Tre monologhi
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Tre monologhi

  1. 88 pagine
  2. Italian
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Tre monologhi

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Informazioni sul libro

Quella di Valentina Diana è una voce sempre piú sicura nel panorama del teatro italiano. I suoi monologhi divaganti e apparentemente scombinati mettono in crisi luoghi comuni e abituali meccanismi del pensiero. Il mix tra comico e drammatico è alla base della sua scrittura, ma i toni e le sfumature sono variegati e di continuo cangianti: scene realistiche sfumano nel paradossale, un impianto satirico-fantascientifico può dar vita a delicati intermezzi poetici, un angoscioso nodo etico-politico può riverberarsi in un inizialmente innocuo quadretto di vita metropolitana.
Ognuno dei tre testi ha le sue caratteristiche, ma tutti e tre vivono di continui sussulti. Gli spettatori di questi spettacoli ridono alle battute spesso davvero brillanti, e speriamo che i lettori facciano altrettanto, ma non potranno sentirsi tranquillizzati dall'ironia perché la violenza e il dolore sono sempre dietro l'angolo.
UNA PASSIONE
L'ETERNITÀ DOLCISSIMA DI RENATO CANE
LA NIPOTE DI MUBARAK

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439630

L’eternità dolcissima di Renato Cane

Debutto: Roma, Teatro Brancaccio, 26 ottobre 2017
Produzione: KHORAteatro
Regia: Vinicio Marchioni
Interprete: Marco Vergani
RENATO CANE (seduto come a un meeting di formazione per venditori)
Premessa.
Mi chiamo Renato Cane e sto per morire.
Io sono da quarantacinque anni una persona normale. Ho una moglie, Laura, un figlio di nove anni che si chiama Mario, e un lavoro, che non mi piace. Il lavoro è per vivere e per mantenere tutto ciò che ho e che non mi va di perdere.
Dato che quello che ho me lo sono guadagnato lavorando, sempre lavorando me lo devo difendere. Per non perderlo. Anche se non mi piace. Tutto questo lo faccio per essere me e non essere un altro. Un altro me che magari non ha quello che ho io o che magari ha delle altre cose che non sono come le mie. O che magari non ha nulla. O non è nessuno. Io, nella vita, diciamo che mi è sempre andato tutto bene; e infatti non a caso mi sono realizzato con una moglie che si chiama Laura, un figlio che si chiama Mario, come ho già detto, e un lavoro. Che, come ho detto, non mi piace. Come lavoro faccio il rappresentante venditore per la Bretafarm, un’azienda dal grande fatturato con sede centrale a Pescara. Questo lavoro (che non mi piace) l’ho avuto grazie a un’amicizia, un amico che adesso non ho piú. A suo tempo quest’amicizia mi ha dato qualche vantaggio, tra i quali questo lavoro alla Bretafarm. Se non avessi avuto quest’amicizia grazie alla quale sono entrato alla Bretafarm, questo amico che non ho piú, io non so cosa avrei fatto. Perché non mi sono mai chiesto, prima, «Cosa voglio davvero?»; perché non mi sono mai chiesto, prima, se volevo davvero o non volevo davvero qualcosa o se mi andava bene anche cosí, di lavorare alla Bretafarm e basta, dato che comunque era un lavoro ed era comunque, si può dire, un lavoro pagato. Si può dire.
In pratica, come lavoro, si può dire che è un lavoro situato nello psicofarmaco. Si può dire che aiuti la gente a portare avanti la vita con dignità. Che magari questa vita non è proprio come te l’eri immaginata o sognata all’inizio, quando ancora non l’avevi vissuta, e diciamo che poi viene un momento che ci pensi su e ci pensi su e poi ti dici: «Non è come me l’ero immaginata o sognata, neanche un po’, ’sta vita, cazzo». E succede che potresti diventare triste o persino scivolare nella disperazione. Il problema è che, per il tipo di esistenza che conduciamo tutti, non ci si può abbandonare alla tristezza o alla disperazione, perché se ti abbandoni non produci e, se non produci, non esisti. Vedi bene che la cosa non è conveniente ma non sai come uscirne: sei disperato ma non puoi disperarti. Sei triste ma non puoi intristirti. Che fare? La soluzione c’è, e te la diamo noi: lo psicotropo.
FINCHÉ C’È VITA, C’È BUIO DELLA MENTE.
E LA BRETA, COL BUIO, CI VA A GONFIE VELE.
Cosa facciamo noi della Bretafarm? La Breta sintetizza sostanze e le mette in scatola, poi io e i miei colleghi le consigliamo ai medici, insieme a qualche crociera e ad alcune bottiglie di vino d’annata per le loro famiglie; e i medici le consigliano e le prescrivono a tutti quelli che si sentono giú o non dormono o hanno problemi di buio di qualsiasi genere.
Adesso c’è anche un farmaco, che in gergo tra noi alla Breta lo chiamiamo La Benedizione, perché è un farmaco che si vende da solo, non ha neanche bisogno di essere spinto con le crociere. È un farmaco che si usa quando un paziente ha dei bambini molto vivaci e si pente, e pensa: «Ma chi me li ha fatti fare questi figli vivaci?» I figli però ormai ci sono e sono vivaci. E allora, diciamo noi: «Questi sventurati con i figli vivaci come ne escono?» Ed ecco che noi, con questo farmaco, detto appunto La Benedizione, forniamo loro queste pilloline colorate e aromatizzate che, in pratica, i bambini è come se, dopo averle ingerite, non ci fossero piú. E non è poco, di questi tempi, che uno non ha troppo tempo da dedicare alle cose che non lo portano in là negli anni con serenità e rispetto. Queste pilloline io le ho provate personalmente, come faccio sempre per conoscere il prodotto. Le ho provate su di me e sono stato mansueto per molti giorni.
Ma non disperdiamoci: ogni due settimane prendo il treno per andare alla Breta Centrale, a Pescara, per l’aggiornamento prodotti. Questo treno che prendo, tra tutte le cose del mio lavoro è quella che mi piace di piú, perché si sentono le voci. A me piace sentire le voci; fin da piccolo, mi è sempre piaciuto. Come è facile immaginare, essendo nel campo del farmaco, io i medici li frequento per lavoro. Con loro siamo proprio in confidenza, ci facciamo gli scherzi, ridacchiamo come amici, non si sente la differenza che loro sono laureati e io no. Tranne quando mi visitano.
La scorsa settimana sono andato dal mio medico di base. Era un appuntamento di lavoro, ma siccome da qualche tempo mi sentivo due palline qui, all’altezza dell’inguine che non mi tornavano e mi facevano anche un po’ male, mi sono fatto dare un’occhiatina.
Il mio dottore mi ha ringraziato per il vino d’annata e per il viaggio gratis a Sharm per tre persone, all inclusive, e poi ha detto che magari facevamo qualche esame per le palline, che quasi di certo non era niente di grave, ma poteva anche essere che si sbagliasse e di tornare tra una settimana.
Ci conosciamo da tanti anni con quel dottore, mi fido.
Prima ho detto la parola «premessa». Ho detto premessa perché questa è una di quelle storie che per capirle è necessario fare un passo indietro. Sono partito dal passo indietro per spiegarmi meglio.
Dunque: cosa si fa quando si deve far conoscere a qualcuno un prodotto che ancora non conosce, per farglielo conoscere e fargliene sentire l’esigenza?
Una premessa.
Se un prodotto non sai cos’è, non puoi sentirne l’esigenza e senza l’esigenza, non c’è acquisto.
È semplice l’arte, sta tutta qui.
Fine della premessa.
Giovedí 14 febbraio.
Il mio medico mi telefona e mi dice: «Vieni subito». Mi spiega che le palline che sentivo sono dei linfonodi, che in pratica sono dei fusibili che partono prima loro per avvisarti che il prossimo sei tu. Siccome non ne capisco molto di fusibili gli chiedo se può per favore spiegarmi meglio con un altro esempio. Diciamo – dice lui – che sono come dei campanelli, questi campanelli quando suonano segnalano la presenza di un tumore, quindi quando i campanelli suonano significa che il tumore c’è. Il punto è solo trovarlo. Con l’esempio dei campanelli mi è risultato subito tutto molto piú chiaro. Mi dice anche che da vivere avrò se va bene tre o quattro mesi, a dir tanto, e di metterci, come si dice, una pietra sopra. Il mio dottore è di quella scuola britannica che le cose ai pazienti le dice chiare.
Sono uscito e non mi sentivo per niente allegro, allora ho visto un supermercato e subito sono entrato in quel supermercato per comprarmi qualcosa: per distendermi, per consolarmi e per sentirmi meno solo; ho comprato un quaderno e un pennarello da quattro euro e ho pensato, su questo quaderno, di scriverci un diario. Un diario per scriverci quello che mi viene, senza pensare, cosí, scriverci quello che mi viene di getto.
E cosí scrivo: «Giovedí 14 febbraio».
E una riga sotto scrivo: «Merda. Non ci pensavo proprio».
A Laura e Mario non ho ancora detto niente, ho avuto paura che potessero prenderla male.
Sull’enciclopedia medica c’è scritto: «Nel 99 per cento dei casi la famiglia di un malato non è di aiuto perché si prende male (vedi appalla), e non sa piú essere di nessun aiuto». È a causa delle cose che capitano quando meno te le aspetti e non ci puoi fare niente. La maggior parte delle famiglie si fonda sul fatto che a tutto c’è rimedio. Qualunque cosa succeda in famiglia, anche le cose piú disgraziate, come un allagamento o il televisore che si spacca o la connessione internet che si stacca, si sa, c’è sempre rimedio. Magari costa un po’ e bisogna fare dei sacrifici extra, ma prima o dopo tutto torna a posto e anche la famiglia torna come prima, felice e a posto come prima. Quando invece succede qualcosa che uno non si aspetta, senza rimedio, per esempio se qualcuno si ammala o muore, che non si può comprare qualcosa con dei sacrifici per farlo tornare a posto, ecco che la famiglia «si appalla» e talvolta si può anche sgretolare.
L’ultima cosa utile, per uno nella mia condizione, è che la famiglia si sgretoli o si appalli proprio adesso. Cosa te la fai a fare una famiglia, se questa ti si sgretola nel momento del bisogno? Cosa li fai a fare i sacrifici di lavorare di farti la macchina la casa e la famiglia, se questa poi ti si sgretola? Intanto vado alla stazione a prendere il treno per Pescara, per comunicare di persona al direttore che mi licenzio dalla Breta.
Salgo sul treno, mi siedo e mi appunto sul diario alcune cose che mi piace fare, per tirarmi su il morale e per non arrendermi. Scrivo: «Non arrenderti!» Cosa vorrò mai dire con questo «non arrenderti»? Me lo interpreto cosí: scrivermi delle cose che mi piace fare, e farle finché mi sarà possibile. Tra quelle che invece non mi piace fare, va da sé, tendere il piú possibile a non farle piú.
Cose che mi piace fare: prendere il treno e sentire le voci.
Cose che non mi piace fare: lavorare in generale. Lavorare alla Breta in particolare.
Sono in seconda, come al solito. Scompartimento a sei posti, restaurato, il tipo che preferisco. Le voci arrivano subito; voce di bambina seduta nel mio scompartimento, che sussurra:
Tieni, è per te.
In questo caso la voce era diretta a me e lei mi stava anche porgendo qualcosa.
È una pittura schiacciata. Non metterci le dita sopra perché è ancora bagnata. E dammi due euro.
Una pittura schiacciata? – Chiedo.
Infatti, – dice, – sono una fabbricante di pitture schiacciate che costa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. TRE MONOLOGHI
  4. Una passione
  5. L’eternità dolcissima di Renato Cane
  6. La nipote di Mubarak
  7. Il libro
  8. L’autrice
  9. Copyright