1.
Sul Tevere, alle origini
del cammino di Roma
mappa interattiva
Tutto è iniziato qui. Nei luoghi dei fatti e degli incontri generativi della città, dov’era il guado del Tevere. Muoviamo i primi passi in via di ponte Rotto, attorno a un singolare edificio all’angolo, la Casa dei Crescenzi, che ci aiuta subito a capire alcune cose. Venuti a Roma dalla Sabina nel X secolo, i Crescenzi ebbero molto potere, con papa Giovanni XIII, e guidarono le lotte che portarono all’assassinio di un paio di papi in quegli anni turbolenti. Un potere che si ridimensionò, pur mantenendo la famiglia una presenza significativa nella città fino all’estinzione del casato a metà Settecento. Chi passa, non coglie facilmente se si tratti di un edificio dell’antica Roma o del Medioevo, o se sia un misto di epoche diverse.
La Casa dei Crescenzi fu costruita nell’XI-XII secolo e ci introduce, attraverso il riutilizzo dei materiali architettonici lungo tutta la storia della città, al tema decisivo delle stratificazioni romane. Contiene pezzi marmorei, trabeazioni, cornici di edicola, lacunari, mensole con amorini, mattoni antichi a formare cornici «a denti di sega». Se riusciste ad entrare, scoprireste la ricchezza delle coperture (con doppie volte a crociera). Il Piranesi le dedicò un’incisione («fabbricata di spoglie di antichi edifizj») e ne trasse ispirazione per il progetto (1763-1764) della non lontana, splendida chiesa di Santa Maria del Priorato, che sorge sullo spigolo dell’Aventino rivolto al fiume sopra via Marmorata. A proposito della sua deliziosa facciata, Giulio Carlo Argan avrebbe scritto: «sembra fatta con pezzi di architetture bizzarramente ricomposti, arbitrariamente accostati, come cosa della cui antica ragione e funzione si sia perduta memoria». Eccoci a un primo esempio delle reinvenzioni romane: un edificio costruito con elementi vecchi di circa un millennio, che a sua volta ispira una nuova architettura dopo un intervallo di altri 6-700 anni.
Se siete interessati all’enigmistica, provate a risolvere il quiz contenuto nell’iscrizione «NIC.D.D.T.D.D.F.S.». È posta sull’estremità destra della cornice che sovrasta la porta d’accesso. Forse, l’annuncio di un passaggio di proprietà (Nicolaus Dedit Domum Totam Davidi Dilecto Filio Suo, ovvero: Niccolò dette l’intera casa al suo diletto figlio Davide). I Crescenzi avevano un’alta opinione della dinastia; nell’iscrizione principale si legge anche: «Nicolao [...] se costruì questa casa non tanto lo indusse la vana gloria quanto il desiderio di rinnovare l’antico decoro di Roma»; «Sorge verso le stelle la casa sublime». Nell’arco ribassato: «Sono presente come grande onore per le genti romane».
L’edificio fu abbandonato, poi usato come stalla, infine riscattato dal governo pontificio e acquisito dal Comune di Roma (ospita oggi il Centro di studi per la storia dell’architettura). Ne mancherebbe un pezzo, la torre che vi sorgeva sopra e che sarebbe stata fatta crollare nel 1312. L’interpretazione è stata smentita da un’analisi strutturale compiuta da Giorgio Ortolani, ma ci serve almeno a richiamare la vera fisionomia del panorama della Roma medievale, dominato dalle torri e dalle fortificazioni che ciascuna famiglia realizzò per propria difesa e come simbolo di potenza: sappiamo che a metà Duecento il senatore Brancaleone degli Andalò, per determinazione ghibellina, dispose che fossero demolite (o «capitozzate», decapitate) ben 140 torri di parte guelfa. I diversi temi di ingresso al nostro itinerario stanno nel toponimo della via, poiché qui si attaccava ponte Rotto, così chiamato perché ridotto a un moncone dall’irruenza del Tevere.
Camminando, dovremo misurarci con qualche sessione di ‘wrestling’ contemporaneo in ciascuno dei nostri itinerari: non voglio responsabilità per indicazioni che portino il lettore a litigare col traffico e le prescrizioni stradali, con lavori in corso o con il cambiamento inatteso delle regole di accesso. Ciascuno farà come crede, con prudenza. Anche questi occasionali conflitti sono parte importante dell’esperienza: aiutano a comprendere materialmente le complessità e le contraddizioni dei diversi interventi e trasformazioni nella storia della città – e magari a immaginare quelli ulteriori, necessari, desiderati. Dalla Casa dei Crescenzi sconsiglio di salire direttamente per attraversare il Lungotevere. Per arrivare a piazza di Monte Savello conviene aggirare il Palazzo comunale dell’anagrafe (1936-1939) lungo via Petroselli. Buttando l’occhio all’Area sacra di Sant’Omobono, dall’altro lato della via, teniamo a mente che gli scavi, realizzati anch’essi negli anni Trenta, hanno fatto emergere resti di insediamenti arcaici risalenti alla media Età del Bronzo, fino al XVI secolo a.C. Ovvero, otto secoli prima della fondazione di Roma. Questo richiama alla nostra attenzione l’esistenza di piccole comunità nel territorio romano ben più di tremila anni fa.
Altrimenti, possiamo salire dal lato opposto, attraversando il Lungotevere dopo aver osservato i due templi di Portuno (di solito chiamato della Fortuna Virile; posto in antico vicino alle prime mura, tra il fiume e la porta chiamata, appunto, Flumentana) e di Ercole Vincitore (generalmente attribuito a Vesta), entrambi realizzati oltre duemilacento anni fa.
Siamo arrivati sul marciapiede del Lungotevere. I platani dovrebbero proteggerci (se potati bene). Sono stati ipotizzati ascensori, nei prossimi anni, per scendere sulle banchine del fiume. Intanto, dobbiamo affrontare i gradini. Sono 66 nella discesa all’angolo di ponte Palatino, mentre sono 58 se scendiamo dalla scala presso Monte Savello. Subito, ci rendiamo conto dei cambiamenti dei luoghi con l’osservazione dei ponti. Il più sorprendente è ponte Rotto. Il più brutto – e utile per il traffico – è il ponte denominato Palatino. Poco più a nord vediamo i due collegamenti delle rive con l’Isola Tiberina: ponte Quattro Capi (già ponte Fabricio) e ponte Cestio, dal lato di Trastevere.
*
Anche le successive denominazioni dei luoghi sono rivelatrici. Quanti nomi ha avuto ponte Rotto, prima del suo triste destino di rovina monumentale? In origine fu chiamato ponte Emilio, il primo eretto in pietra sul Tevere (181-179 a.C.) da Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore, con pilastri che reggevano una passerella lignea; fu ristrutturato interamente in pietra nel 142 a.C. da Publio Scipione Emiliano e Lucio Mummio. Poi prese il nome di ponte Massimo, dopo il restauro voluto da Augusto (anche perché era il più grande della città); lo tenne fino all’872, quando fu dedicato a Santa Maria dopo un evento miracoloso, che avrebbe permesso di recuperare sotto le sue arcate una statua della Madonna gettata nel fiume: una dedica anche in omaggio alla chiesa di Santa Maria Egiziaca (così fu consacrata da papa Giovanni VIII, come ‘ribattezzamento’ del Tempio di Portuno – a proposito di stratificazioni romane). Il ponte crollò, e fu ricostruito all’inizio del Duecento da papa Onorio III, quindi restaurato da Gregorio IX e, in pieno Rinascimento, da Paolo III e Giulio III. Tra i cambi di denominazione, anche quello di ponte Senatorio. Non ebbero fortuna i successivi interventi di Michelangelo e Nanni di Baccio Bigio a metà Cinquecento; dopo la conclusiva ricostruzione ad opera di Matteo da Città di Castello (1573-1575), del ponte rimase un rudere in tre arcate (rispetto alle cinque originarie più la sesta, minore, posta in riva destra) a seguito del crollo causato dalla disastrosa piena del Tevere alla vigilia di Natale 1598, che provocò numerosi morti e danni ingentissimi. Quell’ultima ricostruzione, ad opera di Gregorio XIII per il Giubileo del 1575, aveva segnato l’estremo tentativo – come si legge nell’iscrizione tuttora visibile – di contrastare «l’impeto del fiume» e ripristinare «saldezza e bellezza» del ponte.
Se qualcuno tra i lettori ha visitato la bellissima High Line di New York, il parco urbano di circa due chilometri realizzato sul tracciato in disuso della vecchia ferrovia West Side Line, si sorprenderà nello scoprire che Roma aveva già inventato una cosa simile nel Settecento: nell’impossibilità di rimetterlo in piedi per intero, il ponte Rotto divenne una destinazione di rinfresco, una sorta di giardino pensile aperto al pubblico.
Due delle tre residue arcate furono poi demolite per realizzare l’adiacente ponte Palatino (1886-1890), che tuttora percorriamo a sensi di marcia invertiti. Nei dintorni, il ponte più importante dal punto di vista simbolico non si vede affatto. Era il ponte Sublicio, costruito in legno, celebre per l’eroica, leggendaria difesa di Roma alla fine del VI secolo a.C. contro gli Etruschi di Porsenna da parte di Orazio Coclite (che si sacrificò combattendo sul ponte, mentre i suoi compagni lo demolivano alle sue spalle). Si trovava alcune centinaia di metri più a sud; il suo nome è stato assunto dal moderno ponte Aventino, disegnato da Marcello Piacentini negli anni della prima guerra mondiale, posto ancora oltre, a collegare Porta Portese e via Marmorata.
*
Non c’erano prati e selve deserti, alla fondazione di Roma, in quel fatidico 21 aprile del 753 prima di Cristo. Sappiamo che vi era già un abitato alto-arcaico, insediato sui colli di Roma, il Septimontium. Scorriamo le immagini leggendarie: proprio qui, dove ci troviamo, la cesta contenente Romolo e Remo si è appena arenata. Tocca ad una lupa raccogliere i due gemelli e portarli nella grotta (il Lupercale) ai piedi del Palatino, il colle su cui avverrà poi la fondazione della città. Nei racconti mitici, pure in questo luogo dovette arrivare la nave di Enea, al tempo del primigenio re Evandro.
Gli studi – da ultimo, la vera e propria saga archeologica condotta da Andrea Carandini insieme al suo team – hanno documentato in modo concreto gli eventi storici, non più solo leggendari, avvenuti sul Palatino. Sappiamo anche che gli insediamenti sui rilievi alla sinistra del Tevere furono significativi già nel IX secolo. Questi fenomeni pre-urbani e proto-urbani, all’alba della nascita di Roma, avvennero proprio a causa del fiume. Non troppo distante dal mare, né troppo vicino (circa 20 chilometri). Cicerone esaltò per questo la saggezza dei fondatori: sorgere sul mare comportava sia opportunità che rischi rilevanti, e non era adatto per una città creata «in previsione di una perenne sovranità». Per quegli insediamenti, e quelli dei secoli successivi, Latini, Etruschi, Sabini poterono contare su una via di navigazione prossima a colli formati da tufo vulcanico, naturalmente protetti. Isolati interamente o parzialmente, come il Campidoglio, il Palatino, il Celio, l’Aventino; con villaggi sorti su piccole alture, come il Collis Latiaris, accanto al Quirinale.
Il Tevere aveva un alveo più stretto dell’attuale; ma, sino alla costruzione dei muraglioni (durata della realizzazione dei lavori circa mezzo secolo, tra l’ultimo quarto del 1800 e il primo quarto del 1900), il fiume si espandeva di frequente con inondazioni, anche incrociando l’arrivo di ruscelli e formando diffuse acque stagnanti (erano paludose, ad esempio, la valle del Foro, la valle Murcia dove sarebbe sorto il Circo Massimo, o l’area del Pantheon). L’acqua era comunque, assieme al magnifico clima temperato, l’altra grande ricchezza che incoraggiò la stagione fondativa di Roma, grazie alle molte sorgenti naturali alle pendici dei colli.
Tutto dunque inizia, per la storia della Città Eterna, con il controllo del basso Tevere: per i traffici commerciali, la possibilità di far bere il bestiame, la maggiore sicurezza e salubrità garantita dai colli, dove gli abitati nelle capanne sorgevano tra i boschi (nomi storici, come Fagutal e Querquetulanus, ci parlano di faggi e querce). Il punto in cui ci troviamo era il guado per il migliore attraversamento del fiume ai tempi delle origini. Guado, dal latino vadum (derivato da vadere, andare). Parola che troviamo in Dante, nel Purgatorio, per indicare un punto in cui è possibile passare da un lato all’altro, e che richiama i drammi dell’attraversamento, nell’attacco, nella fuga, nel pericolo, o nel tentativo di cercare una soluzione meno difficile.
*
Tuttora ci incuriosiscono i simbolismi delle traversate fatali: ad esempio, quella del Rubicone. È interessante notare come questo piccolo fiume, che a fatica è stato identificato nei tempi moderni, sia tuttora icona mondiale dell’attraversamento decisivo. Anche in questo caso, si tratta di una pagina romana. Siamo nel gennaio del 49 a.C.: Giulio Cesare deve lanciare la sua offensiva dalla Gallia Cisalpina, e deve dotarsi degli auspici e dei mezzi per farlo. Da Ravenna, prepara in segreto le condizioni per varcare il confine, violando le norme stabilite dal Senato. Prima di poter dire «Il dado è tratto», Cesare – non sul leggendario cavallo, ma in incognito, celato di notte in un carretto tirato da due muli, come fosse un mugnaio – si perde nei boschi, riceve all’alba indicazioni da un ignaro pastore, finalmente raggiunge la sponda del Rubicone, dove le sue coorti lo attendono.
L’attualità di questa vicenda è legata all’immenso valore politico del gesto di Cesare, che prelude alla nascita del principato, dell’impero. E non ci meravigliamo che questa storia sia entrata ripetutamente, ad esempio, nella campagna elettorale di Joe Biden e Donald Trump. Sono rimasto sorpreso nello scoprire, nell’estate del 2020, una maglietta, una t-shirt per il finanziamento della campagna Biden-Harris: «It’s time to cross the Rubicon», è il momento di attraversare il Rubicone. L’analogia (che ricorre moltissimo nella storia americana, visto che George Washington nella notte del 25 dicembre 1776 dette la svolta alla guerra d’indipendenza con l’attraversamento del fiume Delaware, tra Pennsylvania e New Jersey) è comparsa spesso sui media USA con riferimento a Trump. Nel periodo di transizione dopo la sua sconfitta, Trump è stato invitato dalla presidente dei repubblicani dell’Arizona – Stato in bilico fino all’ultimo, nello scrutinio elettorale – a «passare il Rubicone», a superare cioè il «punto di non ritorno» dell’invio di forze militari negli Stati in cui re-indire le elezioni presidenziali (con il lancio, alla vigilia del Natale 2020, dell’hashtag #CrossTheRubicon). Successivamente il Dipartimento della Difesa, con un provvedimento senza precedenti, ha deciso di armare la Guardia nazionale a difesa del Congresso e della formale cerimonia di insediamento di Biden del gennaio 2021. In tal modo, di nuovo, «passando il Rubicone», come scrissero in quell’occasione diversi commentatori.
Non da meno, a fine 2021 il legale responsabile dell’opposizione in Polonia, guidata da Donald Tusk, ha accusato il governo polacco in carica di aver soppresso «la separazione dei poteri» creando «de facto uno Stato a partito unico»: «Hanno attraversato il Rubicone».
*
Qui, sulla banchina del Tevere in riva sinistra dove ci troviamo, in prossimità del guado, era anche il primo porto fluviale della Roma dei re, creato da Servio Tullio sotto la protezione di Portuno (il dio dei porti che abbiamo già conosciuto). Se per caso visitate questo luogo il 17 agosto, bene: potete rievocare l’antica festa dei Portunalia. Non dobbiamo sottovalutare la dimensione industriale di quel Portus Tiberinus: una banchina stimata di una lunghezza di quasi mezzo chilometro, larga 90 metri, con un magazzino pronto a ricevere le merci provenienti dal mare. Grazie agli studi di Filippo Coarelli possiamo associare le analisi sulla sicura navigabilità del Tevere sin dall’età arcaica con gli eventi di acces...