Il diritto di essere contro
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Il diritto di essere contro

Dissenso e resistenza nella società del controllo

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il diritto di essere contro

Dissenso e resistenza nella società del controllo

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«NOI VOGLIAMO IL DIRITTO DI ESSERE CONTRO, DI ESSERE LASCIATI IN PACE, DI POTERCI INFORMARE LIBERAMENTE PER SUFFRAGARE OPPURE SUPERARE LE NOSTRE CONVINZIONI. VOGLIAMO ESERCITARE LA VIRTÙ DEL DUBBIO. VOGLIAMO CHE IL POTERE IMPARI DALLE ESPERIENZE PASSATE ED ESERCITI LA PRECAUZIONE.» Il dibattito pubblico in tempi di emergenza tende spesso a denigrare ogni minoranza critica come irrazionale, stupida e sleale: un meccanismo che nel giro di pochi giorni si è spostato dal green pass alla crisi in Ucraina.
Ugo Mattei, in questi lunghi mesi della pandemia, è stato, insieme ad alcuni intellettuali, movimenti e cittadini comuni, nelle piazze italiane per esprimere il suo dissenso contro il green pass e l'obbligo vaccinale. In questa lunga riflessione ripercorre le tappe fondamentali di una "frattura" e di uno "scontro" e con uno stile chiaro, erudito e polemico denuncia le derive autoritarie della nostra democrazia, dei nostri governi e più in generale, del capitalismo della sorveglianza e i pericoli inavvertiti dai più della dittatura della maggioranza. Dall'applicazione del green pass fino all'informazione sulla guerra in Ucraina "il diritto di essere contro", è sotto attacco. Chi dissente, oggi, inceppa l'armonico funzionamento dell'ingranaggio sociale ed è dunque equiparabile a un sabotatore contro il quale ogni repressione o rieducazione è possibile.
Questo libro, secondo Mattei, è un ultimo tentativo di riaprire un dialogo con tante persone che sono state con lui per anni nei movimenti, nelle battaglie pacifiste, in quelle ambientaliste, in quelle per i beni comuni, fino al movimento No Tav. Persone che oggi rifiutano ogni dialogo, e che denigrano e bollano con epiteti infamanti, dal fascismo al No Vax, chi è contro la "società del controllo". Il diritto di essere contro è un libro scomodo, arrabbiato, politicamente scorretto, che si candida a diventare il manifesto di una nuova resistenza.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788858528747
Categoria
Sociologia
1

Geopolitica dell’essere contro

1. Scienza, scientismo, regime di conoscenza neoliberale

È troppo presto, a due anni dall’inizio di un’emergenza pandemica mondiale senza precedenti nella storia, per riuscire a mantenere un distacco scientifico nella descrizione di eventi che, ponendosi a un livello genuinamente “biopolitico”, ci coinvolgono intimamente. Ho deciso dunque di non fingere oggettività e di utilizzare una strategia narrativa in prima persona. Sto scrivendo questo libro perché sono “contro” (green pass, obbligo vaccinale, gestione UE della crisi Ucraina ed espansione NATO, logica dell’emergenza protratta), e vorrei che il mio esserlo fosse un diritto (soggettivo) garantito dal diritto (oggettivo).
Partecipo ormai da molti anni alla vita politica del nostro paese e sebbene le mie posizioni non siano mai riuscite ad assurgere a una conversazione mediatica mainstream, ho maturato sufficiente esperienza di lotte sociali, anche di rilevanza internazionale, da essermi familiarizzato in prima persona con le strategie adottate dal potere in mancanza di tale diritto. Posso dire che, come insegnava Barrington Moore, ho sempre cercato di riflettere sui processi sociali mettendomi nelle scarpe dei perdenti e non dei vincitori. Non voglio partecipare alla costruzione di retorica dominante. Credo nel pensiero critico come bene comune capace di contribuire davvero alla produzione di intelligenza collettiva al servizio del miglioramento delle condizioni di tutti. Mi sono convinto che il narcisismo sociale sia tanto deleterio quanto quello personale. Cosa intendo? Che anche una organizzazione sociale, e non solo una persona, può cadere nell’innamoramento di sé, perdendo di conseguenza ogni spirito critico rispetto alle proprie vicende personali1. Dopo la caduta del socialismo realizzato, il capitalismo atlantista, vincitore della Guerra Fredda, ha trascorso un decennio intero ad autocelebrarsi come fine della storia, senza dialogare con nessuno, proprio come il narcisista allontana con fastidio l’amico o l’amica che prova a ricondurlo a ragione, preferendo attorniarsi di adulatori.
Tale deriva sociale narcisistica ha evidenziato alcuni tratti dell’autopercezione valoriale (la democrazia, la legalità, il liberalismo dei diritti umani, la libertà, la parità fra generi, il primato scientifico e tecnologico), facendoli assurgere a veri tabù fino al punto da impedire ogni agibilità politica e culturale non soltanto a chi ne fosse contro, ma anche a chi fosse sospettato di esserlo.
Accompagnato da un adulante coro di scienziati sociali e altri intellettuali fatti assurgere a vere e proprie star degli apparati culturali internazionali, il capitalismo atlantista ha cavalcato la vittoria nella Guerra Fredda autoproclamando il proprio costituzionalismo liberale “fine della storia”2. In tal modo si tentò di persuadere le popolazioni occidentali a dormire sonni tranquilli, protette da istituzioni democratiche cui semplicemente rinnovare la fiducia ogni tanto attraverso le elezioni. Per quelle del Sud globale si trattava semplicemente di comportarsi da buoni allievi, imitando il modello, e attendere che finalmente, dopo la parentesi del Secolo breve, l’onere wilsoniano dell’uomo bianco potesse portar loro la sua benedizione. Perché ciò accadesse era sufficiente non mettersi in testa di fare da sé, seguendo modelli politici e culturali perdenti o dissonanti.
Alla fine della storia, l’asse atlantista sapeva dare il buon esempio. Non c’era più spazio per alternative politiche divisive. I protagonisti della vittoria erano chiarissimi nell’iconografia atlantista: Margaret Thatcher, Ronald Reagan e Karol Wojtyla. I metodi duri e risoluti che la destra aveva saputo imporre nella fase critica per spezzare le reni ai minatori nel Regno Unito e ai controllori di volo negli Stati Uniti erano ormai da tutti riconosciuti come necessari.
L’azzeramento di ogni contrapposizione ideologica fu simboleggiato dai volti sorridenti di Tony Blair e Bill Clinton che ben volentieri interpretarono, nei fatti costituzionalizzandoli, i due messaggi fondamentali di Lady Thatcher: «TINA: there is no alternative!», e «Non esiste la società, esistono solo individui e famiglie». La costruzione ideologica di quello che divenne poi noto come neoliberismo, le cui radici originavano alla Mont Pelerin Society nel secondo dopoguerra, divampò come un incendio nella semiperiferia europea, nell’ambito della quale l’Italia, dopo la triste fine dei discoli Moro e Craxi (rei di perseguire, come prima di loro Mattei, una politica estera non completamente allineata), sapeva confermarsi la migliore fra i buoni allievi.
Quello che fu il più importante Partito comunista occidentale, capace di superare solo qualche anno prima con Enrico Berlinguer un terzo dell’elettorato – quando ancora l’astensionismo era un fenomeno marginale –, si sciolse come neve al sole rinunciando per sempre alla propria carica ideologica. In pochi anni si trasformò sotto la guida di leader pentiti, certamente cinici e probabilmente corrotti, in una scialba riproduzione dei dem statunitensi attraverso la realizzazione postuma, ma su ben diverso substrato geopolitico, del compromesso storico costato la vita ad Aldo Moro.
La valenza costituzionale, che con il padre costituente Costantino Mortati potremmo chiamare “materiale”, di questa trasformazione fu largamente riconosciuta dai commentatori italiani che a partire dalle elezioni politiche del 1992, successive ai referendum elettorali, iniziarono a parlare di Seconda Repubblica. L’Italia non fu sola in questo cammino. Anche in Germania l’opposizione socialdemocratica a Helmut Kohl, il protagonista dell’atto simbolico più importante di questa vicenda, la demolizione del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, riconobbe il TINA e si allineò al pensiero unico. L’ultimo socialista ideologico, Oskar Lafontaine, venne sconfitto dal blair-clintoniano Schroeder. In Francia l’evoluzione fu più graduale e meno drammatica che in Italia, perché già messa in cantiere da Mitterrand nella seconda parte del suo mandato, mentre in Svezia l’ultimo leader socialdemocratico portatore di una visione alternativa realizzabile, Olof Palme, veniva assassinato aprendo le porte al neoliberismo3.
Tornando al nostro paese, vale la pena di registrarne il completo e mai più discusso ritorno all’ovile atlantista, dopo i fatti di Sigonella. Il lettore ricorderà che in quell’occasione i carabinieri, inviati da Craxi, circondarono l’aereo in cui viaggiava il dirottatore palestinese Abu Abbas, reo dell’omicidio di un anziano e invalido passeggero ebreo statunitense. Si trattava di assicurarlo, secondo le norme del diritto internazionale, alla giustizia italiana impedendo fisicamente che i militari americani lo prelevassero per consegnarlo a quella statunitense, che quasi certamente lo avrebbe condannato a morte.
In questa luce si può vedere come la vera novità della Seconda Repubblica sia stato l’abbandono di ogni velleità sovrana da parte del nostro paese, testimoniata da alcuni episodi simbolici che non possono essere dimenticati. In particolare per la prima volta un ex comunista, sebbene da sempre in odore di atlantismo, Giorgio Napolitano, divenne ministro degli Interni, poltrona chiave da sempre riservata alla Democrazia Cristiana. Poco dopo, un altro ex comunista, Massimo D’Alema, diveniva addirittura presidente del Consiglio e come prova di fedeltà atlantista partecipava al primo bombardamento di una capitale europea, Belgrado, a opera della NATO, non autorizzata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questa aggressione “umanitaria”, ossia priva della violazione di un confine, tradizionale giustificazione di diritto internazionale (ancora rispettata formalmente nella prima Guerra del Golfo e tornata oggi in auge per condannare la Russia), fu controfirmata da un altro uomo politico fedelissimo dell’atlantismo destinato, come prima di lui Napolitano, al Quirinale: l’allora ministro della Difesa, Sergio Mattarella.
Ma non è solo la NATO con le sue, presumibilmente dieci, basi nucleari nel nostro paese, e con il suo significativo prelievo di risorse pubbliche italiane a favore del complesso militare-industriale statunitense (74 milioni di euro al giorno, ora aumentati a oltre 100 per l’“emergenza” Ucraina), a fondare la costituzione materiale della Seconda Repubblica. Il decennio del narcisismo atlantista si era aperto con la firma del Trattato di Maastricht (1992), la nuova e fiammante costituzione neoliberale europea. Prima di allora, e fino alla firma del cosiddetto “Atto unico europeo” sul finire della Guerra Fredda (1986), le istituzioni europee avevano mantenuto un profilo relativamente basso e il processo di integrazione era stato più giuridico che politico, sebbene il fascino europeista declinato nel Manifesto di Ventotene avesse generato il Parlamento Europeo con le sue prime elezioni dirette nel 1979.
Maastricht segnò un cambio di passo e tracciò un itinerario verso il cosiddetto eurosistema, ossia la moneta unica4. Il disegno atlantista volto a mettere sotto controllo la Germania per evitare il ripetersi delle conseguenze di Versailles poteva finalmente saldarsi con un ripensamento della NATO, privata della sua originaria giustificazione dal crollo del blocco sovietico. A Bruxelles si erano costruite le condizioni ideali perché la fine della storia garantisse all’asse atlantico egemonia in tutto il continente europeo con una Germania unificata ma perfettamente ingabbiata in meccanismi istituzionali di cui essa stessa si sentiva protagonista. La costruzione dell’eurosistema è stato un capolavoro storico con cui il neoliberismo si è istituzionalizzato con la separazione fra sovranità monetaria e sovranità politica a favore della prima. La sovranità politica lasciata nominalmente in capo agli stati membri (o meglio ad alcuni di essi) e quella monetaria trasferita alla Banca centrale di Francoforte, dove il sistema finanziario internazionale può esercitare la sua presa sugli stati membri tramite una “governance” che lo garantisce appieno5.
Questo complesso processo politico, capace di marginalizzare progressivamente ogni autentica pretesa democratica, doveva necessariamente svolgersi senza eccessivo disturbo da parte del pensiero critico in una assordante cacofonia autocelebrativa. È difficile non vedere quanto l’Italia ne sia uscita indebolita e sconfitta. Da quinta, secondo alcuni addirittura quarta, potenza economica del mondo alla vigilia di Maastricht, l’Italia è entrata in una spirale di declino senza fine perdendo capacità produttiva industriale e vieppiù credibilità internazionale a causa di una classe dirigente sempre meno prestigiosa e sempre più prona rispetto alle pretese del capitale internazionale e dei suoi imperativi di riproduzione. Il pensiero unico della fine della storia in Italia ha prodotto una narrazione autoflagellante e diffamatoria rispetto a tutto quanto fosse Prima Repubblica, palesemente “buttando il bambino con l’acqua sporca”. E così gli italiani hanno scoperto che dal boom economico in avanti, avevano vissuto al di sopra delle proprie possibilità; che si erano permessi, nel corso degli anni Settanta, passi avanti di welfare del tutto insostenibili, quasi estorti con la violenza proletaria finché la saggia marcia dei 40.000 nel 1980 non aveva riportato un minimo di ordine nelle relazioni industriali. Gli italiani sono stati fomentati, nel loro atavico razzismo, attraverso la descrizione della cassa per il Mezzogiorno come un buco nero di sprechi, e attraverso la sistematica denigrazione del modello di economia mista industriale che Beneduce e Menichella avevano istituzionalizzato nell’IRI. Il capitalismo italiano doveva essere necessariamente privato, europeista e confermato nel suo atlantismo ora divenuto neoliberale. La concorrenza, tradotta in competizione, doveva sovvertire la solidarietà nella scala dei valori nazionali se l’Italia voleva essere pronta alle “sfide” della globalizzazione.
Lo stato doveva ritirarsi dall’economia per non ostacolare il virtuoso processo di crescita che doveva potersi svolgere senza l’intralcio di “lacci e lacciuoli”. Il sindacato doveva confermarsi “responsabile” e privilegiare la concertazione rispetto al conflitto e allo sciopero. Quello che fino a qualche anno prima era il pensiero della destra più intransigente, di Guido Carli e della Confindustria, diveniva così il pensiero unico portato avanti dai primi protagonisti della nuova era, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e naturalmente, ancorché in modo più pittoresco e meno serioso, Silvio Berlusconi.
Questa variegata combriccola di sedicenti statisti, affiancata e forse già in qualche modo commissariata da un gruppetto di economisti in forza alle grandi banche d’affari dell’asse atlantico – fra i quali spiccavano Mario Draghi e Mario Monti –, ha potuto beneficiare della tacitazione di ogni pensiero critico tacciato di ideologismo, per metter mano a quel progetto di progressivo smantellamento del pubblico che costituisce l’essenza del pensiero unico neoliberale. L’Italia è diventata così terreno di sperimentazione di una delle più impressionanti e concentrate privatizzazioni della storia umana, seconda solo a quella messa in piedi da Eltsin e Gaidar nell’ex Unione Sovietica, ma perfino più significativa di quella che ha caratterizzato l’era Thatcher6.
Con evidenti variazioni da paese a paese, ma inaugurando un unico spartito, quello del pensiero unico, alla fine della storia si sono così create le basi materiali di quello “spettacolo integrato” che la lungimiranza di uno dei più importanti pensatori “contro” del ventesimo secolo, Guy Debord, aveva descritto come il sistema di potere globale del dopo Guerra Fredda, nei suoi Commentari sulla società dello spettacolo7.
Era quello il periodo storico in cui, conseguita la cattedra universitaria nel 1990, cominciai a orientare i miei studi giuridico-economici in una direzione più politicamente impegnata, per vedere che cosa si nascondesse dietro il luccichio neoliberale che mi aveva affascinato a Yale e a Berkeley. In quel decennio e per la gran parte di quello successivo, era vietato essere contro le privatizzazioni, proprio come oggi è vietato essere contro l’obbligo vaccinale o il green pass o l’acquisto di armi per l’Ucraina. La nuova scienza dominante, quella microeconomia neoclassica che veniva insegnata con metodo dogmatico nelle migliori università del mondo, non ammetteva critiche.
La gestione privata, salvo casi eccezionalissimi, andava considerata più efficiente di quella pubblica. Il pubblico era un carrozzone burocratico e spesso parassitario, l’esito della cui ipertrofia non poteva che essere una brutta fine, come quella fatta dall’Unione Sovietica e dal blocco di Varsavia. I critici delle privatizzazioni in quella fase, indipendentemente dai dati disponibili e dal merito delle loro critiche (disastri delle ferrovie inglesi, impatto catastrofico dello smantellamento della sanità pubblica in Italia, catastrofi sociali in Cile, Bolivia e Argentina dovute al cosiddetto “el modelo”), non venivano invitati ai convegni e alle tavole rotonde, erano tacciati di essere comunisti nostalgici, non potevano pubblicare i loro studi sulle più prestigiose riviste attraverso le quali il pensiero unico neoliberale, profumatamente finanziato da fondazioni e think tank conservatori fin dagli anni Settanta, era riuscito a egemonizzare l’accademia. I premi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. 1. Geopolitica dell’essere contro
  6. 2. Essere contro. Motore del costituzionalismo liberale
  7. 3. Essere contro nella legalità costituzionale
  8. 4. Dignità e uguaglianza. Principi transnazionali inderogabili
  9. 5. Trasformazione tecnologica, sorveglianza, spettacolo
  10. 6. Economia politica del tramonto costituzionale
  11. Conclusioni. J’accuse!
  12. Copyright