È tutto un prato. È tutto un prato con noi sopra. Sappiamo di selvatico, di erba medica, di fossi e di sudore seccato. Di fuga da un altro guaio. Dopo aver corso come Domenghini, ci lasciamo cadere a pancia in giù, tiriamo il fiato e l’aria sa di terra. Quando ci giriamo vediamo un pomeriggio che non finisce mai.
E invece finisce e ci fa lasciare sempre qualcosa a metà. I bagni in mutande nei canali, le gogne inflitte e subite, le gare in bici fino al cartello, la testa sotto la fontana con l’acqua che sa di ferro, le cerbottane e le fionde, le manate ai campanelli, la fitta al cervello per il morso al ghiacciolo. Le strisce di verde che non vengono mai via.
Segno le braghe a mia madre e le dico: «Non stare a lavarle, le rimetto così fino a quando ricomincia scuola».
«Tant t’è bel li stes» sorride lei, sei bello lo stesso.
La Rina che mi perdona sempre.
È quasi mezzogiorno di domenica. Me la sto prendendo comoda, forse troppo. Sta per diventare la data del mio compleanno. Ogni anno sarà il 13 marzo. Ogni anno a una settimana dalla primavera.
Mio padre e i suoi stanno aspettando in cucina. All’inizio le urla della Rina le sentivano stentoree, e nonna Ermelina, che di figli ne ha partoriti nove e persi tre, garantiva: «Tut a post». Poi le grida si sono fatte disperate e lei, con il sorriso già più tirato, ha aggiunto: «L’è normel». Quando dalla stanza è arrivato solo un piagnucolio flebile, l’Ermelina si è zittita. Adesso che non si sente più niente, l’angoscia non sa come nasconderla.
Di qua la levatrice – quella di “macché ospedale, ci penso io, tranquilli” – è ormai in balìa del panico fra le gambe di una ragazza e i suoi gemiti di fine corsa. Ha già provato la manovra proibita della disperazione, salendo di peso sulla pancia che non vuole saperne di sgravarsi, ma la Rina ha urlato come se la stessero aprendo in due. Bisognerebbe proprio correre all’ospedale, non fosse che quell’unico piano B non è mai stato considerato e adesso è tardi, tardi per tutto.
Tardi per quasi tutto, perché a volte c’è un soffio fra un evento e la rassegnazione che porta. Una sottilissima lamella di luce che viene da uno spiraglio, uno spiraglio in cui, forse, si potrà infilare la punta di una leva. O un dito.
«Ci sono, Rina, ci sono!» dice finalmente l’ostetrica. La lampadina che credeva bruciata era solo avvitata male: si è accorta che il cordone ombelicale mi si è stretto attorno alla fronte e mi tiene incastrato qui.
Un ditone che passa attraverso un varco di luce e mi slega facendomi scivolare qualcosa da sopra la fronte è la mia prima immagine del mondo fuori.
Ora la levatrice alza la testa e, mentre continua a frugare dentro mia madre, la guarda in faccia. «Adesso è libero. Sei stata bravissima ma mi serve ancora uno sforzo. Uno, te lo giuro, me ne basta uno.»
Il bianco degli occhi della Rina è striato di sangue per i capillari rotti, lo sguardo ormai piatto, disabitato.
«Guardami» le ingiunge la levatrice, «sono qui. Guardami, ti dico. Ce la fai, ti sembra impossibile ma ce la fai, io lo so. Dopo non ti chiedo più niente. Te lo giuro ancora su Dio o chi ti pare, ma spingi, per favore, spingi.»
Tutt’e due ci affidiamo all’ultima spinta rimasta possibile.
Con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia – chissà, un imprinting per il futuro? – vengo alla luce cianotico. Un aggettivo che ha dentro quella radice, “Ciano”, con cui i miei futuri amici magari prenderanno a chiamarmi. Sono uscito bluastro, in America direbbero born blue. Nato triste. Forse qualche pendenza con il destino, nei miei prossimi anni, ce l’avrò.
Il paese in cui sono nato, Correggio, ha un nome che non consentirà mai l’elezione di una miss. Una fetta di palude addomesticata con olio di gomito da gente testarda, sempre pronta a sfinirsi. La vanga e il sorriso facile. La nebbia con cui venire a patti. E grazie a quei patti trovare del buono anche in lei. Costretti a guardare meglio. Immaginando. Campi a perdita d’occhio, pioppi ogni due per tre e vigne fitte fitte, e poi aie, porcili, cascine, stalle, salumifici, cantine. Tutti puntini da unire per svelare la sagoma del quadro generale: una terra di cui potersi fidare. Terra grassa come l’accento da prendere su per una lingua a sé, fatta di parole create apposta per intendersi lì dove l’italiano non ce la fa. I lembi della coperta tirati ai lati da don Camillo e Peppone. Il maiale a mettere d’accordo tutti purché non se ne buttino mai nemmeno le setole. Terra liscia come un bigliardo, piallata così bene da nasconderti la fine; senza troppi intoppi per l’occhio se non, nei giorni più tersi, qualche spuntone collinare sul lato opposto al Po. Il vino rosso che schiuma e va bevuto freddo. Terra capace di ricucirsi da sola le crepe lasciate dai terremoti. Terra da quindici anni sgombra dai supplizi della guerra. Il terrore, il sangue, la fame, e poi tutta quella libertà ritrovata ma in qualche modo nuova. Andare o restare, mangiarsi la vita o stare a guardare. Libertà, comunque. Io sono fra quelli che vengono su dopo. Quelli fra la ricostruzione e il boom.
L’appartamento in cui sono sbucato è al secondo piano del 5 di via Santa Maria, una piccola laterale del Corso che taglia in due il paese. La casa è di “quel buonuomo di Buriol”, Marcello, quello con il toscano e le tre parole in croce, ognuna una sentenza. È asciutto non solo di carattere, ci balla un po’ dentro i calzoni alla Charlot e il panciotto sempre abbottonato. Marcello e l’Ermelina si sono trovati per la legge degli opposti che si attraggono.
Lei le conosce bene, le lune di lui, sa quando lasciarle lì e quando invece tirarle a lucido, perché, ancora più che con suo marito, c’ha confidenza con il buonumore, e lo si capisce anche solo a vederla com’è, così piccola e tonda. Morbida. Gli unici spigoli li fanno quei suoi occhietti aguzzi. Il volume a cui parla c’entra solo in parte con il suo principio di sordità: l’Ermelina vuole essere sicura di farsi sentire. La battuta ad alta voce di cui ridere ogni volta per prima.
E poi giocare. Quanto si può. Lotto, tombola, carte, i numeri da rincorrere con il retino per le farfalle e da infamare senza pietà quando non si lasciano prendere. Infamare i numeri finché si vuole, ma la fortuna mai, nemmeno a pensarci, che quella bisogna tenersela buona. Lisciarla con il pezzo di pelle di biscia che l’Ermelina nasconde nel cassetto del comò fra gli abiti stirati, la naftalina e le caramelle alla mela. Chissà se è stata proprio la pelle di biscia a proteggerla quando si è trovata così vicina al peggio.
Quanti pomeriggi ha incrociato, nella ricevitoria di via Roma, quella donnina dall’accento meridionale. Quel metro e cinquanta di affabilità. Quell’esserino cordiale e gentile che intanto squartava a colpi d’ascia alcune sue conoscenti e ne scioglieva i pezzi nella soda caustica per farci forse sapone o forse farina per i biscotti da offrire col tè alla vittima successiva. Quella figurina passata alla storia come la prima serial killer d’Italia. La “saponificatrice di Correggio”. Da noi l’uomo nero con cui spaventare generazioni di bambini disobbedienti non è un uomo ma una donna, e ha un nome, anzi un cognome, Cianciulli, che ha il suono di uno schiaffo.
La mano che aveva appena impugnato un’ascia era la stessa che stringeva quella dell’Ermelina: «Se ha sognato qualche numero me lo dica, eh. Su quale ruota gioca stavolta? Ma sa che la vedo bene? Magari una volta un caffè…».
La Cianciulli massacrava donne sole. Le era più facile coprirne l’assenza mettendo in scena finte storie di partenze verso parenti lontani. L’Ermelina l’ha scampata perché aveva Marcello, lui e tutti i suoi fumi.
E quando per loro due si è trattato di fare posto al figlio Giovanni e alla Rina, non hanno detto bao.
Giuanin, mio padre, è quello che si sente fischiettare ogni sera su per le scale. Non sbaglia una volta che sia una con quella specie di sigla che annuncia il suo rientro, oltre che il suo umore. Settanta chili di nervi, istinto e testosterone. La fretta e l’energia. Mani tozze, forti e pesanti dopo tutti gli anni da meccanico. Mani con cui accendersi l’una con l’altra le Nazionali senza filtro, o spalmarsi litri di brillantina a tenere i capelli all’indietro. La faccia scoperta fino all’ultimo centimetro. Nelle foto, in genere, ha il piglio da star.
Anche la Rina nelle foto esce bene. Come un’attrice acqua e sapone da fotoromanzo. Ha aspettato la fine della coda per arrivare in casa Iotti. Prima ci sono stati i due fratelli maggiori e poi, quando c’era da giocarsela sul filo di lana con sua sorella gemella, è sbucata mezz’ora dopo. A metterle al mondo ci ha pensato la Barbarina, uno scricciolo di quaranta chili che chissà dove le teneva, quelle due. Ai quattro sono stati dati nomi da ricordare alla svelta: Rino, Rina, Remo, Roma. Tutti a venire su in una campagna fuori dalle mappe, che il caseggiato più vicino sembra di vederlo con il binocolo rovesciato. I genitori fanno i mezzadri, coltivano la terra per i padroni e vengono pagati in natura con una parte dei frutti della loro fatica. Soldi per il vestito nuovo quasi mai, ma cibo in tavola sempre.
Si chiama Giovanni pure mio nonno materno, e la sua allegria non è da meno di quella di Giuanin. È lì a cantare Verdi o Puccini mentre vanga, semina, munge, pota o vendemmia, e la sera nella stalla si esibisce in storie e canti popolari per i vicini, che anche se non sono vicini si presentano sempre. A volte mette su commedie in dialetto con tutta la famiglia. Una famiglia che la gioia di vivere non gliela devi mica spiegare.
E la Rina ride. Ride quando con i piedi scalzi pesta l’uva e poi ci salta su, ballando il liscio. Quando i fratelli le corrono dietro per l’aia. Quando un metro di neve li mette tutti vicini al camino a vedere scoppiettare le bolle della polenta. Ride con la Roma quando, identiche nello stesso grembiule, fanno mano nella mano le lunghe camminate che dividono casa da scuola. Quando comincia a vedere Giuanin di nascosto. Quando lui la carica sul Mosquito. «È bello, Giovanni, che più di così non si può» dice sempre alla Roma.
Poi le tocca anche piangere. Il giorno in cui suo padre, che fino a ieri inforcava la bicicletta per venire “in centro” e tenermi in braccio, si spegne di colpo. Un infarto. Un minuto c’è e canta un’aria, il minuto dopo non c’è più. Se ne va quattro mesi dopo che sono arrivato io, negli stessi giorni in cui, a pochi chilometri da qui, durante una manifestazione sindacale, cinque operai vengono uccisi dalle forze dell’ordine in uno scontro che conteggia da una parte sassi e bastoni, dall’altra 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola. Quei “morti di Reggio Emilia” finiscono in più di una canzone.
La Rina ci mette il suo tempo ma piano piano riprende a sorridere. Deve farlo almeno con i clienti, mentre dà una mano nel negozio messo in piedi da Giuanin. Tessuti e confezioni.
Per aprirlo mio padre ha firmato una pila di cambiali alta così, ma gli incassi del negozio non bastano, e allora tocca andarseli a cercare, ’sti biglietti da mille: «Bisogna c’a faga l’ambulant». Per lui fare l’ambulante, più che un dovere, è una promessa di piacere. Campanello, sorriso d’aggancio, battuta da copione e, se lo lasciano entrare, sotto con l’intero repertorio. Tutte le porte sbattute in faccia non gli fanno un baffo, a Giuanin. Non scala mai dalla quarta.
Io le mie, di marce, fatico a ingranarle. La pertosse, qui, la chiamano “tosse cattiva”, e cattiva mi viene: ogni colpo mi provoca un mal di pancia che so solo io. La Rina è alla Singer a sistemare i vestiti venduti in negozio. Ogni tanto viene da me, si piega sul box per bambini e mi dice: «Cosa c’è, Cianein, cos’hai? È tutto il pomeriggio che ti lagni». Poi, siccome invece di smettere frigno sempre più forte, mi prende in braccio e scende nella farmacia sotto casa.
«Ha la tosse cattiva ed è tutto il pomeriggio che piange, non riesco a farlo smettere. E poi continua a chiedere di bere, cosa posso fare?»
C’è un medico, proprio lì, proprio in quel momento, la si legga come si vuole. Nota subito la mia cera.
«Me lo dia un attimo, signora.» Mi sdraia sul bancone, mi poggia le dita sulla fronte, vuole che apra la bocca e tiri fuori la lingua. Quando mi palpa la pancia, sbarra gli occhi e dice: «In ospedale. Di corsa».
«Cosa? Cosa?» chiede la Rina.
«Lo tiri su, signora, dobbiamo andare.»
Al San Sebastiano ci porta lui sgommando e pigiando il clacson. All’arrivo fa il diavolo a quattro perché qualcuno si occupi di me. «Fate presto. Fate presto.»
Davanti alla porta sbarrata dalla sala operatoria mia madre, gli occhi fuori dalle orbite, piantona su e giù tormentandosi le dita. Il dottore ha deciso di rimanere ad aspettare. È giovane. In ansia pure lui. Un infermiere esce e li raggiunge.
«Come sta? Come sta?» lo anticipa lei.
Lui scambia un cenno di saluto con il medico e poi gli lancia un’occhiata furtiva, come il segno al compagno di scopone. Si rivolge alla Rina: «Mi dovrebbe dire l’età del bambino, per cortesia».
Mia madre torna alla carica: «Mi vuole dire, per favore, come vanno le cose là dentro?».
L’infermiere sospira. «È ancora sotto i ferri, signora. Fiducia. Ma adesso dovrebbe dirmi quanti anni ha il bambino.»
«Un anno e mezzo.»
Lui butta fuori l’aria: «Un anno e mezzo?». Cerca ancora gli occhi del medico. «Si tratta di peritonite, signora. Il dottore le potrà spiegare meglio.»
Il dottore le mette una mano sulla spalla: «La peritonite a quell’età… è… insomma, è un po’ presto».
La Rina controlla le facce dei due. Non trova quello che vorrebbe. Respira velocissima. Scatta verso la sala operatoria. L’infermiere la insegue e la ferma afferrandole un braccio. Il dottore riprende: «Mi ascolti, l’importante è che l’abbiamo preso per tempo. Perché è così. Mi creda». Ma non convince nemmeno se stesso. Lei si nasconde la fronte tra le mani. Si guarda intorno come se non sapesse più dov’è. Dalla sala operatoria esce un’infermiera con la cuffietta e la mascherina ancora addosso. Li cerca con lo sguardo. Quando incrocia il loro, strizza gli occhi e alza il pollice. Rientra. La Rina salta al collo di infermiere e medico e li abbraccia insieme così forte che quasi li strangola. I due ridono e tossiscono mentre si tengono il gozzo con la mano: «Complimenti per la stretta, signora».
«Scusate, non volevo. È che sono venuta su in campagna.»
Ogni volta che mi fa il bagno, mia madre poggia la punta del dito sulla cicatrice e l’accarezza. «Questo sfregio crescerà con te. Diventerà grande insieme a te. E lo troverai sempre lì a ricordarti una cosa: puoi anche faticare a nascere, o prenderti la peritonite quando ancora non sai camminare, ma ce la fai, capito? Tu ce la fai. Te lo dice la Rina.»