Il lavoro non ti ama
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Il lavoro non ti ama

O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli

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Il lavoro non ti ama

O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli

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«Fa' ciò che ami, e non lavorerai nemmeno un giorno in vita tua»: ecco lo slogan che ha mosso le nostre vite alla ricerca del lavoro dei sogni, quello che fai con il sorriso sulle labbra, che mette in gioco i tuoi talenti migliori e ti fa sentire parte di una squadra – di più: parte di una famiglia. Peccato che in quello slogan si nascondesse la ricetta per lo sfruttamento, il programma in codice per una nuova tirannia del lavoro che abbiamo accolto allegramente, convinti che il lavoro avrebbe ricambiato quell'amore. Ora però l'idillio si sta incrinando: al posto delle farfalle nello stomaco, la sensazione nettissima che in questa relazione qualcosa non vada. Perché facciamo sempre più fatica a cogliere il privilegio delle nostre vite precarie?Con Il lavoro non ti ama Sarah Jaffe ci aiuta a dare un nome e una ragione a questo groviglio di inquietudine, frustrazione e senso di colpa che fa da basso continuo alle nostre giornate lavorative, intrecciando le singole storie di lavoratrici e lavoratori a un'acuta analisi della storia recente. Guidata da Marx e Silvia Federici, Mark Fisher e bell hooks, Guy Standing, Selma James e molti altri, Jaffe ci mostra che il neoliberismo è anche un progetto di manipolazione delle emozioni, ma è un progetto che sta crollando ed esiste una possibilità di lotta a partire dalle sue rovine. Questo non è soltanto un libro che «fa pensare»: è un'istigazione al cambiamento, lo strumento per accendere una rivoluzione. «La beffa più grande del capitale è stata convincerci che il lavoro sia il nostro più grande amore», scrive Jaffe.«Liberare l'amore dal lavoro, allora, è la chiave per ricostruire il mondo».

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788833893846

1
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DISASTRO NUCLEARE
FAMIGLIA

Ray Malone ha scoperto di essere incinta mentre lavorava al suo primo musical teatrale.
All’epoca doveva ancora fare trent’anni, viveva a Londra, e si stava costruendo una coscienza politica. «Era il 2014, sei giorni prima che scoprissi di essere incinta», mi racconta, quando aveva visto un annuncio in cui cercavano una performer per un festival delle arti femminista. Erano i giorni appena prima del referendum sulla Brexit: dappertutto l’UKIP, il partito per l’indipendenza del Regno Unito, soffiava sul fuoco della protesta contro l’immigrazione e l’Unione Europea. «L’UKIP sembrava una barzelletta, i suoi leader se ne uscivano continuamente con cose assurde», dice Malone. La loro ossessione per i ruoli di genere tradizionali l’aveva convinta a creare una coreografia swing per prenderli in giro, e aveva unito le forze con un altro teatrante che aveva in mente uno spettacolo di cabaret sempre a tema UKIP.
Scoprire di essere incinta era stato uno shock. «All’inizio è stato un po’ truculento», mi spiega. «Pensavano che avessi una gravidanza extrauterina perché avevo molto dolore. Poi mi hanno trovato una ciste grande quanto un’arancia». Le avevano anche diagnosticato l’endometriosi, motivo per cui con tutta probabilità quella sarebbe stata la sua unica possibilità di fare un figlio, una cosa che aveva sempre voluto.
Malone è una ragazza minuta, pallida ed esile, con mani di artista in perenne movimento, sempre occupate a gesticolare, a adornare le parole. Quando racconta le si illumina il volto e sprigiona tutto il carisma che deve avere anche in scena.
Durante tutta la gravidanza non ha mai smesso di ballare: con una parrucca appariscente e delle protesi ad accentuare le curve femminili, inscenava sul palco tutti gli stereotipi dell’essere donna su cui si era imbattuta nel corso della vita. «Mia figlia ha una grande musicalità. Sarà per quello», ride. Era la prima volta che faceva teatro politico con un gruppo di attivisti, e aggiornava continuamente lo spettacolo per tenere il passo con le assurdità dette dai politici. «Un consigliere dell’UKIP aveva detto che le alluvioni erano colpa degli omosessuali, allora abbiamo preso una compagnia di gay e le abbiamo fatto cantare “It’s Raining Men”». Quando avevano portato lo spettacolo nella città di Nigel Farage, fondatore e volto dell’UKIP, una sera che lui era lì in visita, avevano provato a improvvisare un trenino nel pub davanti al teatro. Ovviamente li avevano cacciati, ma Farage era uscito dal pub per affrontarli, e poi aveva dichiarato alla stampa che era stato aggredito da dei «comunisti» che avevano inseguito i suoi figli. «Sul Daily Mail ci ha chiamati “feccia”», mi racconta Malone.1
Una volta tornati a Londra, mentre gli attori si erano riuniti per fare il punto della situazione, un gruppo di nazionalisti bianchi del Britain First aveva fatto irruzione in teatro provando a intimidirli. «Ricordo di aver pensato: “Cerca di restare calma, altrimenti fai male alla bambina”. Quelli di Britain First hanno cominciato a dire: “Vi insegniamo noi a mettere paura ai bambini!”, «Sei tu la comunista di merda che inseguiva quei bambini innocenti?» A quel punto i miei amici hanno cominciato a gridare: “È incinta!” Io pensavo solo che se c’era un’innocente, quella ero io»
«E questa è la storia di come sono diventata madre». Era schiacciata dalla pressione del giudizio (brava madre, cattiva madre); non riusciva a scendere a patti con la condizione di madre single per via dell’educazione che aveva ricevuto in famiglia (una famiglia «abbastanza patriarcale», come mi ha detto lei stessa). In più doveva scontrarsi con il pregiudizio che le donne della working class fanno figli solo per ottenere gli assegni familiari.
Malone è nata nel Galles del Nord, ultima di sei fratelli dai quali la separano un bel po’ d’anni. Quando è arrivata lei, i suoi genitori erano più sicuri economicamente di quanto non lo fossero mai stati, eppure si consideravano working class. Il padre era professore di inglese e istruttore di arrampicata, la madre aveva lasciato la scuola da ragazza per lavorare in una bottega artigiana. «Noi figli siamo tutti creativi, penso che abbiamo preso da nostra madre, lei a sedici anni già lavorava in bottega». Anche il padre aveva una certa influenza artistica: addirittura il poeta John Cooper Clarke ha dichiarato che non si sarebbe mai messo a scrivere non fosse stato per le sue lezioni. John Malone diceva sempre ai suoi studenti: «Scrivete come i grandissimi, ma di quello che sapete». Una raccomandazione che Malone serbava anche per sé.
Essere un’artista, ci tiene a sottolineare, significa scegliersi un lavoro privo di sicurezze. La domanda che si faceva era sempre quella: «Sei sicura di poter crescere una figlia facendo questo lavoro? Tu puoi pure andare avanti a pane e fagioli in scatola per una settimana, ma non puoi mica far morire di fame tua figlia per inseguire una carriera artistica».
Con il padre della bambina, un uomo che conosceva da un po’ e con cui aveva fondato una compagnia teatrale, avevano deciso di tenere la bambina, ma tra loro non aveva funzionato e dopo poco si erano lasciati. All’ottavo mese Malone si era resa conto che avrebbe avuto bisogno di qualcuno che la aiutasse. Dopo aver dato un’occhiata agli affitti di Londra, aveva deciso di trasferirsi a Sheffield per stare più vicina alla sorella, che l’aveva aiutata economicamente, facendole per esempio la spesa in cambio di un po’ di babysitteraggio con i figli. «Non te la puoi cavare da sola con una neonata. Al consultorio ti chiedono solo: “Tutto a posto? La bambina dorme la notte?” Ma mica ti chiedono: “Come ti senti ora che ti sei trasferita a trecento chilometri dai tuoi amici, con una figlia piccola, in un posto in cui non conosci nessuno, senza avere la minima idea di cosa ne sarà della tua vita?”» La situazione politica non aiutava, il Regno Unito si era completamente polarizzato sulla Brexit. Le mancava il gruppo del cabaret.
Appena prima che Nola, sua figlia, compisse un anno, un’amica dei tempi del teatro l’aveva chiamata proponendole uno spettacolo in Grecia. Trasferitasi sull’isola di Lesbo, Malone – con Nola in braccio – aveva diretto una messa in scena della Tempesta di Shakespeare con una compagnia di sole donne. Un paradiso: «Ero circondata da questo gineceo che si occupava di mia figlia, mentre io facevo la regia sotto al sole».
Ma dopo l’ultima replica lei e Nola erano tornate in Inghilterra, e si erano sistemate in un cottage «praticamente in mezzo al niente». Manchester era a venti minuti di treno, ma andare in città con una figlia piccola era un problema. «Eravamo completamente isolate». Nonostante il cottage fosse gratis – circostanza non da poco visto che Malone non aveva un lavoro – la solitudine totale si faceva sentire. «Non tutti riescono ad avere un figlio nel modo “giusto”, con un partner accanto e il tuo bel mutuo acceso. Essere un’artista a volte ti sembra un lusso che non ti puoi permettere e a quel punto ti sembra che tutta la tua identità sia una recita, un fingerti qualcosa che non sei». Malone aveva studiato molto per lavorare in teatro e non voleva mollare considerato l’investimento che aveva fatto. Eppure: «Molti attori entrano in crisi. Quanto tempo ti dai per provare a sfondare?» Anni prima, in Russia, aveva fatto per un breve periodo l’au pair in una famiglia di ricchi, e davanti a tutta quell’opulenza si era convinta ancora di più a continuare la carriera artistica. «Il teatro è sempre più un lavoro per gente ricca, c’è bisogno anche di noi», mi confida.
Così, quando si era presentata l’occasione di rifare La tempesta, questa volta a Londra, Malone non stava nella pelle. Nola sarebbe stata con il padre e lei avrebbe potuto finalmente guadagnare qualcosa con il teatro. «Per un po’ ho vissuto con dei coinquilini ma stare in una stanza con una bambina di due anni alla fine si è rivelato un incubo». Aveva lasciato casa, e per un periodo era andata avanti appoggiandosi alle accomodation degli spettacoli. «Era stressantissimo. Non sapevamo dove saremmo capitate. Non avevamo una sterlina. Dovevamo cavarcela da sole».
Viveva essenzialmente dell’Universal Credit (il nuovo sistema di welfare del Regno Unito), degli spettacoli che riusciva a trovare – «qualsiasi cosa mi proponessero» – e dei pochi soldi che le passava il padre di sua figlia. Vivere vicino a lui però significava essere «una poveraccia in un quartiere di ricchi» e l’Universal Credit era una sorta di stigma sociale, soprattutto tra la gente con i soldi che non concepiva come crescere una figlia potesse essere considerato un lavoro. «Ho provato a iscrivere Nola all’asilo dove mi è stato detto che avrei dovuto pagare centocinquanta sterline a settimana. C’era questa tizia al telefono che continuava a farmi domande sul mio reddito al che le ho risposto che prendevo l’Universal Credit ma il mio ex era un insegnante. A quel punto lei se n’è uscita con questa frase: “Le persone dovrebbero guadagnarsi i soldi con il proprio lavoro”. È stata una coltellata nello stomaco, mi aveva praticamente dato della parassita».
Nel periodo in cui Malone era senza casa, la giunta locale le aveva offerto un appartamento a Birmingham. Con i sussidi per l’affitto calcolati al di sotto dei prezzi di mercato, per molte persone l’unica opzione era lasciare Londra – dove però Malone avrebbe potuto contare sull’aiuto dell’ex. «Buttiamo una caterva di soldi in affitto. A volte penso a tutte le cose che avrei potuto fare con quei soldi. Un corso di musica per Nola. Una vacanza. Ma come si fa se se ne va tutto in affitto?»
Cercarsi un lavoro fisso non era meno complicato. Per continuare a ricevere l’Universal Credit Malone doveva presentarsi periodicamente al collocamento, e i requisiti erano sempre più stringenti man mano che la figlia cresceva. Ora che Nola aveva ormai tre anni, Malone si sarebbe dovuta trovare un full time e al tempo stesso passare regolarmente al collocamento per fare dei colloqui con un work coach. Ma trovare qualcuno che badasse alla bambina era un’impresa, con tutto che Nola andava a scuola, e Malone si chiedeva valesse la pena trovarsi un lavoro. I genitori, a quanto mi dice, sono sottoposti a uno stress incessante. «Ci sono madri a cui vengono portati via i figli per tutta una serie di disturbi legati allo stress che deriva essenzialmente dalla povertà, dall’austerity, dalla situazione assurda nella quale ci troviamo. Io ho un master post-laurea e comunque stento ad andare avanti. Mi fa male parlarne. Nessuno vuole passare per una cattiva madre».2
Il compito delle donne è amare. Questo viene insegnato alle bambine dal momento in cui vengono al mondo; le bambine vengono vestite di rosa, il colore di San Valentino. Mentre crescono sono incoraggiate, in mille piccoli modi, a prendersi carico delle esigenze altrui, a sorridere, a farsi belle. I ruoli di genere si consolidano in primo luogo in famiglia dove, anche nella presunta era del post-femminismo, tutto ruota intorno al lavoro di cura fornito gratuitamente. Se non assolvi a questo compito, sostiene Malone, per tutti vuol dire che non vai bene come madre, il che spesso significa che non vai bene come donna.3
Il lavoro per amore inizia quindi in casa. Ci viene detto che pulire e cucinare, disinfettare le ferite, insegnare ai bambini a camminare, parlare e ragionare, appianare le divergenze e risolvere le piccole crisi, sono tutte cose che alle donne vengono naturali. Queste qualità non vengono riconosciute come competenze, come qualcosa che al pari di ogni altra capacità si può imparare con la pratica. Questo assioma che dalle mura domestiche si è insinuato nei luoghi di lavoro di milioni di persone – non necessariamente donne – ha creato un esercito di lavoratori sottopagati, sovraccaricati, sviliti. Il capitale estrae profitto dalla nostra disponibilità ad accettare che il compito delle donne sia amare, che l’amore stesso ne sia la ricompensa, e che non vada svilito con il denaro.
Non è naturale per niente. La famiglia è sempre stata e continua a essere un’istituzione sociale, economica e politica che si è sviluppata parallelamente ad altre istituzioni analoghe – il capitalismo e lo Stato, tanto per iniziare – pensate come meccanismi di controllo e di indirizzamento del lavoro, nel caso specifico quello delle donne. Come scrive la storica Stephanie Coontz, stracciarsi le vesti per il declino della famiglia nucleare eterosessuale equivale a essere nostalgici di una cosa che non è mai esistita, di una situazione che non ha mai incluso tutti e di cui ben pochi beneficiavano. Significa lamentarci del crollo di un edificio costruito appositamente per mantenere il lavoro delle donne il più economico possibile, quando non gratuito.4
Del resto l’etica del lavoro e quella della famiglia sono andate sviluppandosi di pari passo e in maniera organica. Quando sentiamo parlare della necessità di «conciliare lavoro e vita privata», quasi sempre si tratta di storie di donne che cercano di organizzare il proprio tempo fuori dall’ufficio per stare in famiglia. In altre parole, la famiglia è presentata come un’entità in competizione con le richieste del capitalismo. Eppure i grandi pensatori, a partire da Karl Marx e Friedrich Engels, ci hanno spiegato che la famiglia serve da sempre a oliare i meccanismi del capitalismo rifornendolo continuamente di lavoratori essenziali al suo funzionamento. Ed è questo il motivo per cui il lavoro di cura, il cucinare, la risoluzione dei conflitti, nonché il processo stesso del mettere al mondo i figli, prende il nome di «lavoro riproduttivo». Se la famiglia è in crisi è perché il capitalismo è in crisi, e se adesso saltano fuori le crepe è perché ciò che ci hanno raccontato su queste istituzioni non ha superato la prova della realtà.5
Una famiglia di due genitori, due virgola cinque figli e la casa con la staccionata bianca, non è più «naturale» dell’automobile che li porta a spasso. Si tratta di una creazione della Storia, una Storia tanto di violenza e conflitto quanto di ciò che chiamiamo evoluzione. L’unico fatto naturale coinvolto nella riproduzione, scrivono Coontz e l’antropologa Peta Henderson, è che coloro che abbiamo imparato a considerare donne sono «la fonte di nuovi membri per la società». Una divisione del lavoro riproduttivo tuttavia non dovrebbe automaticamente implicare che un tipo di lavoro sia pagato, valorizzato e mitizzato mentre l’altro svalutato al punto di non essere neppure considerato tale.6
Le opinioni degli studiosi divergono sulle esatte origini del dominio maschile – altrimenti detto patriarcato – tuttavia ci hanno fornito alcuni indizi su come siamo arrivati a un mondo nel quale alle donne è ancora affidato il grosso dei lavori non retribuiti. Non appena gli esseri umani, individualmente o come gruppi, cominciarono a produrre più di quanto riuscissero a consumare, presero a scambiarsi tra loro prodotti ma anche membri della comunità, in una protoversione dell’attuale matrimonio. Una volta che questi prodotti divennero proprietà private, da tramandarsi lungo una linea ereditaria, il controllo della riproduzione – così come di tutti quei lavori che le donne erano tenute a compiere – acquisì per gli uomini un’importanza sempre maggiore. Le donne non solo erano oppresse ma essenzialmente sfruttate.7
Tale sfruttamento, basato sulla subordinazione del lavoro femminile, fu in parte reso possibile attraverso la violenza, ma conservato attraverso l’ideologia. Come istituzione ormai consolidata, la «famiglia» venne progressivamente rimpicciolita fino ad arrivare a quella che ora identifichiamo come famiglia nucleare. Ai tempi degli antichi Greci il focolare domestico era un elemento ormai centrale, e il luogo destinato alla donna.8
Ciò non vuol dire che il lavoro e la famiglia fossero gli stessi nell’Atene di Platone e nell’America degli anni Cinquanta. Tanto per iniziare la prosperità ateniese si basava sul lavoro degli schiavi, non di uomini bianchi che lavoravano in fabbrica. Ma la sottomissione della donna e la svalutazione del suo lavoro erano comunque due dati fondativi della nascita dello Stato come istituzione, ben prima dell’avvento del capitalismo.9
Il capitalismo tuttavia adottò tutta una serie di nuove prassi per scorporare e controllare il lavoro domestico. La divisione tra «casa» e «lavoro» in Europa non esisteva: nell’alto medioevo le donne si erano ritagliate un certo grado di libertà e lavoravano come dottoresse, macellaie, insegnanti, commercianti e fabbre. «Nell’Europa precapitalistica», scrive Silvia Federici, «la subordinazione delle donne agli uomini era stata mitigata dal fatto che esse avevano accesso ai beni comuni e ad altre risorse collettive mentre nel nuovo regime capitalistico le donne stesse diventarono dei beni comuni, poiché il loro lavoro fu definito una risorsa naturale esistente al di fuori della sfera dei rapporti di mercato».10
Questa riorganizzazione del lavoro riproduttivo fu introdotta con il sangue. Nello specifico la cacc...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Indice
  3. «Nessuno ha più voglia di lavorare». Prefazione all’edizione tascabile
  4. Benvenuti nella settimana lavorativa. Introduzione
  5. Prima parte. Potremmo chiamarlo amore
  6. 1 / Disastro nucleare. Famiglia
  7. 2 / Come una di famiglia. Lavoro domestico
  8. 3 / Scioperiamo perché ci teniamo. Insegnanti
  9. 4 / Servire con il sorriso. Commesse
  10. 5 / Soffrire per la causa. Non profit
  11. Seconda parte. Enjoy!
  12. 6 / Il mio studio è il mondo. Arte
  13. 7 / Incrociamo le dita. Stagisti
  14. 8 / Professionisti proletari. Accademici
  15. 9 / Per gioco e per amore. Programmatori
  16. 10 / Bel divertimento. Sportivi
  17. What Is Love? Conclusioni
  18. Ringraziamenti
  19. Note