Gli agricoltori sul piede di guerra
Quella che nei primi del Novecento era una gabbia in ferro, una protezione fisica della pianta, oggi è un insieme di norme europee e internazionali che hanno la stessa funzione: schermare la proprietà intellettuale di quella varietà, trasformando la biodiversità in proprietà privata.
L’uva da tavola è l’esempio più emblematico di questo modello.
Ricordate la storia della volpe e dell’uva? È una di quelle storie che restano impresse nella memoria collettiva in modo indelebile. Storie che non sei neanche sicuro di aver mai letto, eppure le conosci perfettamente. Storie che vengono tramandate di generazione in generazione, raccontate ai bambini prima di andare a letto o che, al solo menzionarne il titolo, ti riportano subito alla memoria la morale sottesa.
La storia della volpe e dell’uva è attribuita a Esopo – siamo nel VI secolo a.C. –, che l’ha scritta attingendo a sua volta a una lunga tradizione orale; racconta il disappunto della volpe affamata che tenta di afferrare un grappolo di uva per sfamarsi. Quando, all’ennesimo tentativo fallito, si arrende, si consola dicendosi che in fondo quell’uva così agognata è acerba. Inutile fare tanti sforzi per un grappolo di uva che non è neanche buona, si dice la volpe, ma la verità è che lo fa soltanto per ingannare sé stessa.
Quando penso all’uva, la memoria mi riporta subito alla mente la favola di Esopo, solo che in questo caso, nel paradosso della storia, la volpe è rappresentata dagli agricoltori. Anche loro, come vedremo, non possono accedere all’uva. Diversamente dalla volpe, però, ne apprezzano le qualità e fanno di tutto per averla. Costi quel che costi.
Questa storia moderna, questo parallelismo tra la volpe e l’agricoltore, nasce in Puglia, dove di uva se ne produce in abbondanza. Anche qui la logica dei prodotti club sta prendendo piede.
I club si stanno diffondendo rapidamente lungo tutto lo stivale e, più in generale, in tutto il mondo, diventando una prassi in molti settore dell’agroalimentare, non solo quello della mela o del kiwi.
L’uva è un altro esempio eccellente, soprattutto da quando i mercati sono stati invasi da una serie di varietà contraddistinte da un elemento comune: sono tutte senza semi. Perché, si dirà, l’uva senza semi è più comoda, elimina quello che per qualcuno è un fastidiosissimo orpello al centro dell’acino. Chi mangia l’uva, in genere, si distingue tra chi mastica l’intero chicco senza problemi e chi, al contrario, lo seziona minuziosamente per espellerne il seme. L’uva senza semi mette d’accordo tutti, e sempre più spesso nelle nostre case troveremo una delle nuovissime varietà seedless, senza semi, appunto.
Per un consumatore che non ha più tempo è la soluzione perfetta, ma vista da un’altra angolazione è anche la misura di quanto la natura venga piegata sempre più alle esigenze di un mercato che ha visto in quell’uva senza semi una fonte di guadagno certo.
L’uva senza semi – tecnicamente uva apirene – è un fenomeno naturale. Esiste da sempre. Si trovano raffigurazioni dei suoi grappoli persino in numerose ceramiche e monete della Magna Grecia. Nessuno può dire se Esopo, nello scrivere la celebre favola, avesse in mente un’uva senza semi, ma certamente non possiamo escluderlo.
L’uva infatti soffre di apirenia, un fenomeno fisiologico della vite che in alcune varietà, come ad esempio l’uva sultanina, non produce semi. Negli ultimi anni, però, flotte di genetisti si sono messi al lavoro per selezionare, più o meno naturalmente, nuove varietà che combinassero il gusto dell’uva tradizionale con l’assenza del seme, in modo che l’eccezione diventasse la regola. Una sfida ambiziosa perché, rispetto agli altri prodotti, pone una difficoltà in più.
Generalmente per selezionare una nuova varietà vengono individuate due piante da incrociare, volgarmente il maschio e la femmina. Quest’ultima viene impollinata manualmente prelevando il polline maschile. Fin qui tutto nella norma.
La situazione, nel caso dell’uva apirene, si complica quando bisogna far nascere la pianta «figlia». Di solito questo avviene una volta che la pianta madre produce i suoi frutti, cioè i grappoli d’uva. Prendendo il seme dagli acini e interrandolo in un terreno sperimentale di qualche centro di ricerca sparso per il globo, il genetista, il breeder, resta in attesa che dia origine a una nuova pianta con le caratteristiche sperate. Parafrasando quella magnifica canzone per bambini scritta da Gianni Rodari e interpretata da Sergio Endrigo, «per fare un albero ci vuole il seme». Niente di più naturale.
Il problema è che l’acino d’uva nato dalla pianta madre il seme non ce l’ha. Per cui le fasi successive, generalmente svolte in campo, con l’uva apirene devono essere obbligatoriamente trasferite in laboratorio per estrarre l’embrione, che è ancora presente nell’acino della pianta figlia ma non è avvolto dal guscio legnoso tipico di un seme pienamente formato.
Al di là di questa apparente complicazione, che nel corso degli anni è stata superata da apparati tecnologici che rendono tutto più semplice, le uve senza semi sono ormai un prodotto di mercato consolidato. Le troviamo ovunque, dai supermercati ai mercati locali, passando per il fruttivendolo sotto casa.
Maurizio Ventura si definisce un pioniere dell’uva senza semi.
È la persona che tecnicamente viene definita un licensing manager, ovvero colui che dà le licenze agli agricoltori per coltivare le diverse varietà. Almeno quelle che sono di proprietà di Sun World, una delle aziende leader del mercato e di cui Ventura è responsabile per l’Europa. È la stessa azienda a raccontarsi con una certa magniloquenza, rivendicando come, a partire dagli anni Settanta, abbia «rivoluzionato il settore introducendo molti nuovi prodotti proprietari», ovvero brevettati. Ed effettivamente di frutti ne ha brevettati un numero considerevole, circa trecento.
Quando rintraccio Ventura, si dimostra subito molto disponibile. Ci diamo un appuntamento poche ore dopo su una piattaforma on line. Dopo i primi tentativi in cui l’audio non funziona e l’immagine sullo schermo salta ripetutamente, finalmente riusciamo a stabilizzare la comunicazione. Ventura mi risponde dal suo ufficio, una stanza all’apparenza molto asettica. Appesa alla parete alle sue spalle c’è una cartina geografica e, di fianco, un calendario in cui campeggia l’immagine, neanche a dirlo, di un grappolo d’uva.
Gli chiedo di raccontarmi l’andamento del mercato, di come stia evolvendo e del perché sia lui stesso a definirsi un pioniere. Molte delle sue risposte sono accompagnate da una risata fragorosa, le sue origini emiliane traspaiono in ogni parola che pronuncia. È un tipo verace che sa il fatto suo, penso.
«Le prime uve le abbiamo brevettate a partire dagli anni Novanta», racconta facendo riferimento alla Sugra-One, una delle prime varietà di uva senza semi messe in commercio.
Anche se a pronunciarlo sembra di parlare di sugar, ovvero di zucchero, il nome è proprio Sugra-One, e deriva dalla crasi di tre elementi: Su, che sta per Sun World, gra, che sta per grape (uva), e One, che è il numero progressivo assegnato alle varietà brevettate. Numero che negli anni è aumentato considerevolmente e che segna una prassi di molte aziende produttrici di uva senza semi: il nome di ogni varietà, diversamente da come succede per altri frutti, è accompagnato appunto da un numero progressivo.
«Già allora avremmo potuto chiedere le royalty», mi dice Ventura riferendosi agli anni in cui la varietà di uva apirene è stata immessa nel mercato. «Io ho iniziato a chiederle solo nei primi anni Duemila e siamo stati i primi», ribadisce con un certo orgoglio, sorridendo all’idea che in quegli anni «andava tutto bene» perché mancava la concorrenza. Poi mi racconta di un mercato che è destinato a non tornare indietro, convinto che «i miei nipoti non mangeranno mai uva con i semi». Sun World l’ha capito diversi anni fa e ha costruito un modello che ruota principalmente intorno a questo.
Naturalmente tale innovazione ha dei costi, mi spiega, ed «è giusto che venga corrisposto un riconoscimento economico a chi ha creato queste nuove varietà». Quando gli chiedo a quanto ammontino le royalty, scuote la testa. È indeciso se darmi una cifra che, teoricamente, potrebbe essere considerata riservata. Poi, allargandosi in un sorriso, mi dice: «Ma sì, tanto lo sanno tutti quanto si paga».
Così mi spiega che il prezzo cambia a seconda delle varietà ma che, in ogni caso, sono due le royalty da pagare: una per avere la pianta – il cui prezzo è di circa trenta centesimi per una varietà come Sugra-One – e una per il prodotto venduto. In questo caso parliamo di un prezzo minimo di cinque centesimi di dollaro per ogni chilo di uva venduta. Una bella cifra, se moltiplicata per le migliaia e migliaia di chili di uva venduti in tutto il mondo ogni anno. E che spiega il perché ci siano così tante aziende private che sono specializzate nel produrre e brevettare nuove varietà.
Se per la Sugra-One l’accesso è libero, se cioè qualsiasi agricoltore può andare in un vivaio, acquistare una pianta e coltivarla, diverso è il caso delle ultimissime varietà, per le quali invece, come succede per le mele e i kiwi, hanno deciso di restringere il campo trasformandole in prodotti club.
«In realtà ci sono tante varietà libere di uva senza semi», mi dice Ventura, quasi a voler sottolineare che non si è obbligati a stare alle regole del club. Per rimarcare questa affermazione mi parla di una varietà sviluppata in Sudafrica, la Regal Seedless, «una delle più coltivate in Puglia». Ma se è vero che si tratta di un’uva coltivabile da chiunque, è pur vero che – come ammette lo ste...