1. Un mondo di ghiaccio
(30 000-15 000 anni fa ca.)
Europa centrale, autunno, 24 000 anni fa circa. Due cacciatori segnati dalle intemperie siedono su un masso in riva a un ruscello, di spalle al vento, con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Non si sono accorti della renna che bruca sulla sponda opposta, smuovendo le foglie che l’autunno ha sparso a terra. Nuvole grigie scorrono basse, addensandosi a nord. I due osservano senza parlare il paesaggio freddo e brullo su cui calano le prime ombre della sera. Infine si guardano, si scambiano un cenno di intesa e si gettano sulle spalle i mantelli di pelliccia.
La loro dimora estiva è una bassa cupola di zolle e pelli, costruita sulla nuda terra. I cacciatori si chinano per entrare nel capanno fumoso, appena rischiarato dalle fiammelle tremolanti delle lampade in cui brucia il grasso animale, e si siedono insieme agli altri attorno al focolare. Con l’infittirsi del buio e l’inasprirsi della tormenta, si stringono tutti sotto le pelli e i manti. Uno di loro, dotato secondo i compagni di poteri soprannaturali, narra la storia degli uomini leggendari che per primi abitarono la Terra. I cacciatori hanno sentito raccontare innumerevoli volte dei loro continui spostamenti, sulle tracce di renne e cavalli selvatici, all’arrivo della primavera e dell’autunno. Mentre la storia si dispiega, gli anziani raccolgono le opinioni di tutti i presenti, giovani e vecchi, uomini e donne. È tempo di trasferirsi nei quartieri invernali.
Homo sapiens, l’uomo che sa: così ci siamo definiti. La nostra specie è nata nel caldo clima dell’Africa almeno 300 000 anni fa (sulla data esatta i pareri sono ancora discordanti). Intelligenti e perspicaci, abbiamo attraversato vasti territori di caccia e ci siamo adattati a lunghi periodi di siccità e ad altre anomalie climatiche, stabilendoci in prossimità di fonti d’acqua sicure. Con l’opportunismo evolutivo che da sempre ci contraddistingue, abbiamo fatto affidamento sull’attenta osservazione, sulla profonda conoscenza dell’ambiente circostante e sulla collaborazione all’interno dei ristretti circoli familiari e tribali. Siamo sopravvissuti a condizioni climatiche di ogni genere, muniti di strumenti e armi semplici e maneggevoli. Abbiamo condotto per quasi tutta la nostra storia un’esistenza nomade, migrando insieme agli animali all’arrivo delle nuove stagioni. Prima di imparare a scrivere – cosa avvenuta appena cinquemila anni fa, in Asia occidentale – abbiamo affidato tutto il nostro sapere, reale o immaginario che fosse, alla trasmissione orale e, talvolta, all’arte.
Per millenni la nostra sopravvivenza è dipesa da un rapporto intimo con il mondo vivente di cui siamo parte e, sebbene nessun gruppo umano contemporaneo sia una finestra aperta sul passato, può essere utile osservare la vita che conducono le poche società di cacciatori-raccoglitori oggi rimaste. Gli inuit della regione artica e i san del Sudafrica mostrano un uguale rispetto per le prede cacciate e una conoscenza approfondita dell’ambiente naturale, delle stagioni, delle piante commestibili e delle migrazioni della selvaggina. È un sapere che, oggi come nei tempi antichi, fa la differenza tra la vita e la morte.
L’Africa che ci ha dato i natali ha sempre convissuto con tempeste violente, siccità protratte e nubi di cenere prodotte da grandi eruzioni vulcaniche, ma la nostra sopravvivenza fu messa a più dura prova quando, all’incirca 40 000 anni fa, alcuni Homo sapiens migrarono nel freddo continente eurasiatico, uno degli ambienti naturali più ostili che la nostra specie abbia mai incontrato. E cosa non meno importante: non eravamo soli. Durante gli oltre sei milioni di anni che hanno coinciso con la storia dell’evoluzione umana, la Terra è sempre stata abitata da diverse specie di ominini.
In Eurasia, per esempio, tra i 400 000 e i 30 000 anni fa (date su cui ancora oggi si discute), c’erano i Neanderthal, ominini molto vicini a noi dal punto di vista evoluzionistico e che discendevano da un nostro stesso antenato, vissuto in Africa almeno 700 000 anni fa. In un’isola dell’Asia sudorientale, ha vissuto fino a circa 50 000 anni fa l’Homo floresiensis, soprannominato «hobbit» per la sua bassa statura. Una terza specie di ominini ancora poco conosciuta, quella dei Denisoviani, era presente in Siberia e nelle regioni orientali e meridionali a essa limitrofe. Esistevano poi altre specie delle quali non sappiamo quasi nulla e, malgrado sporadici incroci tra ominini di specie diverse (in particolare Homo sapiens, Neanderthal e uomo di Denisova), tutti tranne noi hanno finito per estinguersi. All’incirca 30 000 anni fa, la nostra era l’unica specie di ominini rimasta sulla Terra.
Sulle cause dell’estinzione delle altre specie, il dibattito è annoso e tuttora aperto. La loro scomparsa coincide in larga parte con l’arrivo dell’Homo sapiens nelle loro regioni, fatto che ha indotto molti a supporre uno scontro tra noi e gli altri ominini conclusosi con uno sterminio, o con l’affermazione evolutiva della nostra specie sulle altre, o con una combinazione delle due cose. Tuttavia, è altrettanto legittimo pensare che le diverse specie ebbero poco o nulla a che fare tra loro, fatti salvi gli incontri occasionali, di natura anche sessuale. O forse accadde qualcosa di più grande. Tra i genetisti evolutivi c’è chi, come David Reich, sostiene che i Neanderthal fossero in declino già da 100 000 anni, probabilmente a causa di profondi rivolgimenti climatici, e che fossero rimasti in poche migliaia allorché l’Homo sapiens giunse nelle loro terre. E analoghe vicende climatiche potrebbero gettare nuova luce sull’estinzione di altri ominini. L’unica cosa certa è che l’Homo sapiens, dal canto suo, arrivò a insediarsi un po’ ovunque nel mondo, adattandosi ad ambienti di volta in volta nuovi e non di rado inospitali.
Un mondo diverso
Com’era il mondo allora? Il paesaggio terrestre, 45 000 anni fa, non aveva nulla a che vedere con quello del pianeta surriscaldato che ospita oggi sette miliardi e mezzo di persone. Enormi distese di ghiaccio ricoprivano l’Europa settentrionale e la regione alpina. Nell’America del Nord, il fronte meridionale del ghiaccio arrivava fino a Seattle e ai Grandi Laghi, mentre immensi ghiacciai rivestivano per intero il Kilimangiaro e la catena del Ruwenzori in Africa, le Ande sudamericane e le Alpi meridionali della Nuova Zelanda. Infine, a completare il quadro, c’era il gelo che attanagliava l’Antartide. Data la quantità d’acqua imprigionata nelle calotte glaciali, il livello complessivo dei mari era di novanta metri inferiore rispetto a quello odierno. Dalla Siberia all’Alaska si poteva camminare all’asciutto lungo un istmo gelido e battuto dai venti. Una vasta distesa di terra, oggi sommersa dal Mare del Nord e dal mar Baltico, univa l’Inghilterra al resto del continente. Grandi pianure costiere si protendevano dall’Asia sudorientale verso la Nuova Guinea e l’Australia, mentre la tundra artica ricopriva col suo manto sterposo ampi territori tra la costa atlantica, l’Europa centrale e la Siberia. Per molti mesi all’anno, le aride steppe si ammantavano a perdita d’occhio di una sottilissima coltre di ghiaccio portato dai forti venti che soffiavano da nord. In gran parte dell’Europa e dell’Eurasia, animali e uomini dovevano sopportare inverni gelidi lunghi nove mesi. Quali erano le temperature? Combinando i dati ricavati dai fossili di plancton oceanico con simulazioni dell’ultimo massimo glaciale, il team di climatologi diretto da Jessica Tierney ha sviluppato dei modelli climatici in grado di stabilire le temperature delle superfici marine. Ne risulta una media globale di 6 ºC più bassa rispetto a oggi, con temperature ovviamente inferiori alle latitudini più alte.
Dalle analisi delle carote di ghiaccio prelevate in Groenlandia è emerso che le popolazioni nordiche dovettero adattarsi a un mondo estremamente freddo e climaticamente instabile. Nel complesso, le temperature si abbassarono molto di più nell’emisfero settentrionale, a causa principalmente della diversa distribuzione dei mari. L’acqua infatti, che agisce sul clima mitigandolo, copre il 60 per cento della superficie terrestre nell’emisfero settentrionale e quasi l’80 per cento al di sotto dell’equatore. Le temperature interne sono quindi tendenzialmente più alte nell’emisfero meridionale, salvo ovviamente in prossimità dell’Antartide. A nord gli inverni sono più rigidi e, più ci si allontana dall’equatore, più aumenta l’escursione termica stagionale e più si abbassano i valori delle temperature. 24 000 anni fa, le temperature diminuirono di 10 ºC nell’area di New York, di ben 20 ºC nella regione di Chicago e di soli 2 ºC ai Caraibi. L’aumento del gradiente di temperatura tra polo ed equatore impresse maggiore velocità ai venti, aggravando il rischio di assideramento per uomini e animali.
Le condizioni tuttavia non si mantennero sempre uguali. Le carote di ghiaccio groenlandesi rivelano che tra i 60 000 e i 30 000 anni fa si successero almeno dodici periodi più miti, conosciuti come eventi di Dansgaard-Oeschger. In Groenlandia, un episodio di rapido riscaldamento risalente a 38 000 anni fa provocò un innalzamento della temperatura media di 12 ºC in un arco di tempo relativamente breve, pari forse a un secolo. Le temperature annue rimasero probabilmente 5 o 6 gradi al di sotto di quelle odierne. Intervalli freddi altrettanto brevi portarono le temperature ad abbassarsi di 5-8 gradi rispetto a quelle delle fasi calde.
Sembra che la crescita demografica dell’Homo sapiens abbia subito un rallentamento intorno al 33 000 a.e.c., a causa forse dell’espandersi delle distese glaciali. È possibile che la popolazione umana si sia ridotta in concomitanza con il ritirarsi dei gruppi familiari in valli montane o fluviali scoscese, più riparate dal freddo e più vicine al Mediterraneo. In Europa risiedevano solo poche centinaia di gruppi dediti alla caccia, denominati tecnicamente «bande». Probabilmente, nell’arco di una vita lunga tra i venti e i trent’anni, un individuo non incontrava più di qualche decina di suoi simili, provenienti per la maggior parte da altri nuclei familiari. Sarebbe stato impossibile sopravvivere senza queste interazioni perché nessun gruppo, per quanto abile nella caccia, poteva essere completamente autosufficiente, tanto più nei desolati paesaggi dell’era glaciale. I nostri progenitori hanno sempre fatto affidamento sui legami sociali per ottenere informazioni, affinare le proprie competenze e accoppiarsi. Gli spostamenti e i contatti tra bande diffusero a grande velocità le invenzioni tecniche tra regioni anche molto distanti tra loro. Fortunatamente, durante il millennio più freddo, la popolazione umana non decrebbe al punto da perdere le tecnologie messe a punto per difendersi dall’inclemenza del clima, né l’elaborato rapporto simbolico con il soprannaturale che le infondeva forza.
All’incirca 30 000 anni fa si verificò una nuova glaciazione e tra i 24 000 e i 21 000 anni fa le temperature tornarono a precipitare. Furono i millenni più freddi dell’ultima era glaciale, noti come ultimo massimo glaciale. I mari, a causa dell’acqua trattenuta nei ghiacciai, scesero di novantuno metri rispetto al loro livello attuale.
Imbacuccati
Come fecero i nostri predecessori a resistere a un clima così rigido? Noi Homo sapiens, in fondo, non siamo che scimmie glabre di origine africana. Il nostro corpo, senza vestiti, avverte il freddo quando la temperatura scende sotto i 27 gradi. A 13 gradi cominciamo a tremare. Così indicano gli esperimenti condotti in laboratorio, dove l’aria è ferma. Ma un corpo nudo perde più velocemente il proprio calore se tira vento e anche temperature di poco inferiori allo zero possono mettere a repentaglio la nostra salute se siamo svestiti. A 20 gradi sottozero, col vento che soffia a 30 chilometri all’ora, i sintomi del congelamento appaiono in meno di quindici minuti.
Ad aggravare le cose interviene il sudore, dato che l’acqua contenuta nei nostri tessuti superficiali evapora quando il corpo si raffredda. Il sudore impregna i vestiti e i vestiti perdono la loro funzione termica, cessando di isolarci. Se ci raffreddiamo troppo, la termoregolazione smette di agire e la nostra temperatura interna scende sotto la soglia critica dei 37 gradi, provocando l’ipotermia. Quando la temperatura corporea scende a 33 gradi, perdiamo conoscenza. Al di sotto dei 30 gradi, il battito del cuore rallenta, la pressione si abbassa drasticamente e l’arresto cardiaco diviene quasi inevitabile.
Come hanno fatto allora i nostri antenati ad adattarsi al freddo estremo e agli improvvisi sbalzi di temperatura dell’ultimo periodo glaciale? Oggi, la maggior parte di noi regola il riscaldamento della propria automobile intorno ai 21 gradi, temperatura che troviamo congeniale se siamo vestiti, ma sappiamo che chi ha vissuto sin dalla nascita senza indumenti tollera maggiormente l’esposizione al freddo. Nel 1829, il capitano Robert FitzRoy, esplorando lo stretto di Magellano a bordo del brigantino H.M.S. Beagle, incontrò gli yamana. Piccoli e tarchiati, alti in media un metro e mezzo, la loro popolazione non contava all’epoca più di 8000 individui. Malgrado le basse temperature e le frequenti piogge e nevicate, vivevano generalmente nudi, indossando tutt’al più mantelli di lontra o di pelle di foca. Il giovane Charles Darwin, che partecipò a una spedizione del Beagle nel 1833, ne rimase sbalordito: «Quattro o cinque uomini apparvero improvvisamente sul ciglio di un precipizio: completamente nudi, con i lunghi capelli che ricadevano sul viso». La loro resistenza al freddo era senz’altro fuori dal comune.
Oltre agli spostamenti e alle mutazioni genetiche superficiali, le uniche risorse di cui l’uomo disponeva contro il freddo erano il fuoco, i vestiti e alcuni strumenti di pietra. Non sappiamo con esattezza quando l’uomo accese il suo primo fuoco ma, sulla base dei resti scoperti recentemente nella caverna di Wonderwerk, in Sudafrica, si ipotizza che i nostri predecessori fossero soliti riunirsi intorno al fuoco (opportunamente controllato) già un milione di anni fa. Fu, come è facile intuire, un’innovazione rivoluzionaria. Gli innumerevoli vantaggi offerti dal fuoco andavano dalla protezione contro gli animali selvaggi al maggiore apporto calorico fornito dai cibi cotti, a tutto vantaggio del cervello che, in quanto organo ad alto consumo energetico, trasse verosimilmente grandi benefici dall’incremento delle calorie disponibili. Ma, cosa forse ancora più rilevante, il fuoco fornì calore, consentendo al genere umano di sopravvivere in ambienti che divenivano tanto più freddi quanto più ci si allontanava dall’Africa e permettendo a quanti rimasero nella madrepatria di scaldarsi nelle notti rigide. Il fuoco veniva inoltre usato per liberare ...