Il capotreno aprì la porta dello scompartimento e disse qualcosa in tedesco che Maria non comprese. Captò la parola «Berlino» e dedusse che presto sarebbero arrivate a destinazione.
Il viaggio era cominciato due giorni prima, mercoledì mattina, quando da Roma avevano preso il treno diretto a nord. All’inizio, il terzetto non aveva fatto che chiacchierare, infervorato dalla novità, ma a un certo punto le tre donne si erano stancate. Mentre Rina Faccio e Florence Piavelli sonnecchiavano, Maria divorava con curiosità tutto ciò che le passava davanti agli occhi: cittadine, stazioni, paesaggio.
Alla frontiera con l’Austria-Ungheria, un doganiere aveva percorso l’intero convoglio per controllare i passaporti. Ci aveva messo un’eternità a timbrare tutti i documenti con l’aquila bicefala. Maria, che aveva trascorso il tempo guardando fuori dal finestrino, aveva scoperto che, all’orizzonte, si ergeva una fila di montagne tanto alte che sembravano sfiorare il cielo e le cui cime erano coperte da una candida coltre di neve che sicuramente le imbiancava tutto l’anno.
Nel tardo pomeriggio, finalmente giunte a Trieste, si recarono in carrozza a piazza San Pietro, dove Rina Faccio aveva prenotato tre camere. Florence Piavelli sottolineò come, a suo parere, lo spiazzo con accesso diretto al mare assomigliasse a quello veneziano di San Marco. Maria non commentò. Non era mai stata a Venezia, ma di certo quella piazza l’aveva piacevolmente colpita. Gli edifici che la contornavano le rammentavano i dipinti di Vienna, nonostante i palazzi avessero uno stile tutto italiano e conferissero alla città un’eleganza particolare. Ovunque si vedevano ufficiali e cadetti dell’imperiale e regio esercito austro-ungarico con le uniformi di colori diversi, abbellite da decorazioni tanto sfarzose quanto fantasiose e si udivano parlare lingue differenti.
La piazza sulla quale cenarono era illuminata a giorno da lampioni alimentati dalla corrente elettrica, come i tram che circolavano portando i passeggeri da un quartiere all’altro della città. Meravigliata da quanto ricca e tecnologicamente avanzata fosse Trieste, Maria si augurò che presto anche Roma potesse approfittare di tante comodità all’avanguardia.
All’ingresso dell’albergo trovarono ad accoglierle i busti dell’imperatore austriaco e della moglie, l’imperatrice Elisabetta, adorata anche oltre i confini austro-ungarici per la sua grazia e la sua bellezza. Quando, in tarda serata, Maria prese possesso della camera, si buttò subito a letto e, un secondo dopo, sprofondò in un sonno ininterrotto sino alle cinque del mattino seguente, quando dovette alzarsi per riprendere il viaggio.
A Salisburgo, dove si fermarono per un nuovo controllo doganale, a chiedere i passaporti questa volta furono i tedeschi.
Nonostante la fatica, Maria si godette ogni istante della sua avventura e sembrava non saziarsi mai della vista delle città che le sfilavano davanti agli occhi, del panorama in continuo mutamento e degli edifici sempre diversi. A colpirla maggiormente furono le case a graticcio, una tipologia di edifici che a Roma non esisteva. Ogni volta che sentiva una lingua sconosciuta, cercava di indovinarne la provenienza e le sembrò di notare una certa differenza tra il tedesco sentito a Trieste e quello del controllore del treno.
«Era davvero la stessa lingua del cameriere di ieri sera?» chiese stupita alle compagne di viaggio.
Rina Faccio annuì. Conosceva a menadito non soltanto l’inglese e la propria lingua madre, l’italiano, ma parlava anche un tedesco più che accettabile. «Gli austriaci allungano le vocali e pronunciano le consonanti con più dolcezza rispetto ai tedeschi» le spiegò. «Adesso però prepariamoci. Tra non molto arriveremo alla stazione di Berlino.» Si alzò e si controllò i capelli nello specchio sotto la retina portabagagli.
Maria stirò le spalle e le gambe dolenti per la prolungata inattività, sebbene un paio di volte avessero raggiunto il vagone ristorante e, di tanto in tanto, si fossero sgranchite le membra. Guardò fuori dal finestrino. Gli edifici erano attaccati gli uni agli altri e dalla miriade di comignoli sui tetti si levavano altrettanti pennacchi di fumo. Solo di tanto in tanto quel mare grigio di case era interrotto dal verde di alberi o cespugli. A ovest il sole stava tramontando dietro le case.
Il treno rallentò. L’addetto al locomotore annunciò l’arrivo a destinazione con un fischio. Maria si sarebbe volentieri affacciata per ammirare l’immensa stazione, ma non appena abbassò il vetro, lo scompartimento fu invaso dal fumo acre del carbone bruciato.
Il treno percorse i binari sferragliando sempre più lentamente. Erano arrivati. Su un cartellone scuro dei ghirigori chiari formavano la scritta BERLIN ANHALTER BAHNHOF.
«Vieni, Maria.» Durante il lungo viaggio erano passate a darsi del tu. Rina, dall’apparenza esile e delicata, afferrò con forza sorprendente il proprio bagaglio e quello dell’amica. «Adesso troviamo un facchino» aggiunse.
Florence aveva già indossato cappello e soprabito. Solo Maria sedeva ancora davanti al finestrino, come una bimba meravigliata dal suo primo viaggio. La gente che andava e veniva sulla banchina sembrava avere fretta. A Berlino, uomini e donne parevano muoversi più velocemente che a Roma o a Trieste.
Maria smise di osservare il viavai e si preparò. Prese la borsa da viaggio con una mano e sollevò la pesante valigia con l’altra, trascinandola faticosamente sino all’uscita. Forse avrebbe davvero dovuto lasciare a casa il secondo paio di scarpe.
Sul binario, trovarono un facchino già in attesa. L’uomo prese il bagaglio di Maria e lo caricò insieme a quello delle compagne su una carriola. Disse qualcosa che lei non comprese. Fu Rina a rispondergli e a seguirlo fino allo spazioso atrio decorato da colonne e con un soffitto in vetro che favoriva l’illuminazione diurna, sostituita al momento con efficacia da un imponente lampadario a corona che pendeva dall’alto. L’aria sapeva di carbone, ma anche di salsicce, crauti e pane fresco. Lo stomaco di Maria borbottò. Dopo lo spuntino nel vagone ristorante, non aveva messo più niente sotto i denti. Né Rina né Florence, tuttavia, sembravano tentate da quei würstel dorati, profumati e lucidi, concentrate com’erano a raggiungere l’immensa uscita.
Sceso l’ampio scalone e lasciato l’edificio, Maria trovò ad attenderla l’ennesima sorpresa. Sulla piazza antistante c’era una sorta di carrozza a due piani trainata da cavalli e con a bordo almeno una ventina di persone, seguita subito dopo da una seconda con altrettanti passeggeri.
«Tram a cavalli» spiegò Rina. «Ve ne sono altri che vanno a elettricità. Berlino è una città moderna con quasi due milioni di abitanti.»
Un numero impressionante. Ovunque Maria guardasse si trovava davanti un viavai di persone affaccendate, proprio come quelle osservate in stazione. Nessuno camminava tranquillamente, tutti andavano di fretta.
Florence pagò il facchino e con un gesto della mano chiamò una carrozza.
«Non prendiamo il tram a cavalli?» Maria era delusa. Le sarebbe piaciuto sedere al secondo piano della grande vettura, sentire il vento sul viso, vivere la città da vicino.
«Con il bagaglio che abbiamo?» replicò Rina. «No, grazie.»
Un cocchio chiuso arrivò sferragliando. «Prendiamo quello» decise Florence.
Dopo essersi accomodate, si mossero in direzione di Friedrichstraße per raggiungere l’hotel Victoria, dove avrebbero alloggiato. Fecero il tragitto in silenzio, sfinite dalla stanchezza. Tuttavia, a differenza di Rina e Florence che avevano socchiuso gli occhi, Maria era tutta concentrata sulla strada.
Ogni cosa le pareva più moderna e più rumorosa che a Roma. Vi era un continuo andirivieni di tram a cavalli pieni di passeggeri. Uomini e donne si affollavano sulla piattaforma aperta e all’interno della vettura. Quasi sul ciglio della strada, Maria notò dei ciclisti. Aveva letto di loro sui giornali. Com’era possibile mantenersi in equilibrio su due ruote? A quanto pareva, però, erano parecchi i berlinesi che usavano la bicicletta per spostarsi: uomini, donne, addirittura bambini non più grandi di una decina d’anni si destreggiavano con abilità nel traffico a bordo di quei mezzi filiformi. E, se potevano farlo, era grazie all’illuminazione stradale. Ogni angolo della città era rischiarato da lampioni elettrici.
Maria aveva l’impressione di trovarsi non soltanto in un altro paese, ma addirittura in un’altra epoca. Come se, a bordo del treno, fosse arrivata in un futuro tecnologico. Gli edifici che si affacciavano sulle strade sembravano non avere più di un secolo. Che fine avevano fatto le chiese medievali? Era possibile che i tedeschi avessero costruito la loro città demolendo ciò che esisteva in precedenza?
Più s’inoltravano per le vie, più le domande le saltavano in mente. I marciapiedi erano disseminati di colonne per le affissioni su cui svettavano cartelloni colorati che annunciavano gli eventi più disparati. Notò anche pubblicità di cosmetici, abbigliamento e casalinghi. Non conoscendo la lingua non riusciva a leggerli, ma del resto la carrozza andava velocemente e non ce l’avrebbe fatta in ogni caso.
I cavalli si fermarono all’improvviso davanti a un edificio di quattro piani ben illuminato.
«Oh, siamo arrivate» annunciò Rina contenta.
Florence, risvegliatasi dal pisolino, fu la prima a scendere, seguita da Maria che solo in quell’istante si accorse del vento freddo che spazzava la città. Le temperature erano notevolmente più basse di quelle romane. Prima, in stazione, non ci aveva fatto caso, adesso però fu costretta a stringersi nel soprabito. Il vetturino scaricò i bagagli dalla carrozza e li sistemò sul marciapiede. Mentre Florence pagava, il terzetto fu raggiunto da un inserviente con l’uniforme dell’albergo e un berretto verde bottiglia adornato di passamaneria dorata. Rivolse qualche parola a Maria, che rispose con un’alzata di spalle. Perché non aveva pensato di imparare qualche parola di tedesco?
Fu Rina ad accorrere in suo aiuto. Disse qualcosa al ragazzo che, con due valigie in mano, stava già rientrando in albergo. Era talmente veloce che finì di trasportare il resto dei bagagli prima che la carrozza si allontanasse.
«Coraggio, andiamo.» Rina prese Maria sottobraccio e si diresse verso il portone di vetro a doppio battente che conduceva nell’atrio dell’albergo.
«Questo posto ha anche un caffè?» Maria indicò un’altra porta dietro la quale, però, era tutto buio.
«Sì, uno dei più amati della città» rispose l’amica. «Purtroppo è già chiuso. Un vero peccato, perché qui è possibile gustare i dolci e le torte migliori di Berlino. Per non parlare del caffè. Certo, non è buono come a Roma o a Trieste, ma è pur sempre bevibile.»
Maria, che aveva già avuto occasione di assaggiare il caffè tedesco sul vagone ristorante, storse la bocca.
«Chi è quello?» Si fermò davanti all’imponente ritratto di un uomo in frac e con il petto decorato da mostrine e una pesante catena d’oro. CARL LUDWIG WILLDENOW, lesse sulla targhetta attaccata alla cornice.
«Uno dei primi proprietari dell’edificio. Se non ricordo male, era il direttore del giardino botanico che ammetto di non aver mai visitato. A Berlino ci sono cose ben più interessanti delle piante esotiche.»
Maria non faticava a crederle. In quella città pulsante di vita il giardino botanico sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere.
Camminando su un lungo tappeto rosso, le tre signore arrivarono alla reception e trovarono ad attenderle un uomo con un’uniforme simile a quella del facchino ma molto più avanti negli anni e serio in viso. Al petto portava un cartellino dorato con il nome scritto sopra: FRITZ.
«Suppongo che siate le ospiti romane» esordì.
Maria si sorprese nel sentirlo pronunciare la frase in italiano.
«Oh, sì» replicò contenta. «Parlate la mia lingua!»
Il suo entusiasmo si rivelò contagioso, giacché il volto di Herr Fritz non tardò a illuminarsi. «Solo un pochino, purtroppo» confessò.
«Sempre più di quanto io non capisca il tedesco» rispose Maria. «Vorrei tanto essere capace di parlarlo altrettanto bene.»
L’uomo la guardò visibilmente lusingato. «Vi ringrazio delle vostre parole così gentili» rispose schiarendosi la gola imbarazzato e accarezzandosi la folta barba.
«Sapreste dirci dove mangiare un boccone, a quest’ora? Abbiamo notato che il vostro caffè purtroppo è chiuso.»
Rina appoggiò un gomito sul banco...