientifica, avrebbe potuto rivelarsi un danno anziché un beneficio. Non essendo stata, infatti, condivisa da tutti i Paesi dell’Unione europea, tale iniziativa avrebbe solo ritardato ma non evitato il contagio, impedendo di tracciare i passeggeri in arrivo e permettendo i rientri attraverso scali su altre località europee, perdendo così il controllo della situazione, come di fatto si è poi verificato.
Agli inizi di febbraio eravamo l’unico Paese, insieme agli Stati Uniti, ad aver preso questa decisione, che si dimostrò controproducente dal punto di vista non solo tecnico ma anche politico, isolandoci inizialmente dal prezioso contesto di collaborazione internazionale. Lo stesso rappresentante cinese all’OMS, durante l’incontro di Ginevra, non esitò ad esprimermi personalmente la sorpresa e la delusione per quella nostra scelta: ci consideravano un Paese amico – a differenza degli Stati Uniti – e non si aspettavano una decisione che giudicavano ingiustificata e ostile. Non seppi rispondergli, ma mi sarei ricordato di questa mia sensazione un paio di mesi dopo, quando altri Paesi – a partire da Israele – sulla base di analoghe errate valutazioni bloccarono i voli dall’Italia, diventata nel frattempo il «lazzaretto d’Europa».
La seconda decisione con la quale mi trovai in disaccordo fu quella di non prevedere la quarantena per tutti quelli che erano da poco rientrati dalla Cina. In tutte le circostanze in cui si verifica un rischio infettivo da un agente microbico sconosciuto o non controllabile, sin dalla Serenissima Repubblica di Venezia che l’aveva per prima applicata per la peste, vige la norma per cui è necessario isolare cautelativamente, per un lasso di tempo corrispondente al periodo di incubazione, le persone che arrivano da fuori, in quanto potenziali vettori virali, indipendentemente dall’età, dal genere, e da ogni altra caratteristica personale.
Concordemente a quanto espresso il 3 febbraio dal direttore generale dell’OMS, il governo cinese aveva dato indicazioni ai propri cittadini che si recavano all’estero di porsi in auto-quarantena indipendentemente dalle decisioni delle autorità nazionali, e intere comunità – incluse quelle residenti in Italia – avevano chiesto ai propri cittadini di autoisolarsi per evitare contagi.
Con Roberto Burioni, autorevole collega virologo e opinion leader scientifico, fummo tra i primi a sottolineare la necessità di adottare questa misura, e per questo fummo accusati di «fascio-leghismo». Governo e Regioni si erano infatti divisi su questa istanza, e i singoli presidenti delle Regioni a loro volta avevano assunto posizioni differenziate a seconda della propria collocazione politica.
Il più esplicito fu il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi che dichiarò: «La nostra Regione in materia di prevenzione contro il coronavirus, seguendo le linee nazionali di sorveglianza attiva, sta facendo più di tutte le altre Regioni. Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista». Vale la pena anche riprendere alcune dichiarazioni del momento per comprendere l’insussistenza scientifica della discussione e l’approssimazione dei meccanismi decisionali, a cominciare da quella del ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina: «Ci siamo mossi immediatamente come governo: non voglio che si creino inutili allarmismi, la propaganda non fa bene. Non ci sono motivi per escludere gli alunni dalla scuola. Nella circolare abbiamo spiegato cosa fare e in quali casi, quindi tranquillità assoluta»; o quella proveniente da tre Regioni (Veneto, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia) e dalla Provincia autonoma di Trento, a guida leghista: «Il periodo di isolamento previsto per chi rientra dalla Cina sia applicato anche ai bambini che frequentano le scuole»; cui si aggiungeva la dichiarazione del segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti: «Allarmismi ridicoli, il governo ha già sospeso i voli provenienti dalla Cina, dunque non si capisce come i bambini possano arrivare...»; per finire con quella dell’Associazione nazionale dei dirigenti scolastici: «Se gli esperti e i tecnici ritengono non ci siano rischi, noi ci atteniamo alle prescrizioni scientifiche. Non capiamo queste strumentalizzazioni, se poi ci sono argomentazioni sanitarie lo dicano». Persino l’Istituto superiore di sanità (ISS) si pronunciava in questo modo: «Le misure già adottate rispetto al rischio legato al coronavirus tutelano la salute dei bambini e della popolazione. Al momento, l’Italia è tra i Paesi che hanno adottato le misure più ampie ed articolate». E infine la dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Le circolari emanate riguardo agli alunni sono state definite dalla Commissione scientifica dell’Iss e dell’Ospedale Spallanzani. E noi ci affidiamo alla scienza e non alla propaganda».
Si stava scherzando con il fuoco, e pochi sembravano essere consapevoli che una tragedia incombeva sull’Italia e sul mondo.
E veniamo al 19 febbraio. In quanto presidente della World Federation of Public Health Associations, avevo un rapporto privilegiato con gli operatori di sanità pubblica di tutto il mondo e il 19 febbraio ricevetti dalla Cina, su WhatsApp, una serie di video che mi sconvolsero. Le immagini erano forti e gli autori dei video le avevano carpite senza averne l’autorizzazione, per cui, per non metterli a rischio, non le mostrai a nessuno.
Era il momento in cui alcuni descrivevano la patologia come poco più di un’influenza, ma quello che vidi in quei filmati raccontava tutta un’altra storia: morti di età diverse nei luoghi più disparati, per strada, in aeroporto, in metropolitana. Polizia ed esercito che trasferivano con la forza persone infette che non si volevano allontanare dalla propria casa. Persone arrestate perché avevano violato il lockdown in fila indiana, scortate in carcere dalle forze dell’ordine. Ronde armate per controllare che nessuno uscisse dalle proprie abitazioni. Enormi strutture ospedaliere costruite nello spazio di pochi giorni per accogliere migliaia di malati.
Soprattutto un filmato mi lasciò letteralmente scioccato: un’intera famiglia di Wuhan era stata decimata dalla malattia a causa probabilmente dell’insorgere di una insufficienza respiratoria legata al virus, erano tutti morti in una casa sigillata. Nel video si vedevano i soccorritori che forzavano la porta dell’abitazione trovandosi davanti una scena terrificante.
Capii che potevamo cadere in una tragedia di proporzioni immani: era un virus molto temibile, andava affrontato adeguatamente e tempestivamente, se si voleva provare a contenerlo.
2.
Il virus sbarca in Italia e ha inizio la battaglia
Con l’eccezione di Francesco Storace, avevo collaborato con tutti i ministri che si erano succeduti dal 2001 in poi, di alcuni diventando amico e stretto collaboratore, come Girolamo Sirchia, Ferruccio Fazio e Beatrice Lorenzin.
L’avvento del primo governo Conte aveva interrotto questa dinamica.
Con il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ci sentivamo quasi tutti i giorni e non c’era problematica tecnica o scientifica su cui non ci confrontassimo per garantire a lei e al governo la migliore evidenza scientifica per le decisioni importanti da prendere.
Con l’onorevole Giulia Grillo avevo sempre avuto un rapporto corretto, ma dalla sua nomina a ministro della Salute con il governo Conte non l’avevo più sentita – cosa piuttosto insolita dal punto di vista istituzionale, essendo io all’epoca presidente dell’Istituto superiore di sanità, l’organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale.
Fu anche per questo che nel dicembre 2018 mi dimisi da presidente dell’ISS e, per tutta la durata del “Conte 1”, non ebbi alcuna collaborazione con il governo.
La mattina del 22 febbraio fui raggiunto da una telefonata del ministro della Salute Roberto Speranza. Non potevo che esserne sorpreso, tanto più che era pubblica la mia posizione critica nei confronti delle decisioni prese dal governo. Lo avevo sentito solo una volta telefonicamente, nell’ottobre del 2019, in occasione della mia nomina, da parte della Commissione europea, a presidente del Mission Board for Cancer, la più alta responsabilità scientifica attualmente ricoperta da un italiano in ambito europeo. Già allora avevo apprezzato il suo stile istituzionale e il garbo mostrato nei miei confronti. Con la stessa gentilezza, anche questa volta, mi chiamò invitandomi a raggiungerlo il giorno dopo presso la sede della Protezione civile, dove si era trasferito per fronteggiare l’emergenza.
Devo ammettere che il 23 febbraio, giorno dell’incontro ormai programmato, fui sul punto di rifiutare l’invito.
Quel pomeriggio, infatti, ero stato invitato a una trasmissione televisiva condotta dalla giornalista Lucia Annunziata. Come me, era ospite, a distanza, il direttore della Protezione civile Angelo Borrelli, che illustrò alla Annunziata una serie di misure adottate – misure che, a mio modo di vedere, non erano evidence-based né particolarmente coordinate. Nonostante i miei reiterati tentativi di interlocuzione critica, prontamente frenati dalla giornalista, ebbi, infatti, l’impressione che il meccanismo decisionale, in quel momento, fosse piuttosto scoordinato e approssimativo, tanto da farmi dubitare dell’utilità dell’incontro che mi attendeva.
Speranza mi richiamò quella sera stessa, ascoltò le mie perplessità sottolineando l’importanza di un lavoro comune per l’interesse del nostro Paese. Il suo tono mi convinse e a tarda sera mi recai, come stabilito, presso la sede di via Vitorchiano, per il primo incontro faccia a faccia con il ministro, rimasto al lavoro con pochi collaboratori.
Quella sera gli mostrai alcuni dei filmati che mi erano stati inviati dalla Cina. Non ebbi modo di mostrarglieli tutti. Quei filmati, che mi avevano profondamente sconvolto e che rivelavano in tutta la loro crudezza la gravità della situazione cinese, lo convinsero della necessità di un’azione decisa e urgente.
Fu allora che si avviò una collaborazione intensa e che oggi posso dire corroborata da una stima reciproca cresciuta nel corso dei mesi, trascorsi affrontando insieme tanti momenti difficili. Nel ministro Speranza ho trovato una persona per bene, dotata di forte senso delle istituzioni, ma soprattutto un valido alleato con cui è stato possibile portare avanti azioni e decisioni finalizzate unicamente a preservare la salute dei cittadini e del Paese, specialmente nella prima fase.
Iniziammo presto a riflettere su quale potesse essere il mio ruolo e insieme stabilimmo che la delega ai rapporti con le istituzioni sanitarie internazionali potesse rappresentare la collocazione più naturale della mia collaborazione, anche in virtù delle cariche che già ricoprivo come rappresentante dell’Italia nel Comitato esecutivo dell’OMS e presidente della Federazione mondiale delle società di sanità pubblica.
Proprio quando in Italia veniva identificato il primo caso autoctono di COVID-19, la prima decisione fu quella di comunicare la gravità di una situazione di cui noi avevamo contezza avendo anche visto i video cinesi, ma che ancora non era chiara né agli altri governi, né agli addetti ai lavori, né all’opinione pubblica.
Deci...