Le
pagine che seguono rendono conto di un percorso di ricerca su
quelle che si possono considerare le domande radicali seminate
nella letteratura contemporanea.
Interrogativi «grandi», come li definì a più riprese Gesualdo
Bufalino, che appartengono – per dirla con Rainer Maria Rilke –
alle «grandi dinastie di domande» che «sempre e di nuovo sono state
ricoperte di domande» (
Su Dio, Adelphi 2010). Romano Guardini, teologo che
elaborò un’ermeneutica cristiana dell’opera di scrittori come
Dante, Dostoevskij, Hölderlin, Rilke stesso, le chiamava nel 1960
«le domande dell’esistenza»: «Perché io sono colui che sono? perché
mi succede quello che mi succede? perché mi è interdetto quello che
mi è interdetto? perché io sono come sono? perché io semplicemente
esisto invece che non esistere?» (
Accettare se stessi, Morcelliana 1992). Esse riguardano
anche le situazioni critiche in cui, dentro la storia, sono messi a
repentaglio alcuni valori idealmente inviolabili, come la verità,
la libertà, la pace infranta dalla guerra, la giustizia e il
rispetto (e già Platone scriveva, nel suo
Protagora, che i due doni principali dispensati da Zeus,
tramite Ermes, agli esseri umani per renderli capaci di non abusare
del fuoco per loro rubato da Prometeo, erano stati appunto
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s, giustizia e rispetto: non
nómos, non la legge o l’osservanza delle leggi, bensì
l’attitudine a mettersi in relazione reciproca, per progredire
personalmente senza ledere il progresso altrui, pur nei risicati
limiti del possibile). E, insieme a queste grandi questioni, altre
ancora non meno drammatiche, persino tragiche: la malattia per
esempio, quella fisica e quella morale, il dolore e la sofferenza
che rispettivamente ne derivano, la morte che viene a compierne
inesorabilmente le promesse o a portarne a estrema conseguenza le
premesse, specialmente la morte dell’innocente per antonomasia,
quella del bambino, ma anche quella dell’ammalato senza più
speranza di guarire, a volte perciò presa per una ladra, a volte
accolta come una liberatrice. E inoltre istanze forti al pari e
anzi più della morte: soprattutto l’amore.
Difatti grappoli di questioni fondamentali si possono
rintracciare e decifrare in importanti autori come Luigi Pirandello
e tanti altri scrittori contemporanei, notissimi ma pure meno noti
e non per questo minori, come si suole dire talvolta semplificando
e schematizzando eccessivamente. Intendendo la scrittura letteraria
come una «spada a doppio taglio» (
Eb 4,12), d’altronde, si può studiare il tema delle
domande radicali anche in non pochi scrittori del Novecento che
hanno espresso nelle loro opere i moti della loro coscienza
problematicamente agnostica eppure, se si può dirlo, laicamente
credente, e al contempo in alcuni spirituali che hanno saputo
testimoniare la loro personale vicenda religiosa tramite una
scrittura di qualità letteraria: per fare un esempio, il siciliano
Fortunato Pasqualino a rappresentare i primi e don Primo Mazzolari
a rappresentare i secondi.
In questo libro viene privilegiata una particolare direttrice
della ricerca sulle domande radicali nella letteratura
contemporanea, registrandole come fossero echi di quegli
interrogativi alti e puntuti che si trovano già nelle Sacre
Scritture, a partire dal
Sal 8, in cui l’orante biblico si chiede – mentre pure lo
chiede a Dio – chi sia veramente l’uomo, attraverso tutta la
cosiddetta letteratura sapienziale, di cui
Qoelet è il rappresentante più famoso, per giungere al
libro di
Giobbe, dove le disgrazie dell’uomo di Uz preannunciano
quella che nella vicenda pasquale dell’Uomo di Nazaret si sarebbe
rivelata anche come una misteriosa «sconfitta di Dio», per usare le
parole che compongono il titolo di un breve ma denso volume di
Sergio Quinzio (
La sconfitta di Dio, Adelphi 1992).
Gli echi sapienziali nella letteratura italiana contemporanea si
possono cogliere nelle opere di autori che coprono tutto il
Novecento – da Clemente Rebora a Luigi Santucci, passando
attraverso Guido Morselli, Cristina Campo, Bartolo Cattafi
(rappresentante di un nutrito drappello di poeti siciliani vissuti
prima e dopo di lui, da Virgilio La Scola ad Angelina Lanza
Damiani, da Calogero Bonavia a Castrense Civello e ad altri ancora
viventi), Margherita Guidacci, David Maria Turoldo, Agostino
Venanzio Reali e il già ricordato Sergio Quinzio – o che, come nel
caso di Mario Luzi, Divo Barsotti e Alda Merini, hanno continuato a
vivere e a scrivere fino alla prima decade del XXI secolo. Non
metto in fila tutti questi nomi obbedendo a un qualche criterio
sistematico, ma assecondando l’impulso di zoomare almeno in ordine
sparso un territorio del resto troppo vasto per essere perlustrato
con una sola incursione. D’altra parte il percorso di lettura e di
interpretazione dovrebbe rimontare all’Ottocento, fino a prendere
le mosse da Giacomo Leopardi, che dei «poeti del dolore» – come
viene definito dagli studiosi – è in Italia il capostipite. In ogni
caso si tratta di autori che condividono più che la fede in Dio la
pietà per l’uomo, nel cui nome essi alzano la voce per chiedere
conto e ragione – all’uomo stesso e, in definitiva, a Dio – di ciò
che l’opprime e lo mortifica. Proprio come Giobbe, che nel libro
biblico a lui intitolato si smarca dalle teodicee che da sempre
tentano pelosamente di giustificare Dio ad ogni costo di fronte ai
mali da cui sono feriti gli esseri umani e arriva finalmente a
teologare, cioè a chiederne tragicamente il perché a Dio
stesso.
In un’investigazione del genere deve poter emergere la
corrispondenza intertestuale fra lettera biblica e produzione
letteraria, senza che ci si fermi tuttavia a contare le citazioni
bibliche più o meno esplicite ricorrenti negli autori presi in
esame, o quelle soltanto implicite nascoste nei loro scritti, bensì
decifrando ciò che del messaggio biblico di volta in volta, caso
per caso, l’eco prolunga e deforma al contempo. Insomma, ciò che –
negli scrittori studiati – è “altro” rispetto alla lettera biblica,
ciò che viene rielaborato e rifigurato nel momento stesso in cui
pure è recuperato e ricordato. Lo scopo è capire cosa diventa – e
perciò cosa forse non è più – la preghiera del salmista, la
meditazione di Qoelet, il cantico degli innamorati, il lamento di
Giobbe, nei versi e nelle pagine di Leopardi e degli altri autori
chiamati in causa. Si deve puntare, in definitiva, ad appurare una
intertestualità non meramente filologica, capace di svelare
piuttosto la continuità-nella-discontinuità tra lo spirito del
messaggio biblico e la ricerca di senso di cui si sono incaricati
di volta in volta gli scrittori.
Per conseguire questo obiettivo occorre innanzitutto riflettere
sul carattere letterario delle Sacre Scritture e, in particolare,
sulla qualità poetica della letteratura biblico-sapienziale,
perlustrando così un orizzonte vastissimo che già studiosi come
Karin Schöpflin, Vincenzo Arnone, Robert Alter e Jean-Pierre Sonnet
– tra gli ultimi nell’affrontare questa fatica – hanno negli anni
scorsi indagato, da differenti punti di vista, con grande efficacia
pur senza esaurire le possibilità esegetiche ed ermeneutiche che se
ne possono ricavare. Promettente e significativa risulta, a tal
riguardo, la polisemia che le parole della lingua ebraica si
portano dietro e dentro come una loro dote peculiare. Se ne era
accorto anche Leopardi. Nello
Zibaldone il poeta di Recanati più volte sottolineava la
semplicità strutturale e persino la primitività linguistica
dell’ebraico, che – mancando di termini composti – non può vantare
la ricchezza semantica e la raffinatezza retorica del greco e di
altre lingue antiche. Nondimeno, nella Bibbia, il
deficit si traduce in
chance, perché le parole si forzano a dire più di ciò che
esprimono in prima battuta, nascondendo sensi traslati e
metaforici, stridendo tra di loro di volta in volta negli ossimori,
nei merismi e nei paradossi che trapuntano le storie d’Israele,
risuonando all’unisono «riso e lagrime» – per dirla come
Dostoevskij nei
Ricordi della casa dei morti ripreso e commentato da
Santucci nel suo saggio su
Poesia e preghiera nella Bibbia (Gribaudi 1979) –, come
alleluia gioioso ma anche come contestazione arrabbiata nei salmi
e, persino, come controverso improperio sulle labbra di Giobbe che
discute di Dio con Dio: «Or dunque – concludeva Leopardi – non
potendo quasi la prosa ebraica usar parola che non formicolasse di
significazioni, essa doveva necessariamente riuscir poetica per la
molteplicità delle idee che doveva risvegliare ciascuna parola
(cosa poetichissima, come altrove ho detto)» (
Zib. 3565). Così nella Bibbia l’afasia umana, che
corrisponde e anzi consegue all’indicibilità divina, viene in
qualche modo guarita e addirittura guadagna dignità teologica. Ciò
che non si riesce a dire, ciò che non si può dire, viene comunque
udito, perché quello che è scritto, nella sua spesso disadorna
semplicità, risuona di tanti diversi significati. «Se non fosse
ambigua / mi piacerebbe meno la parola», viene da dire, ricordando
un verso di Mariaceleste Celi. «Una parola ha detto Dio, due ne ho
udite», dice finanche il salmista (
Sal 61[62],12), quasi ad ammettere che nella Bibbia ha
capacità poetica – riesce a rintracciare il senso, si fa scopritore
di significati – non tanto chi s’industria a discettare di Dio e,
al limite, chi s’accanisce a discutere con Dio quanto piuttosto chi
sa ascoltarlo: «Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta,
ma non insisterò; ho parlato due volte, ma non aggiungerò nulla»,
dice esausto ma consapevole Giobbe al cospetto di Dio, ormai nel
finale del libro a lui intitolato (
Gb 40,4-5).
Stando così le cose, la letteratura biblico-sapienziale non
subisce ma, anzi, si esercita nello sforzo ermeneutico. Ha da
essere compresa, certamente. Ma è pure tentativo di capire. Alla
stessa stregua della letteratura gravida di domande radicali che in
questo libro viene presa in considerazione. In uno dei suoi ultimi
componimenti poetici, il dramma dedicato al martire Pino Puglisi (
Il fiore del dolore, Meridiana 2003), non a caso Mario
Luzi fa dire al personaggio suo portavoce: «Nostro mestiere è
l’interpretazione». Il poeta è, sulla scorta del salmista, o di
Qoelet, o di Giobbe, non colui che teorizza ideologie, ma colui che
interpreta lo svolgersi del mondo e, al limite, il dirsi e il darsi
di Dio nel mondo stesso, sempre restando attento a ciò che non è
ovvio, a ciò che rimane non evidente, dislocato sull’«altro lato
della vita», come ha scritto Cristina Campo in una pagina de
Il flauto e il tappeto (Rusconi 1971).
Conviene quindi riflettere anche sulla letteratura contemporanea
come riscrittura della Bibbia, intesa (la riscrittura) non come
mera ripresa di immagini e di suggestioni bibliche, ma come
rivisitazione di quelle immagini e di quelle suggestioni. Il tema,
a partire dalla lezione di Northrop Frye sulla Bibbia «grande
codice» della cultura occidentale, è ormai declinato da molti
studiosi, anche se talvolta in direzioni divergenti. I volumi
curati per la Morcelliana da Pietro Gibellini e da altri studiosi
suoi collaboratori su
La Bibbia nella letteratura italiana, sotto questo
profilo, sono esemplari e costituiscono un importante punto di
riferimento. Nel nostro caso, però, si tratta di nuovo di inseguire
specialmente gli echi sapienziali, non solo in autori come Turoldo
e Reali, i quali hanno tradotto in poesia italiana intere sezioni
della letteratura biblico-sapienziale, i salmi in particolare
Turoldo (collaborando con Gianfranco Ravasi) e il
Cantico dei Cantici Reali, ma anche in autori che hanno
composto nuovi salmi o nuovi cantici rivestendosi – consapevolmente
o senza neppure rendersene conto – dei panni del Qoelet e di
Giobbe. O persino – slittando in avanti, verso Gesù di Nazaret –
mettendosi nei panni degli evangelisti, sino a proporre anche loro
un «quinto evangelio» – per riecheggiare qui il titolo di un
romanzo di Mario Pomilio uscito nel 1975 con i tipi Rusconi, che
tra le riscritture bibliche si deve pure annoverare – nelle cui
pagine incontrare ancora il
Christus patiens, «gran piaga verticale» – così Santucci
nel suo
Volete andarvene anche voi? (Mondadori 1969) – in cui
ognuno può ormai riconoscersi e riconoscere colui che assume la
condizione di Giobbe e grida sulla collina del Golgota lo
scoramento del salmista: «Perché mi hai abbandonato?» (
Sal 21[22]), mentre si accinge a «baciare» la morte,
divenendo perciò «uomo per eccellenza», come l’ha definito Alda
Merini in un verso del suo
Magnificat (Frassinelli 2002).