Tutto d'un fiato
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Tutto d'un fiato

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Informazioni sul libro

Tutto d'un fiato è la mia storia, la tua storia e quella di molti altri. Un viaggio dall'altra parte del mondo con uno zaino in spalla e mille dubbi in testa. Un viaggio interiore durante il quale una ragazza si trova ad affrontare i pregiudizi della società nella quale è nata e vissuta, provandoli sulla propria pelle e comprendendo giorno dopo giorno quanto fosse anche lei parte di quel meccanismo malsano che vuole gli uni migliori di altri.Razzismo, omofobia, misoginia, amore, religione, alcool, droghe, sesso. Cinque giorni in cui le accadrà di tutto e che le cambieranno la vita perché quando tocchi con mano, tutto cambia.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9791221403817

CAPITOLO 1

È troppo presto. Tutta questa fretta di uscire di casa per evitare il traffico e non abbiamo trovato nessuno. Mancano oltre tre ore e mezza alla partenza. Pago il tassista, prendo il mio zaino pesantissimo e nuovo di zecca, e mi avvio all’ingresso. Sigaretta di rito, con calma e da sola questa volta. È una prima volta, la mia prima volta di tante altre e la sensazione è sempre la stessa: adrenalina mista a paura. Non sarà più l’ultima sigaretta prima di un viaggio, ma l’ultima sigaretta prima “del” viaggio, il mio primo da sola, con uno zaino in spalla e un biglietto per Bangkok con ritorno tra sei mesi, prorogabile. Più ci penso e più tentenno. Mi siedo su una panchina fuori dall’aeroporto, metto gli auricolari e accendo la sigaretta. Ho tutto il tempo.
Vedo passare una ragazza che indossa una maglietta del Che e associo subito l’immagine a mia zia, l’anarchica di famiglia. Ne è ossessionata. Di lui e del Maestrone, lo ha sempre chiamato così. Sorrido pensando a tutte le volte che entravo in quella stanza, sempre lui e solo lui. Conosceva tutte le sue canzoni a memoria, la musica era sempre la stessa pur essendo sempre diversa. La storia della mia vita. Lo ascoltava in continuazione, tant’è che iniziavo a odiarlo: così è cominciata la mia lunga storia d’amore con le sue canzoni, detestandolo.
Lei è stata anche la sola a sostenermi. Appena lo ha saputo ha esordito con un “era ora!”, come se lo aspettasse da tempo. La preoccupazione principale di tutti, perché eccetto lei nessuno mi ha sostenuta in famiglia, era che fossi sola. Come se una donna debba essere per forza sempre accompagnata perché non in grado, perché più debole, perché donna. Per questo motivo ho deciso di partire zaino in spalla, per dimostrargli che non è così e che se la maggior parte delle persone ha sempre creduto che non fosse opportuno, non significa che debba continuare a pensarlo. Forse sono stata un po’ troppo audace, ma l’orgoglio mi ha impedito di tornare sui miei passi e ne sono contenta.
Faccio il check-in, mancano ancora due ore e mezza all’imbarco. In aereo serviranno sicuramente la cena e la colazione, ma non posso resistere fino a stasera a stomaco vuoto. Devo pranzare, ci vuole un hamburger e so già dove andrò a mangiarlo. Se analizzassero cosa c’è dentro, quegli hamburgers sarebbero illegali; questa è la vera droga, non la marijuana. Quella dovrebbero legalizzarla. Sorrido. Mia zia sarebbe d’accordo.
Apro lo zainetto per cercare il portafoglio e la vedo lì, tutta stropicciata. È consunta da quante volte l’ho letta. Nessuno scrive più lettere oggi. Messaggi, WhatsApp, e-mail, ma non lettere e non più scritte a mano. Io non ne ho mai ricevuta una e non mi sarei aspettata di riceverla da lui. Soprattutto mai avrei pensato di provare tanto piacere nel leggerla, scritta nero su bianco. Capisco perché mia zia le tiene tutte in una grande scatola; ne ha a centinaia, ai suoi tempi non esisteva Internet e il modo più economico di mantenersi in contatto era scrivere lettere. Pensare di dover attendere giorni per ricevere una risposta è inconcepibile oggi. Tutto e subito è il nuovo motto. Avrei potuto fare una foto e lasciarla a casa, ma l’ho portata con me, magari avrò anch’io una scatola come quella un giorno.
La apro, la conosco a memoria:
Amore mio,
Se sapessi quanto sei bella. Non dubitare mai di esserlo solo perché non te lo dico. Se te lo dicessi tutte le volte che lo penso diventerebbe monotono e si perderebbe l’effimero piacere del complimento. Ogni volta che ridi sei bella; ogni volta che hai il broncio sei bella. Quando ti arrabbi, quando esulti, quando emetti una delle tue sentenze sei bella. Ogni volta che i miei occhi cadono su di te vedo la bellezza in tutte le sue forme. Quando salgo le scale e ti trovo ad attendermi sulla soglia mi innamoro di nuovo e ancora di te. Non proferisco parola, ma i miei occhi ti assaporano perché sei la cosa più bella che hanno mai visto. Ora capisco perché il mio cuore non si sia mai concesso completamente all’amore, perché il mio cuore ti stava aspettando. C’eri sempre tu, ci sei sempre stata e ci sarai sempre. Ti conquisterò ogni giorno affinché tu mi scelga ogni giorno. Non ti terrò stretta Amore mio, non temere, ti sentiresti prigioniera, lo so, ma farò in modo che tu decida di rimandare questa partenza perché sarà ciò che vorrai. Capirai che tutto ciò che desideri è qui, che le persone che ti amano sono qui e che la tua vita, tra le mie braccia, sarà un lungo viaggio attraverso le gioie dell’amore. Insieme saremo invincibili.
La ripongo nello zaino, pago e mi siedo a un tavolino nell’angolo. Non avrei dovuto portarla con me, ogni volta che la rileggo una sensazione di malessere mi assale e ricomincio a cadere nel dubbio. Insieme saremo invincibili. Avrò sbagliato? Forse avrei potuto pensarci meglio, rimandare di qualche mese o partire con lui. Se glielo avessi chiesto sarebbe venuto, compatibilmente con il lavoro. Appunto, tutta la sua vita è “compatibilmente con il lavoro”. Non sarebbe mai partito per un viaggio all’avventura, senza regole, senza piani, senza aver organizzato nulla. Mai. Saremmo scesi all’ennesimo compromesso e avremmo fatto una vacanza di un paio di settimane al mare, possibilmente in un posto dove ci sia un’ottima connessione Internet e free-drinks. Basta compromessi.
Insieme saremo invincibili. Questa frase riecheggia nella mia mente. Probabilmente anche io non mi sono lasciata andare del tutto in amore perché il mio cuore è ancora in attesa di Lui, ma di un altro Lui. Ho troncato ogni tipo di contatto dopo averla ricevuta. Nonostante fosse bellissima non era ciò che volevo. Non era ciò di cui avevo bisogno in quel momento e lui non l’ha capito. Ha cercato di trattenermi quando avevo bisogno di essere sostenuta e incoraggiata, anche se ciò avrebbe significato lasciarmi andare. Quell’amore incondizionato di cui tanto ho sentito parlare, ma che stento a credere esista. Amare al punto da lasciare andare la persona amata affinché sia felice, seppur altrove, seppur con qualcun altro. Facile a dirsi, ma quando c’è di mezzo il cuore diventa tutto complicato. Non lo biasimo, lo capisco e forse avrei fatto la stessa cosa, avrei cercato di trattenerlo per paura che non tornasse più, che incontrasse un’altra, ma lo avrei fatto per soddisfare il mio ego, per essere felice io, credendo che così lo sarebbe stato anche lui. La verità è che non apparteniamo a nessuno, così come nessuno ci appartiene, ma non lo vogliamo accettare.
La hostess chiama per l’imbarco, è ora. Mi alzo un po’ incerta su quello che sto facendo, perché lo sto facendo davvero! Una volta su quell’aereo non si torna indietro, fosse anche solo per lo smacco morale di rientrare per aver avuto paura. Mostro il ticket, il passaporto e lascio la hostess alle mie spalle camminando terrorizzata verso il tunnel.

CAPITOLO 2

Il mio primo viaggio a lungo raggio. 12 ore di volo con scalo a Zurigo. Avrei voluto una compagnia aerea migliore, ma i costi erano troppo elevati per me. D’altronde ho prenotato poco più di un mese fa.
Mi siedo dal lato finestrino, allaccio subito la cintura e metto gli auricolari, più per isolarmi che per ascoltare la musica. Ancora non ci credo, lo sta facendo davvero. Un’ansia profonda mi assale e gli occhi lacrimano per l’emozione. La signora accanto lo nota.
«Paura di volare?» Il suono della sua voce è attutito dagli auricolari. La guardo e non riesco più a trattenere il tumulto di emozioni che si riversano come il getto d’acqua di una cascata che si lancia nel vuoto. Inizio a parlare, parlo senza mai fermarmi, senza domandarmi se mi capisca, senza chiedermi se mi stia realmente ascoltando. Ho bisogno di dirlo a qualcuno, non per condividerlo ma per realizzarlo. Mentre le parlo, senza maschere e senza veli, mi rendo conto che tutte le paure che avevo si vanno affievolendo, si fanno sempre più piccole. Una sensazione meravigliosa. Mi sento più forte, più sicura e pian piano mi calmo. Il primo passo è quello che conta.
Svuotatami da tutto ciò che ho dentro Angela, così scopro chiamarsi, mi guarda sorridendo.
«Per essere felici ci vuole coraggio e tu ne hai da vendere.»
Mi sento tutto fuorché coraggiosa. Ci vuole coraggio o incoscienza a licenziarsi in tronco e partire? Probabilmente entrambe, ma nonostante il senso di angoscia che mi attanaglia, se penso al mio futuro in questo momento, pieno di punti interrogativi e pochissime certezze, sento di aver fatto la scelta giusta. Voglio provarci, voglio vedere se sono in grado di farlo e fin dove posso arrivare con le mie sole forze. Voglio ripartire daccapo e costruirmi il futuro che ho sempre desiderato, ma che non ho mai avuto l’ardire di raggiungere. Se non ci riesco pazienza, almeno ho tentato. Ho passato anni a lamentarmi di ciò che non andava nella mia vita e non ho fatto nulla per cercare di cambiarla. Era molto più semplice credere di non poterlo fare per colpa di qualcosa o di qualcuno, che non mettersi in gioco e provarci; quello costa fatica, occorre impegnarsi, ed ecco che subentrano tutti i timori che ci dissuadono, ci frenano. La preoccupazione di cosa accadrà, di come si vivrà, di cosa si farà dopo e così via all’infinito, finché a furia di dover pensare al futuro non mi godevo il presente, rimandando a domani una decisione che avrei preso il giorno successivo ancora. Ma questa volta è diverso, questa volta posso perché lo voglio. È una decisione improvvisa, ma non avventata perché maturata in anni di non scelte, di scuse. Ho deciso di mettermi in gioco perché ho capito di poterlo fare e la sola persona che mi impediva di agire ero io stessa. Una volta fatto il primo passo è venuto tutto di conseguenza.
Ed eccomi qui. Mi metto gli auricolari e mi lascio avvolgere dalla musica.
***
Il volo sta procedendo senza scossoni, passo da stati di sonno a quelli di veglia solo per mangiare o andare in bagno, e quando sono sveglia il più delle volte piango. La fase euforica dopo lo sfogo con Angela è passata. Non mi sono mai allontanata da casa per più di tre settimane e il pensiero di non rivedere nessuno per mesi mi spaventa. Da sola. Piango in silenzio, voglio tenere per me questo momento. Piango per la famiglia, gli amici, i dubbi, i rimorsi. Per i se, i ma, i forse, i vorrei. Piango per me. Non piango così dacché ero piccola, le lacrime scorrono a fiumi e non sembra vogliano smettere. Non riesco a fermarmi, ma più lacrime escono più mi sento leggera finché, a poco a poco, cominciano a scemare e smettono di sgorgare. Mi riaddormento sfinita.
Qualcuno mi tocca la spalla, dapprincipio non capisco se sia un sogno o la realtà, poi apro gli occhi e vedo Angela. Da come mi guarda devo avere l’aspetto di un mostro.
«Tra poco atterreremo, vuoi darti una rinfrescata prima?» dice, confermando il mio pensiero.
Non credevo che avrei dormito tanto, meglio così, sarebbe stato un volo infinito altrimenti. Vado in bagno, sistemo il sistemabile e torno a sedere. Ci siamo. Slaccio la cintura e comincio a raccogliere tutto ciò che ho sparso un po’ ovunque. Mentre attendo che le manovre di atterraggio terminino mi sento euforica e impaurita al contempo. La mia avventura sta veramente iniziando e da questo momento sarò sola! Ho l’adrenalina che mi scorre nelle vene e la testa piena di domande. Sono davvero a Bangkok? Da sola e senza un’idea di cosa stia cercando? Ho davvero lasciato tutto per un biglietto di sola andata verso l’Isola che non c’è? Mentre la mia mente mi parla come fossi un’estranea passo i controlli, ritiro il bagaglio e mi accingo all’uscita. È tornata l’euforia.
Carico lo zaino in spalla e vado in cerca di un banco di telefonia. Mi hanno consigliato di prendere una prepagata in aeroporto per non rischiare di rimanere senza Internet. Il solo pensiero mi mette ansia, non sono i tempi di mia zia. Compro la SIM, me la attivano subito e mi fanno loro il passaggio dei dati. Viva la tecnologia! Ora mi sento tranquilla e pronta ad affrontare Bangkok. Prendo lo zaino ed esco.

CAPITOLO 3

Per un attimo credo di morire. Il caldo mi abbraccia come in una sauna. In pochi secondi appiccico ovunque, lo zaino sembra pesare tre volte tanto e il caos all’esterno mi dà il colpo di grazia. Faccio dietro-front, rientro in aeroporto, mi tolgo lo zaino, respiro e decido che prima di qualunque altra cosa mi occorre una birra ghiacciata.
Mi fa strano ordinare una birra seduta da sola al bancone di un bar, ma essere in un aeroporto mi conforta. Ordino una Leo, mi piace il nome, ma la portano in bottiglia. Avrei preferito alla spina.
Ora va meglio, ci riprovo. Esco e la sensazione di soffocamento si ripresenta subito, ma sono pronta. Cerco di raggiungere un taxi, ma il tentativo fallisce miseramente in pochi secondi quando vengo placcata da un ragazzo thailandese che mi dice, in un inglese tutto suo, di potermi portare dove voglio con il suo tuk-tuk.
«Taxi too much, you come» continua a ripetere. Cosa faccio? Mi fido? Perché no? Dopotutto sulla guida dicevano che funziona così da queste parti. Decido di seguirlo e prendo il primo tuk-tuk della mia vita. L’emozione è tanta. Non sono più una bambina, ma mi ci sento. È pur sempre una prima volta.
Mi guardo intorno e non riesco a rendermi conto di essere qui. Un luogo visto solo in televisione o su Internet, dove la vita di ogni singolo individuo si riversa in strada. Decine, centinaia di tuk-tuk, motorini più o meno scassati, taxi e persone. Tutti in strada. Eppure questo mezzo assemblato alla meglio, che resta insieme per qualche inspiegabile legge d’attrazione, sfila per le vie di Bangkok come se non ci fosse un domani.
Continuo a guardarmi intorno mentre il pilota di Formula Uno che sta guidando schiva ostacoli presenti qua e là, sempre con un sorriso stampato in volto. Lo studio, è a piedi nudi con le ciabatte logore buttate di lato; i piedi sono decisamente sporchi e particolarmente larghi. Indossa una canotta e dei pantaloncini anch’essi consumati, ma puliti. In una mano tiene una bevanda di un colore ambrato che non ho idea cosa possa essere, mentre con l’altra guida. Si accorge che lo sto osservando e il suo sorriso si accentua. Colta in fallo distolgo lo sguardo fingendo di dover prendere qualcosa dallo zaino. Cerco di spostarlo per rivolgere l’apertura verso di me e mi rendo conto di quanto sia pesante. Diciotto chili. Non sembravano molti, ma portarlo sulle spalle anche solo per 10 minuti mi ha fatto ricredere. Avrei potuto limitarmi in alcune cose, ma al momento mi sembrava tutto indispensabile! Certo, il phon da viaggio con 40 °C all’ombra e un tasso di umidità dell’80% avrei potuto evitarlo, per esempio, ma ormai è fatta.
Ci fermiamo di fronte a una costruzione piuttosto bassa, all’interno di una via trafficata e piena di negozietti dove dovrebbe trovarsi il mio ostello. Si potrebbe trovare di tutto lì fuorché un ostello, ma il cartello mi smentisce. Vedo solo una galleria in quella direzione, con mille articoli diversi in vendita appesi ovunque, al punto da far fatica a passare, e senza riuscire a vedere l’uscita da quanto è buia. Guardo Atid, il mio pilota di Formula Uno, e mi conferma che l’ostello è dentro la galleria, in fondo. Vacillo. Il caldo che prima non sentivo per lo spostamento d’aria del tuk-tuk si è improvvisamente rivelato e ho la sensazione di sciogliermi come un gelato sotto il sole di luglio. Atid mi guarda: «It’s beautiful, it gets a terrace, big terrace» dice sorridendo, come se avesse letto i miei pensieri.
Non mi convinco del tutto, ma voglio fare una doccia e cambiarmi. Indosso ancora i jeans, ho sempre freddo in aereo, ma in questo istante me li strapperei di dosso se potessi; sono talmente sudata da essere diventati un tutt’uno con le gambe. Prendo lo zaino, saluto Atid e mi avvio facendomi spazio tra la gente che si accalca lungo tutta la lunghezza della galleria in un miscuglio di colori, suoni e odori mai sentiti prima. Forse troppi tutti insieme, sono inebriata e stranita. I commercianti mi guardano, ma non cercano la mia attenzione, mi indicano di andare avanti, sapendo esattamente dove sono diretta.
***
Trovo finalmente l’ingresso dell’ostello. Una porta a vetri bianca attraverso la quale si intravede una ragazza seduta dietro a una scrivania. Entro e mi rendo subito conto della differenza di temperatura. Sono in Paradiso. L’ambiente è pulito e luminoso grazie a specchi e lampade posizionati in modo da riflettere la luce in ogni angolo. In fondo, sulla destra, c’è l’angolo cottura con un grande tavolo e, di fronte, due divani e diversi cuscini poggiati a terra definiscono il living room. Una coppia di ragazzi è sdraiata con i loro cellulari in mano e un terzo è seduto al tavolo davanti al suo laptop. Mi sento sollevata, mai giudicare dalle apparenze! Effettuo il check-in, la ragazza mi spiega velocemente le regole dell’ostello e mi mostra la camera. È una stanza con quattro letti solo per donne con bagno condiviso tra tutti gli ospiti. È la prima volta che condivido la camera con delle sconosciute e l’idea non mi preoccupa. Ciò che invece un po’ mi infastidisce è il bagno condiviso con tutti, ma sono stata sciocca io a non controllare. Due dei quattro letti sono liberi, uno è il mio e l’ultimo è semi sfatto con alcuni libri poggiati sopra e uno zaino messo di lato. La stanza è piccola, i letti sono a castello e non c’è spazio per altro. L’unica e piccola finestra di fronte alla porta affaccia su un cortiletto interno che prende luce da un ampio lucernario posto sul tetto. Vietato fumare, vietato avere animali. Tutto sommato non è male ed è pulita.
La stanchezza si fa sentire. Ho bisogno di una doccia e di mettere qualcosa sotto i denti. Mi guardo allo specchio, sono proprio uno straccio, ma sono qui, ce l’ho fatta. Sorrido, un sorriso incerto. E adesso? Inizio a spogliarmi e un rumore di ciabatte mi riporta al presente, sono nel bagno di un ostello e sta arrivando qualcuno. Vedo un ragazzo di colore avvicinarsi alla porta delle docce. Bello come il sole, avvolto solo per metà in un asciugamano bianco che fa risaltare il colore della sua pelle. Sono in imbarazzo. Non mi era mai capitato di trovarmi mezza nuda in bagno con un perfetto sconosciuto, per giunta bellissimo. Agitatissima dico velocemente: «Hi, how are you?» e mi fiondo in doccia sperando che se ne vada al più presto, ma sento aprirsi la tendina della doccia di fianco alla mia. Cazzo! Cambio strategia e penso di fare il più velocemente possibile per finire prima di lui e rifugiarmi in camera.
«Hei beauty, can I?» Ho il cuore in gola. Batte a tal punto da attutire i suoni che arrivano dall’esterno. Sta parlando con me? Mi sta chiedendo di fare la doccia insieme? Quell’adone color dell’ebano? No, no. Devi stare attenta, non sai nemmeno come si chiama, sei impazzita? Non hai nemmeno la scusa di essere sbronza!
«Can I beauty?» lo sento ripetere, e in quel momento scosta la tendina della doccia e me lo ritrovo di fronte, nudo, bagnato, turgido e bellissimo. Tutti i miei dubbi si sciolgono e in un secondo dimentico i motivi del “non dovrei”.
«You’re welcome» rispondo.
Si avvicina, mi guarda. Guarda ogni singola parte del mio corpo e la sfiora delicatamente con le dita. Mi sento bellissima. Ha mani grandi e delicate. Quando passano sul seno i miei capezzoli si inturgidiscono all’istante. Ho un fremito e lu...

Indice dei contenuti

  1. Tutto d’un fiato
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. INTRODUZIONE
  6. CAPITOLO 1
  7. CAPITOLO 2
  8. CAPITOLO 3
  9. CAPITOLO 4
  10. CAPITOLO 5
  11. CAPITOLO 6
  12. CAPITOLO 7
  13. CAPITOLO 8
  14. CAPITOLO 9
  15. CAPITOLO 10
  16. CAPITOLO 11
  17. CAPITOLO 12
  18. CAPITOLO 13
  19. CAPITOLO 14
  20. CAPITOLO 15
  21. CAPITOLO 16
  22. CAPITOLO 17
  23. CAPITOLO 18