«Dovrei andare in via Castaldi, per favore.»
«Panfilo Castaldi?»
«Sì, grazie» mi sono sempre limitato a rispondere, ma avrei sempre voluto aggiungere: «Anche perché è l’unica via Castaldi di Milano».
Non ho mai capito perché ai tassisti piaccia fare questa precisazione, ma succedeva regolarmente, ogni volta che prendevo un taxi per tornare a casa. Forse volevano dimostrare di sapere che il signor Castaldi, uno dei primi tipografi italiani, si chiamava Panfilo. O magari semplicemente piace il suono di questo insolito nome, che tradotto dal greco sarebbe «colui che ama tutti».
Vivevo al civico 32: trentotto metri quadrati calpestabili al primo piano, con affaccio su un cortile in cui, due volte all’anno, ovviamente durante la Fashion Week, c’erano le sfilate organizzate da Kika, la magliaia inquilina del condominio, con il suo laboratorio al pianoterra.
Era il 2009 e trovare quella casa per me era stata una gioia indescrivibile. Avevo deciso che avrei vissuto in Porta Venezia: sin da quando ci avevo fatto le prime passeggiate, appena arrivato a Milano, tra me e il quartiere c’era stata subito attrazione. E dopo tredici anni sono ancora un portavenezier.
Prima di approdare lì, però, di appartamenti ne avevo visti a decine.
Uno dei primi era al civico 1 di corso Buenos Aires.
Indimenticabile: entrato nel cortile condominiale, ero rimasto incantato dalla bellezza di quell’angolo nascosto dietro a un maestoso portone che lo proteggeva dal traffico della grande strada dello shopping milanese.
L’agente immobiliare si era limitato ad annuire davanti alle mie manifestazioni di stupore; non era certo compito suo raccontarmi la storia del palazzo (o forse lo riteneva inutile: il prezzo era fuori budget e con ogni probabilità aveva già deciso che non me lo sarei potuto permettere). In effetti, la casa non l’ho affittata. In compenso, sono andato subito a documentarmi e ho scoperto che quell’imponente costruzione affacciata sui caselli neoclassici di Porta Venezia è conosciuta come Palazzo Luraschi, dal nome del progettista. Da qui iniziamo la passeggiata per Porta Venezia, tra il passato e il presente del mio quartiere del cuore.
Corso Buenos Aires 1
Palazzo Luraschi, dicevamo. Noto anche come «la casa dei Promessi sposi». La ragione la scoprirete varcando il portone (chiedete in portineria il permesso di entrare, sono sempre molto gentili). Alzando lo sguardo all’altezza degli archi che racchiudono il cortile troverete dodici busti di altrettanti personaggi dell’opera manzoniana.
E sotto ai busti, notate le colonne. Sembrano antiche, vero? Be’, lo sono. Provengono dal Lazzaretto, che ai tempi della peste sorgeva proprio qui, e l’ingegner Luraschi decise di riutilizzarle, salvando loro e la memoria di quel remoto periodo storico in cui l’epidemia si abbatté sulla città.
Ma c’è un’altra storia che fa di questo palazzo uno dei più affascinanti del quartiere: ai tempi della sua costruzione – siamo alla fine del 1800 – fu il primo edificio a sfidare la «servitù del Resegone», quella disposizione secondo la quale i palazzi a nord della città non potevano essere più alti di tre piani, per lasciare libera la vista sulle Prealpi e sul monte Resegone, nelle giornate più limpide.
Ma torniamo indietro nel tempo, ancora più indietro, fino al 1485, anno in cui, in quello che allora era il Ducato di Milano, arrivò la malattia. La terribile e temutissima peste. Il quartiere in cui stiamo passeggiando in questo capitolo, quello che oggi è ritenuto centralissimo, seicento anni fa fu scelto come zona dove isolare i malati. Doveva essere fuori dalla città, ma non troppo fuori, per permettere agli appestati di arrivarci ancora vivi, senza contagiare troppa gente lungo il percorso.
Tutto merito di un ricco e generoso conte, Galeotto Bevilacqua, che dopo la sua morte lasciò i terreni alla città, perché se ne facesse buon uso destinandoli alla costruzione di un ospedale per le emergenze sanitarie (perché sì, si trattava di un ospedale, benché ai tempi ci si andasse più per morire che per guarire).
Nel 1488 si cominciò a costruire il Lazzaretto su progetto di Lazzaro Palazzi che seguì i voleri del conte: 288 stanzette attorno a un grande cortile cintato da mura e con un unico ingresso. Lì furono portati i malati di peste nel 1513 e poi ancora, durante le epidemie successive, in una zona – grande, grandissima – che oggi sarebbe compresa pressappoco tra via San Gregorio, via Lazzaretto, viale Vittorio Veneto e corso Buenos Aires.
Oggi di quella storia milanese resta poco. Quel poco, però, vale la pena notarlo.
Chiesa Ortodossa Russa
Via San Gregorio 24
Quindi raggiungete la chiesa di San Gregorio Magno che, ai tempi in cui si doveva stabilire dove costruire il Lazzaretto, pare offrisse un ricovero per i milanesi più sfortunati, e quindi probabilmente finì per convincere i responsabili dell’epoca a sistemare proprio qui gli appestati. Quando Manzoni scrisse della peste, la zona era occupata da un cimitero. Come dicevo, era fuori dalle mura cittadine, il che rendeva quello di San Gregorio un cimitero di campagna («Eh, signora mia, ai tempi qui era tutta campagna!»). E lo rimase fino al 1895, dodici anni dopo l’inizio dei lavori, quando i morti cittadini vennero indirizzati prima al Monumentale e poi al nuovo ed enorme Cimitero maggiore. 1895: nello stesso periodo in cui l’area andava verso il suo signorile destino, anche grazie all’ingegner Luraschi.
Il Lazzaretto è stato smantellato a fine Ottocento, per far spazio a palazzi e strade, e oggi restano pochi metri di mura, proprio in via San Gregorio 5. È quello strano edificio di mattoni con piccole finestrelle, che sembra c’entrare poco con il resto intorno e che oggi ospita la Chiesa Ortodossa Russa di San Nicola al Lazzaretto. È un piccolo angolo suggestivo dove ad accogliervi c’è Monsignor Ioan Bica, che si fa chiamare Avondios, in onore del personaggio manzioniano. Per immaginare l’epoca della peste, vi servirà un grosso sforzo di fantasia. Migliaia di malati, ammassati qui. Fuori, la paura e ben poche consolazioni.
Ecco, allora forse ora vi sembrerà comprensibile perché al centro del Lazzaretto sorgesse una chiesa.
Montebianco
Per prendervi una pausa da queste tristi vicende, vi suggerisco di entrare alla pasticceria San Gregorio. Se siete in stagione, fatevi impacchettare un loro celebre Montebianco. Fidatevi, merita. Portatelo a cena da amici, se siete ospiti: farete un figurone.
Chiesa di San Carlo al Lazzaretto
Largo Fra Paolo Bellintani 1
Proseguite verso San Carlo al Lazzaretto. È un piccolo gioiello architettonico ottagonale in largo Bellintani, pensato in origine perché gli appestati potessero continuare a coltivare la fede, nonostante la malattia. Da qui la forma inusuale, perché il prete potesse rivolgersi a tutti i malati che lo circondavano. Se la trovate aperta, entrateci: c’è anche un organo da 1800 canne che è considerato il più potente d’Italia.
Tornate verso via Castaldi (Panfilo Castaldi!) e stupitevi di come molte cose sono cambiate dal 1628-1630, periodo in cui Manzoni ambientò il suo romanzo. Il quartiere, oltre che centralissimo, è diventato il Rainbow District di Milano. Tra via Lecco, via Castaldi, via Tadino e via Casati pulsa il cuore LGBTQIA+ della città.
La passeggiata per l’antico Lazzaretto è perfetta per una domenica di sole. Ma tornate qui un venerdì sera, per esplorare i tanti locali dove la comunità queer – e non solo – ama incontrarsi, mangiare qualcosa e sorseggiare un drink. C’è il Mono, il fratello maggiore che ha fatto da apripista, l’iconico LeccoMilano con il suo dehors sempreverde, il Red, che è l’amico un po’ alternativo, il POP con il suo inconfondibile neon femminista e tanti altri. Tutti pronti ad accogliervi calorosamente. Dove secoli fa si veniva a morire, oggi la comunità arcobaleno sventola bandiere di amore e orgoglio. Soprattutto durante il Pride Month, quando la zona diventa il quartier generale del Milano Pride.
La farmacia storica
Chi mi segue su Instagram lo sa: ho una grande passione per le farmacie e proprio qui ce n’è una antichissima, che è anche la mia farmacia di fiducia. L’Antica Farmacia del Lazzaretto, al 29 di via Castaldi, è la più antica di Milano in attività: la sua fondazione risale al 1750 e pensate che nel suo laboratorio fu sviluppata la prima formula dell’Amaro Medicinale Giuliani. Entrandoci potrete vedere ancora alcuni arredi originali e i vasi in ceramica che contenevano le erbe medicinali.
Il POP
Porta Venezia
Zighinì and LOVE
Questo intreccio di vie è anche il luogo in cui negli anni Settanta la comunità habesha etiope ed eritrea ha scelto di insediarsi, contribuendo a rendere Porta Venezia un affascinante quartiere multiculturale. Vi consiglio di seguire il profumo delle spezie verso uno dei tanti ristoranti africani dove potrete gustare un ottimo zighinì. Oppure in serata fate un salto dall’altro lato di corso Buenos Aires e raggiungete il civico 5 di via Melzo: al LOVE la cultura etiope si unisce alla classe creativa milanese, dando vita a serate indimenticabili.
Corso Venezia 61
Vi propongo un’ultima deviazione, che farà felici soprattutto gli appassionati di architettura. Uscite dal Lazzaretto e raggiungete corso Venezia 61. C’è una bizzarra casa “a torre”, alta e stretta, con la facciata di mattoni. I fortunati inquilini degli appartamenti possono affacciarsi direttamente sui giardini pubblici. Progettata da Gio Ponti ed Emilio Lancia nel 1932, prende il nome dai fratelli proprietari dei terreni, i Rasini. La torre attira l’attenzione molto più del palazzo contiguo, dall’aria più severa, eppure i due edifici sono frutto della stessa progettazione. Le differenze di stile tra torre e palazzo forse raccontano qualcosa dei rapporti tra i due architetti che li disegnarono: in effetti, questo per i progettisti fu l’ultimo lavoro che li vide uniti.
Via Lazzaretto 10
A proposito di Lazzaretto, nella via che porta questo nome c’è il mio ristorante cinese preferito della città: è Lon Fon ed è qui dal 1978. E dal 1978 in cucina c’è la signora Rita Kam che prepara piatti succulenti. I miei preferiti sono i ravioli, il galletto croccante e il rombo con le verdure. Lasciatevi guidare da Pui, Maria Mei e Francesca Mei Po, le tre sorelle che gestiscono impeccabilmente la sala.