Adriano Olivetti, un italiano del Novecento
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Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

Una biografia

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Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

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Adriano Olivetti è un mito dell'industria, della creatività e della cultura italiana nel mondo. È un italiano del Novecento profondamente atipico. In questo libro definitivo, frutto di un decennio di ricerche e di scrittura, Paolo Bricco ripercorre la vita di un uomo di genio e la vicenda industriale e sociale, politica e culturale dell'Italia tra la fine dell'Ottocento e il boom economico. Questa è, prima di tutto, la storia di un'utopia. Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: "La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell'uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto". A questa utopia concreta - almeno in parte realizzata - concorrono condizioni di lavoro per i dipendenti tuttora senza paragoni e la ricerca attiva di una bellezza che coinvolge la meccanica e il design (le macchine per scrivere e le calcolatrici), l'architettura delle fabbriche e l'estetica dei negozi sparsi nel mondo. Ma questo libro non è un'agiografia e di Adriano Olivetti mostra le contraddizioni, i conflitti e le generose incompiutezze: i legami profondi e tormentati con i famigliari, le due mogli e le altre donne amate; la passione per l'organizzazione scientifica del lavoro e l'attrazione per la spiritualità, l'astrologia e la sapienza orientale; il complesso percorso dal socialismo di famiglia degli anni Venti all'adesione teorica al corporativismo e al suo concreto inserimento nella società fascista degli anni Trenta; gli avventurosi rapporti, alla caduta del regime, con i servizi segreti inglesi e americani e la perpetua tentazione del demone della politica, con il fallimento della trasformazione del Movimento di Comunità in un partito tradizionale; l'identità dell'industriale che intuisce le nuove frontiere tecnologiche (l'elettronica) e che unifica il sapere umanistico e la cultura tecnomanifatturiera, senza però riuscire a superare i limiti del capitalismo famigliare. Sotto, come una radiazione di fondo, "quella strana joie de vivre che caratterizza la vita di Adriano e di quanti saranno con lui e intorno a lui".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831808088
1

Adriano prima di Adriano

La casa sulla collina e le radici della strana famiglia Olivetti

Adriano Olivetti è un bambino taciturno, un ragazzo impacciato, un uomo misterioso. Gli Olivetti sono gli Olivetti. Una famiglia curiosa ed enigmatica, che non assomiglia a nessun’altra né nelle sue felicità né nelle sue infelicità.
«Gli Olivetti abitavano, a Ivrea, in una casa chiamata il Convento, perché era stata in passato un convento di frati; e avevano boschi e vigne, mucche, e una stalla. Avendo quelle mucche facevano, ogni giorno, dolci con la panna»1. Ivrea, la campagna, gli animali, la famiglia. Un clima come di sospensione. In attesa che, ogni giorno, in questa vicenda irrompa la Storia.
Lo sguardo e le parole di Natalia Ginzburg, in Lessico famigliare, fissano alcuni punti fermi della vita di Adriano Olivetti, di suo padre Camillo, di sua madre Luisa, dei fratelli Massimo e Dino e delle sorelle Elena, Silvia e Laura.
Ivrea è una piccola città di artigianato e di agricoltura ai confini del mondo industrializzato, più montagna che pianura, l’aria fredda che scende dalla Valle d’Aosta e l’umidità del fiume Dora Baltea e di cinque laghi a renderla un luogo gelidamente ospitale. Scuole religiose e militari. Una borghesia di notai, commercianti e avvocati. Le prime fabbriche di Camillo, il padre, a segnare l’irruzione del mondo che cambia in una comunità da secoli uguale a sé stessa, il sentore metallico degli stabilimenti che all’improvviso si mescola al profumo dolciastro dei fiori e dei vitigni di prima montagna e all’odore acre dei campi appena concimati.
Anche qui si sente, nemmeno troppo lontano, il rumore del secolo in cui gli uomini e le donne non considerano più il destino, individuale e collettivo, come qualcosa di ineluttabile ma come qualcosa che si può cambiare. Il dolore e gli sforzi acquisiscono un nuovo senso. I fallimenti e le paure trovano nuovi significati. La passione delle anime e l’agitazione delle menti modificano i ruoli fissati dalle convenzioni, in una storia che vedrà Camillo il padre prima e Adriano il figlio dopo disarticolare ogni parte assegnata in commedia e trasfigurare ogni atto e ogni pensiero in qualcosa d’altro. Perché, sì, è Camillo a portare nella piccola Ivrea e a introdurre nel nido famigliare l’idea che, se il cuore di un uomo cambia il suo volto, tanti cuori e tante menti possono cambiare il mondo.
Camillo Olivetti, per esteso, si chiama Samuel David Camillo Olivetti. Nella sua mentalità, nelle sue passioni, nelle sue manie e nelle sue paure contiene l’energia dell’Ottocento che esplode con forza, anzi con violenza, nel Novecento. Nasce a Ivrea nel 1868 in una famiglia ebrea. Il suo albero genealogico arriva fino a Daniel Olivetti, nato nel 1650 e morto nel 1700, e a suo figlio Rafael Uri Olivetti, nato nel 1675 e morto nel 1730.
Suo padre, Salvador Benedetto, commercia in tessuti, un’attività svolta da tempo immemorabile dalla sua famiglia, ed è proprietario di tenute agricole. Ha passione politica, tanto che Camillo dovrà il nome all’ammirazione del padre per Camillo Benso, conte di Cavour, apprezzato in particolare come riformatore agrario. È per due volte vicepresidente del Comizio agrario di Ivrea ed è per due volte membro della giunta del municipio.
La madre, Elvira Sacerdoti, appartiene a una famiglia di banchieri di Modena guidata da Samuel Giacob. Elvira è diversa dalle donne del suo tempo. Non è sottomessa. Né psicologicamente né materialmente. Il marito non esercita alcuna forma di potere su di lei. Elvira è ricca di famiglia. Ha interessi culturali propri. È abbonata alla «Nuova Antologia», la rivista del Gabinetto Vieusseux. Quando non lo è nessuna, lei è poliglotta. Conosce il francese e studia l’inglese e il tedesco. L’amore per le lingue e l’apertura al mondo straniero – non comuni nell’Italia provinciale di Modena e di Ivrea – vengono da lei trasmesse al piccolo Camillo, di cui si occupa da sola. Lo fa amorevolmente. Ma lo fa, appunto, da sola.
Sì, perché in questa storia – come nelle vite di molti uomini illustri e non illustri – la morte e la malattia segnano e orientano la superficie delle cose e gli angoli nascosti delle interiorità. Nel 1869 Elvira, che trentadue anni dopo diventerà nonna di Adriano, rimane vedova e suo figlio Camillo, ancora in fasce, diventa orfano.
Camillo trascorre l’infanzia con la madre, che è una donna affettuosa ma priva della fermezza di carattere e, in fondo, del desiderio di orientare la sua crescita. A dieci anni, la madre sceglie di affidarlo ad altri: lo iscrive al Collegio Calchi Taeggi di Milano. Il distacco crea un vuoto: la distanza dalla madre e la costrizione in un collegio lo renderanno sempre, anche nella memoria, irrequieto e insoddisfatto per i primi anni di studi.
Nonostante l’inquietudine, è uno studente brillante. La formazione è coerente con l’idea di cultura classica dell’epoca, ma viene orientata e condizionata dall’esperienza delle prime modernità: non c’è soltanto lo studio matto e disperatissimo sperimentato, sotto lo sguardo severo e le richieste pressanti dei professori, da tutti gli adolescenti che frequentano prima il ginnasio e poi il liceo, ma c’è il mondo che, là fuori, scorre. E, allora, scorre impetuoso. È il 1881. Camillo è impressionato e affascinato, in quella Milano, dall’Esposizione industriale.
Camillo ha tredici anni. Si trova di fronte a un milione e mezzo di visitatori che, in poche settimane primaverili ed estive, popolano i giardini pubblici di Porta Venezia e Palazzo Reale, dove 7139 espositori sono divisi in padiglioni organizzati per specializzazione produttiva e tecnologica: la meccanica, le industrie estrattive, la chimica, l’alimentare, la ceramica, la vetreria, il tessile, la carta e la grafica, la nautica.
Con gli occhi del bambino che si fa uomo vede tutta la città trasformarsi: gli investimenti pubblici ne modificano il volto, la Stazione Centrale viene ampliata, compare un binario che porta i visitatori all’Esposizione industriale, l’illuminazione – l’energia elettrica è uno degli elementi materiali e immaginari della trasformazione di quegli anni – muta il profilo di Milano, che in quel momento concepisce e inizia a edificare il mito di capitale morale ed economica della nazione, e offre nuovi colori e nuove luci da Palazzo Reale al Duomo, da corso Vittorio Emanuele a corso Venezia, da piazza Cavour a corso di Porta Nuova, da via Manzoni a piazza della Scala, fino a piazza Castello. E un tredicenne non può che avere gli occhi di giorno rivolti alle macchine esposte e la sera rivolti verso il cielo.
Tre anni dopo, nel 1884, a Torino si tiene l’Esposizione generale italiana, che ha un successo ancora maggiore rispetto alla manifestazione di Milano: 14.237 espositori e tre milioni di visitatori. Tutta la città è coinvolta. Al Parco del Valentino sorgono un borgo e un castello di ispirazione medievale che rimarranno anche dopo la conclusione. L’intento è di dare una rappresentazione, insieme concreta e retorica, del profilo manifatturiero e tecnologico, artigianale e sociale dell’Italia e di definire – anche attraverso nuove strutture e spettacoli musicali e teatrali – viaggi immaginari nella sua storia.
Torino, dunque, è la città in cui l’Italia, da poco costruita politicamente, cerca di delineare una identità tecnomanifatturiera e di elaborare una cultura all’insegna del progresso, coerente con la radice più profonda del tempo. Qui si completa la formazione di Camillo.
Dopo il liceo, Camillo si iscrive quindi all’università di Torino, dove frequenta il biennio di scienze matematiche e fisiche, superato il quale passa al Regio museo industriale italiano – l’istituto che diventerà poi nel 1906 il Politecnico – e frequenta la Scuola di applicazione tecnica dove insegna elettrotecnica Galileo Ferraris, lo scienziato scopritore del campo magnetico rotante e inventore del motore elettrico a corrente alternata. Ferraris, personalità influente della società italiana tardorisorgimentale, è un esponente della massoneria, tanto che a lui, nativo di Livorno Piemonte (poi Livorno Ferraris), a pochi chilometri da Vercelli, verrà intitolata nel 1911, a quattordici anni dalla morte, la loggia numero 10 del Grande Oriente d’Italia, quella proprio di Vercelli.
Il 31 dicembre 1891 Camillo si laurea in ingegneria industriale con 90 su 100. Trascorre il 1892 a Londra, dove lavora – secondo il classico cursus honorum degli ingegneri che coltivano il sogno di diventare imprenditori – anche come operaio e come meccanico. Nel 1893 rientra a Torino per fare l’assistente di Galileo Ferraris che, quell’anno, accompagna a Chicago al Congresso internazionale di elettrotecnica, in programma all’interno dell’Esposizione universale colombiana. Ferraris non conosce l’inglese. Camillo, che lo ha imparato bene a Londra, è il suo interprete. Durante le settimane negli Stati Uniti, Ferraris e Camillo visitano la fabbrica di lampade della Edison e le officine Weston a Newark e i laboratori della Edison a Llewellyn Park, dove incontrano Thomas Edison, in quel New Jersey che allora è uno dei cuori industriali del Nord America. Con lo scienziato e imprenditore americano, Galileo Ferraris non condivide soltanto la passione per il progresso. Ha in comune anche la sensibilità verso la cultura scientista e illuminista. Quella particolare forma di visione del mondo che, in Europa e negli Stati Uniti, è il terreno principale per il pensiero esplicito e per l’implicita struttura sociale della laicità massonica: Edison ha aderito nel 1875 alla Società Teosofica della filosofa russa naturalizzata statunitense Helena Blavatsky, il cui neospiritualismo tende a coniugare la conoscenza mistica e l’indagine scientifica.
Scriverà Camillo a suo cognato Carlo, in una lettera da Chicago: «13 agosto 1893. Adesso che ti ho dato qualche impressione sulla città, ti dirò come vi ho passato il mio tempo. Il signor Hammer, il direttore della fabbrica di lampade della Edison a Newark, ci condusse a Llewellyn Park, distante una mezz’ora di ferrovia da New York, a vedere il laboratorio di Edison. Il signor Edison in persona ci venne a ricevere e fece con noi un po’ di conversazione e ci eseguì sul suo fonografo alcuni pezzi di musica. Come vedi ho cominciato presto a far la conoscenza di persone celebri. Edison è un bell’uomo, alto e tarchiato dalla faccia napoleonica. È gentile ma essendo piuttosto sordo, e d’altra parte non essendo il prof. Ferraris capace per il momento né di intendere, né di spiegarsi molto in inglese, la conversazione non fu molto animata»2.
Camillo Olivetti prosegue il suo viaggio negli Stati Uniti. Dopo il Michigan e il New Jersey, va in California, dove si iscrive al corso di fisica alla Stanford University e dove ha un incarico temporaneo – fra il novembre 1893 e l’aprile 1894 – come assistente di elettrotecnica.
Il mito americano, così presente nell’immaginario delle classi dirigenti italiane, è dunque per lui vissuto non dal basso, ma dall’alto: conosce, seppur all’ombra di uno scienziato come Galileo Ferraris, grandi ricercatori, visita fabbriche sulla frontiera estrema della tecnologia, viaggia nel mondo grande americano, entra in contatto con l’establishment radicalmente scientista e di ispirazione sostanzialmente massonica, frequenta le università che, nei decenni successivi, diventeranno il cardine dello sviluppo tecnologico e industriale statunitense.
Il fuoco dei suoi pensieri è, dunque, l’elettricità che rappresenta uno dei passaggi chiave dell’industrializzazione che muterà ogni cosa in Occidente fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1894 Camillo torna a Ivrea, fissando per la prima volta il meccanismo classico che si ripeterà nella storia olivettiana, compresa la vita di Adriano: il pendolo fra l’America, con i suoi spazi e le sue fabbriche, il suo pensiero e le sue energie, e Ivrea, con il suo orizzonte delimitato dalle montagne, dal fiume e dalle colline, i suoi agricoltori, la sua borghesia immobile nel tempo e anche la sua capacità di mutare radicalmente e di essere epicentro di un cambiamento in grado di propagarsi in molti altrove. Molti altrove che sono ora la manifattura nella sua essenza di architrave della società, ora la figura dell’imprenditore nel suo legame con chi lavora con e per lui, ora il rapporto fra fabbrica e comunità, ora la connessione fra la dimensione civile e l’articolazione della politica.
A Ivrea Camillo concepisce questo particolare grumo genetico mutante che verrà poi ereditato, sviluppato e portato al massimo punto di originalità dal figlio Adriano. Come prima attività imprenditoriale fa l’importatore di beni prodotti da altri: macchine per scrivere e biciclette. Dunque, inizia lentamente e con una prudenza che non ripeterà più nella vita, quando manifesterà la sua attitudine a diventare ciò che è, prima di tutto un industriale che fabbrica propri prodotti, con un’energia e una determinazione al limite della violenza. Nel 1896, inizia la sua vera attività di imprenditore: fonda a Ivrea la C. Olivetti & C., una officina per la fabbricazione di strumenti di misurazione elettrica.
Tutto intorno a Ivrea è, appunto, terra agricola. I campi sono coltivati a grano. I filari di vite danno l’Erbaluce nella vicina Caluso, verso Torino, e il Carema, che è il Nebbiolo di montagna, nell’omonimo centro all’imbocco della Valle d’Aosta. Sulla Serra, la collina morenica che separa questa terra dal Biellese con la sua tradizione più antica di industrializzazione incardinata sul tessile, si trovano i castagni e le querce. Gli unici operai conosciuti a Ivrea lavorano in alcune filande. Il tessile nulla c’entra con la nuova industria fondata sull’elettricità.
In questa storia di mutazione degli uomini e di cambiamenti di piccoli mondi, per la prima volta a Ivrea succede una cosa precisa: bisogna trasformare la mentalità e le competenze – dunque la natura sociale – delle persone. Un’operazione attuata, con didascalica pazienza, da Camillo fin dal suo rientro. Un fenomeno condiviso da Ivrea con ogni città e con ogni campagna che sperimenti, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’industrializzazione. Scriverà Camillo nel 1933: «Nell’autunno del 1894, nella mia villa di Monte Navale, avevo intrapreso un breve corso elementare di elettricità per operai. Quel corso durò poco tempo e probabilmente fu più profittevole a me che non agli allievi. A me insegnò già fin d’allora una cosa che l’esperienza della vita mi confermò, e cioè che gli studi giovano solamente se chi li imprende ha intelligenza sufficiente per ben assimilarli e che persone poco istruite, ma che hanno l’intelligenza pronta e buona voglia di imparare, possono riuscire meglio di gente molto più istruita, ma meno intelligente e volenterosa»3.
In queste parole, si ritrova una delle caratteristiche che accomuneranno Camillo e Adriano: una cultura industriale basata sulla miscela fra lo studio e le competenze acquisite e sedimentate sul campo. Il più giovane dei ragazzi che frequentano il corso si chiama Domenico Burzio, ha la seconda elementare, diventerà il principale collaboratore di Camillo Olivetti, ingegnere e imprenditore.
I contadini plasmati e trasformati in operai da Camillo formeranno l’ossatura dirigenziale della Olivetti dei decenni successivi: Burzio sarà il direttore tecnico, Valentino Prelle diventerà il capo officina, Giovanni Rey e Giuseppe Trompetto saranno responsabili rispettivamente delle macchine automatiche e del montaggio. Hanno nomi e cognomi da campagna e da prima montagna piemontese. Vengono dalle cascine.
Mente e mani, astrazione ed esperienza, scuole e lavoro ben fatto. Il tutto sintetizzato nel lavoro di fucina, che sarà uno dei fattori comuni delle esperienze industriali di Camillo e di Adriano. Sulla umiltà del lavoro Adriano – negli anni Trenta da direttore generale, nel 1938 da presidente e nel secondo dopoguerra da imprenditore con una carica da demiurgo carismatico – costruirà il mito e la pratica degli ingegneri che, nei primi sei mesi di lavoro, devono andare in linea, nei luoghi più scuri e duri della fabbrica, incominciando con il turno del mattino, conoscendo il buio che precede l’alba, al suono della sirena delle sei: «Il lavoro di fucina,» scriverà Camillo nel 1933 «è un lavoro di natura tale che io non mi perito di chiamarlo intellettuale. Secondo me non vi è quella divisione netta fra lavoro manuale e lavoro intellettuale che qualcuno ama credere. Tutti i lavori, se fatti bene, richiedono più o meno uno sforzo dell’intelligenza, ed il lavoro del fucinatore più di molti altri, non esclusi alcuni di quelli che si chiamano intellettuali»4.
Quei primi anni sono fondamentali, perché appunto definiscono un elemento che segnerà in particolare la vita di Camillo e di Adriano come imprenditori e connoterà in generale l’esistenza della Olivetti come organismo industriale, sociale e culturale complesso: il senso di fastidio che lambisce il sospetto e il senso di distanza che quasi si trasforma in ostilità nei confronti di ciò che è formalizzato, standardizzato, scolasticizzato.
Scriverà Camillo una decina di anni dopo, nel 1908: «I nostri politecnici ci danno degli ingegneri che ben poco conoscono di quanto si fa in pratica e, quello che è peggio, hanno vissuto per ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. AO Adriano Olivetti, un italiano del Novecento
  4. 1. Adriano prima di Adriano
  5. 2. L’educazione sentimentale, famigliare e industriale
  6. 3. Il fantasma dell’America e il demone della politica
  7. 4. La modernità della fabbrica e il consenso teorico al fascismo
  8. 5. La fuga dall’ebraicità e il rapporto con Mussolini
  9. 6. Il distacco dal regime e le avventure con gli Alleati
  10. 7. La follia come metafora, gli amori e le donne
  11. 8. L’anomalia di Adriano, dentro e fuori dal sistema
  12. 9. L’uomo sfigurato dalla modernità e i nuovi fini dell’impresa
  13. 10. Il grande imprenditore e il politico di insuccesso
  14. 11. Il denaro, gli astri e il destino incompiuto
  15. 12. Adriano dopo Adriano
  16. Fonti archivistiche
  17. Note
  18. Bibliografia
  19. Ringraziamenti
  20. Inserto fotografico
  21. Copyright