«Per chi è in Parlamento da tanti anni come me l’elezione del presidente della Repubblica rappresenta il momento più importante, è come partecipare alle Olimpiadi della politica.» Giorni e giorni per preparare la gara, tra continui vertici, incontri, riunioni, assemblee, trattative sottobanco, tanti possibili vincitori, pathos, tensioni, scontri all’arma bianca, intese siglate, patti che saltano, accordi che durano lo spazio di cinque minuti e poi si decide tutto all’ultima curva.
Anche per la scelta del tredicesimo capo dello Stato i colpi di scena non sono mancati. 28 gennaio, ore 19.53: «Conto che a breve ci sia un presidente donna» annuncia Matteo Salvini. «C’è finalmente la possibilità di un presidente donna» dice Giuseppe Conte cinque minuti più tardi. «Ho ascoltato le parole di Salvini e Conte in tv, non riuscivo a crederci.»
Dopo un incontro tra i leader della maggioranza il segretario della Lega e il presidente M5S annunciano la svolta. È fatta: Elisabetta Belloni, direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, è attesa alla Camera per incontrare i partiti. «Benvenuta alla signora Italia» festeggia con un tweet Beppe Grillo. «Il nome del capo dei servizi segreti girava già prima di Natale. Noi consideravamo quell’indiscrezione una boutade, una provocazione, una forzatura. C’era stata una presa di posizione netta da parte dei gruppi del Pd che avevano sottolineato a Letta la grande problematicità di questa candidatura.» Il segretario dem frena, non smentisce una possibile convergenza su quel nome, ma derubrica l’eventualità a una delle tante ipotesi in campo, fa filtrare che l’iniziativa dei massimi rappresentanti di Lega e M5S non era concordata. «La prima telefonata l’ho fatta alla senatrice Loredana De Petris di Leu, poi ho scambiato dei messaggi con Matteo Renzi, ho chiamato il senatore Antonio De Poli dell’Udc, ho contattato i vertici di Forza Italia e l’area di Luigi Di Maio.»
Ore 20.40: parte «una manovra coordinata con l’esposizione pubblica molto forte di Renzi» e «con un’azione decisamente incisiva e rilevante» di Forza Italia e della sinistra per bloccare una «candidatura che noi consideravamo impraticabile e pericolosa». Il primo a sostenere che non si può passare dai Servizi al Quirinale è il leader di Iv, per i dem è Andrea Marcucci ad affermare che non si possono votare candidati a scatola chiusa: «Lo strumento per impedire quella scelta era far capire che rischiava di venire bocciata dall’Aula. Ho avvertito con forza che i grandi elettori del Pd sarebbero stati contrari.»
Il fronte di chi considera inopportuna anche la sola eventualità di indicare l’ex segretario generale della Farnesina quale successore di Sergio Mattarella si salda in pochi minuti. «La reazione doveva essere immediata e drammatica. L’“operazione Belloni” aveva i piedi d’argilla, ma la partita sembrava conclusa. La ciliegina sulla torta è stata l’ostilità proveniente dalla gran parte del Movimento 5 Stelle.»
Infatti, in tarda serata insorge pure il ministro degli Esteri. «Trovo» sostiene «indecoroso buttare in pasto al dibattito pubblico un nome di così alto profilo.» Divisioni in M5S, distinzioni tra i dem. «Nel partito c’erano delle posizioni di debolezza e di forza. Il ministro Lorenzo Guerini è stato determinante. Qualcun altro, invece, ha tremato, è stato timoroso, incerto. C’è stato un breve momento in cui diversi “big” del Pd ritenevano ineluttabile la soluzione escogitata da Salvini e Conte, come se fosse stato inevitabile finire in quell’imbuto e in qualche modo bisognasse accomodarsi.»
Tra chi ha “tremato” non c’è Enrico Letta. «Forse inizialmente non c’è stata un’avversione rigorosa da parte sua, non è scontato che avrebbe avuto la forza di opporsi senza la spinta decisiva dei gruppi parlamentari. Tuttavia, al segretario do atto di aver sempre sostenuto una tesi: per portare in Aula un nome era necessario il consenso di tutta la coalizione di governo. Noi eravamo allineati a questa strategia: occorreva trovare un candidato presidente che rispondesse a tutta la maggioranza.» E l’ambasciatrice non lo era. «Una figura femminile qualificata, con una carriera strepitosa, con ottimi rapporti con tutto il mondo politico, con il profilo del civil servant per eccellenza a livello nazionale e internazionale. Sarebbe stata una grande novità, anche se non era molto nota all’opinione pubblica. C’era, però, un dato di fondo: in un Paese democratico il capo dei Servizi non solo non può diventare capo dello Stato, ma non può neanche essere candidato. Quell’apertura è stata una sgrammaticatura istituzionale che testimonia come i leader di grandi movimenti che hanno avuto successi elettorali importanti, e mi riferisco a Salvini e a Conte, non hanno ancora sensibilità istituzionale. Sulla Belloni non si poteva andare. Punto.»
E infatti nel giro di un paio d’ore salta tutto, anche se Giorgia Meloni denuncia «un fuoco di sbarramento inaudito» contro l’ipotesi di una donna al Colle.
«Quella trattativa mi ha fatto particolarmente rabbia proprio perché mi ha obbligato a intervenire contro una candidatura femminile. Il mio sogno iniziale, forse irrealizzabile, era quello di puntare su Anna Finocchiaro. Con lei avevo parlato, riteneva che non ci fossero le condizioni, ma per la sua capacità di equilibrio era una personalità politica adeguata a quel ruolo».
Alle 23 di un venerdì che «è stato tragico per tutta la politica italiana» si cambia cavallo. «Sono andato a letto felice anche perché sembrava fosse tornato in pista Pier Ferdinando Casini.» Due giorni prima in pole position era finito proprio l’ex presidente della Camera, dopo un incontro tra Renzi e Salvini al Senato e dopo una convergenza tra i centristi e Forza Italia che, su input di Silvio Berlusconi, avevano dato mandato al leader della Lega di esplorare quella strada.
«La prima “finestra” per Casini al Colle si era aperta alla terza votazione. Non era il primo nome di Letta, ma il segretario non aveva chiuso affatto: nella riunione con i grandi elettori aveva fatto capire che quell’ipotesi era possibile, aveva parlato di un profilo di mediazione, con la premessa che a quel compromesso avrebbe dovuto arrivarci tutta la maggioranza.» Ma sul senatore eletto a Bologna in un collegio uninominale storico della sinistra, una candidatura «indipendente che riscuoteva un apprezzamento a livello personale quasi unanime», non c’è il sì di Fratelli d’Italia.
«La difficoltà era convincere la Lega e il Movimento 5 Stelle. Ho parlato con Casini. Tra di noi c’è un’amicizia vera, consolidata nel tempo. Mi ha detto che i suoi incontri non erano andati male, ma che c’erano delle forti resistenze. È rimasto in ballottaggio fino alla fine, ma ancora una volta è stato Salvini a bruciarlo: la Lega con il fronte del Nord capitanato dai presidenti di regione non avrebbe retto. Peccato, sarebbe stata una vittoria del Parlamento, l’espressione della valorizzazione del lavoro di deputati e senatori. Noi lo abbiamo supportato. Non è stato Letta ad affondarlo.»
Il segretario del Pd in questa partita ha tenuto sempre la barra dritta sulla necessità di salvaguardare Mario Draghi nell’interesse del Paese. «Io ero assolutamente d’accordo sulla tesi di non escluderlo dalla partita, ma per discutere di quella prospettiva bisognava siglare un’intesa con le altre forze politiche sul suo sostituto a Palazzo Chigi e su un governo che avrebbe dovuto garantire il prosieguo della legislatura.»
Una trattativa su queste premesse non si è mai concretizzata, anche perché il premier si è attenuto alla Costituzione e non poteva essere lui a indicare un altro presidente del Consiglio. Per tutta la maggioranza era prioritario che continuasse l’azione dell’esecutivo. Una soluzione non si è mai individuata. «Sono un nonno a disposizione delle istituzioni» dice l’ex numero uno della BCE in conferenza stampa prima di Natale. La candidatura di Draghi è “morta” proprio in quel momento. Molti hanno interpretato quelle sue parole come un’esplicita discesa in campo.
La mossa che crea imbarazzo nella maggioranza e nell’opposizione è un’altra: «Dopo le prime votazioni il premier ha iniziato una sorta di giro di consultazioni con gli altri leader. È stata una forzatura». Contro l’ipotesi Draghi al Colle si alza il muro del Movimento 5 Stelle, ma è decisivo il no dei gruppi parlamentari soprattutto del centrodestra. «L’unica apertura, in maniera strumentale, è arrivata dalla Meloni che voleva le elezioni anticipate, ma Salvini e Berlusconi hanno tenuto il punto».
Per settimane il centrodestra ha puntato proprio sul Cavaliere. «Ho riconosciuto la legittimità di quella candidatura. Chi è stato presidente del Consiglio ha tutto il diritto di ambire al Quirinale. Tuttavia, non abbiamo mai considerato un rischio reale la possibilità che Berlusconi fosse eletto. Anzi, eravamo convinti, anche grazie alle interlocuzioni con gli alleati del presidente di FI, che quella candidatura in Aula non avrebbe avuto il consenso unanime del centrodestra. In ogni caso non c’erano le minime condizioni per un confronto. Avevamo identificato le caratteristiche che avrebbe dovuto avere il nuovo capo dello Stato, occorreva una personalità super partes e il profilo di Berlusconi non era certamente quello più adatto. Se il centrodestra avesse insistito su Berlusconi si sarebbe creata una frattura che difficilmente si sarebbe ricomposta. Avremmo fatto una battaglia in Aula insieme al Movimento 5 Stelle.»
Il centrodestra dopo giorni di tira e molla opta per altre opzioni: lancia una terna che comprende l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex ministro Letizia Moratti e il magistrato Carlo Nordio. «Il primo nome caro alla Lega, il secondo a FI, il terzo alla destra. Ma qual era la logica? Perché bruciare così quei nomi? Perché esporre in primo piano figure così importanti? Interrogativi ai quali non so rispondere. Mi viene il dubbio che ci fosse l’intenzione di azzerare la classe dirigente del Paese.»
È Salvini a intestarsi il ruolo di kingmaker. Si incarica di sentire gli altri leader, incontra tutti i segretari di partito, vede di persona i possibili candidati. Si reca a casa del costituzionalista Sabino Cassese. È stato «il punto più basso delle trattative del leader della Lega. Ha dato al Paese la sensazione di uno sbandamento generale. Non si poteva gettare nella mischia un nome così autorevole, con la consapevolezza che sarebbe stato massacrato nel tritacarne di quelle ore febbrili e convulse. È sbagliato il metodo: prima ci si confronta, si capisce se c’è l’eventualità di una convergenza e poi si fa il passo avanti. Invece da parte del segretario del Carroccio c’è stato un utilizzo strumentale di nomi importanti, in un modo irrazionale, non politico e soprattutto non istituzionale».
Tante sono le soluzioni vagliate dall’ex ministro dell’Interno. «Giampiero Massolo? Era un nome delle segrete stanze, era un uomo che aveva gestito i servizi segreti per tanto tempo. Franco Frattini? Un altro dei nomi bruciati in questa corsa spasmodica alla ricerca di un candidato del centrodestra. Nel momento in cui Salvini indicava un candidato di parte sapeva che lo faceva morire. Inspiegabile. Mi sono fatto poi una semplice domanda: Salvini è incapace a trattare, pressapochista o aveva un motivo oscuro per condurre la partita in quel modo?»
L’unico vero tentativo il centrodestra lo compie sul nome di Maria Elisabetta Casellati al quinto scrutinio. «Questo è un capitolo a parte perché, oltre alla spinta di FdI a misurarsi su un candidato dell’alleanza, lei ci ha messo del suo. Ha fatto di tutto per essere scelta, puntava ad avere al primo giro 450 voti per poi provare successivamente a convincere Italia viva, il Movimento 5 Stelle e gli ex pentastellati di Alternativa. Lo schema era quello di fare il pieno dei voti della coalizione e poi recuperare il gap.» La decisione del centrodestra di puntare sulla seconda carica dello Stato arriva dopo due vertici carichi di tensione. «FdI voleva dimostrare che c’erano i numeri per eleggere un candidato d’area. Salvini si è adeguato. Casellati si era mossa incontrando tutti, anche il sottoscritto. Non aveva capito, anche a causa di interlocuzioni non sincere da parte delle forze politiche che la sostenevano, che le condizioni per quella candidatura non c’erano.»
Il “blitz” viene sventato in Aula con la decisione di Pd, M5S, Iv e Leu di non partecipare alla votazione. «Bisognava intanto certificare l’avversione anche formale alla volontà di una parte politica di avanzare una propria candidatura chiaramente identificata. Ma soprattutto avere la certezza dell’impraticabilità dell’operazione del centrodestra. Occorreva eliminare potenziali sponde e far saltare eventuali accordi interpersonali che il presidente del Senato aveva stretto con chi temeva che l’impasse portasse al voto anticipato.» Casellati ottiene 382 voti, mancano all’appello 71 preferenze dal centrodestra, scoppia la bagarre nella coalizione. Meloni e Salvini accusano di tradimento i centristi e Forza Italia che vengono tagliati fuori dalle trattative del “Capitano” leghista e si coalizzano per controbilanciare il peso dei gruppi parlamentari del Carroccio, avanzando anche l’idea di una federazione. Ma a essere esclusa nel forcing finale è anche la presidente di FdI, Giorgia Meloni. Il segretario della Lega chiede un vertice di maggioranza: prima vede Renzi, poi incontra i leader di Pd, M5S e Leu.
«Le riunioni tra Letta, Conte e Speranza sono state sempre incentrate, su spinta del Pd, sull’esigenza di non fare rose, di lasciare al centrodestra l’iniziativa in modo che andasse a sbattere. Il segretario dem si è mosso in maniera intelligente, d’accordo con i gruppi: bisognava portare avanti tutte le azioni necessarie per impedire la logica salviniana della bandierina e utilizzare ogni strumento parlamentare per realizzare l’obiettivo. I nomi “coperti” c’erano – tra questi quello di Giuliano Amato –, ma sullo sfondo c’era sempre la prima nostra scelta».
Il 29 gennaio, dopo la trattativa notturna su una figura femminile – oltre al nome di Elisabetta Belloni, spuntano anche quelli dell’ex ministro Paola Severino e del guardasigilli Marta Cartabia –, alle 10.39 Salvini si presenta in Transatlantico e, tra lo sbigottimento dei cronisti, apre a una riconferma di Mattarella. «Piuttosto che andare avanti altri cinque giorni con i veti meglio andare su di lui, ma bisogna farlo con convinzione» osserva il leader della Lega. È la vera svolta.
«Sapevamo che il percorso che portava a Mattarella era complicato. I gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle e del Pd hanno avuto un ruolo decisivo. Con mia grande sorpresa e a testimonianza del loro percorso di maturazione, i pentastellati – prima i senatori, poi i deputati – hanno puntato convintamente su di lui. Forse dimenticando di non averlo votato sette anni fa e, anzi, di aver proposto in tempi lontani l’impeachment. La spinta è arrivata direttamente dal basso, non dai leader».
Con una progressione costante: 16 voti alla prima votazione di lunedì, 39 voti alla seconda, 125 alla terza, 166 al quarto scrutinio, al quinto – con il tentativo in atto sulla Casellati – 46, poi al sesto 336, al settimo 387, infine la fumata bianca, all’ottavo scrutinio con 759 voti.
«La verità è che, esattamente come dice la Costituzione, Mattarella lo ha voluto il Parlamento che ha riaffermato il suo ruolo. Mattarella ha sempre detto di no a cosa? A un mandato vincolato, a tempo determinato. Ha fatto capire che per il suo sì la condizione principale era che arrivasse una richiesta a larghissima maggioranza parlamentare.» L’ipotesi Mattarella bis è rimasta sempre sullo sfondo, anche se la prima carica dello Stato aveva preparato gli scatoloni e già preso in affitto un nuovo appartamento nel cuore di Roma. «Letta non ha mai nascosto che quella sarebbe stata la soluzione ideale. Ha voluto che prima si sparassero altri colpi che erano tutti a salve. Era la vera opzione per tutti noi. Non lo ha mai voluto tirare per la giacchetta, ha detto in pubblico e anche in privato nei suoi colloqui che per lui sarebbe stato il massimo poter rieleggere Mattarella.»
La “manina” dei leader dell’ex fronte rosso-giallo si scorge venerdì pomeriggio, alla sesta votazione. «L’indicazione ufficiale era di votare scheda bianca, ma si è dato il via libera a spingere verso quella direzione. Mi sono impegnato affinché si riducesse la portata dei voti in Parlamento, perché temevamo che Mattarella potesse essere eletto per caso, senza un’ampiezza di consensi e un’esposizione dei capi dei partiti. Ma ormai era chiaro quale fosse l’approdo, Salvini ci è arrivato, anche se tardi. C’è stata un’onda che ha travolto tutti i tatticismi e le titubanze dei leader della maggioranza.»
Un’onda che ha provocato uno tsunami in tutti gli schieramenti. «È stato un terremoto, come fu un terremoto l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro, come sono stati un terremoto la seconda elezione di Giorgio Napolitano e la prima di Sergio Mattarella.» Prima l’attacco di Di Maio a Conte: «Alcune leadership hanno fallito, bisogna aprire una discussione dentro M5S» la denuncia del responsabile della Farnesina. Poi l’affondo della Meloni per la condotta di Salvini: «Serve un chiarimento politico, ha negato in ogni vertice del centrodestra l’eventualità di convergere su Mattarella». La partita si chiude con una cerimonia festante alla Camera, il discorso del presidente della Repubblica viene interrotto per 52 volte dagli applausi dei grandi elettori.
«Il grande sconfitto è Salvini. Ha avuto un atteggiamento sconsiderato. Ha la responsabilità di aver fatto fare una pessima figura alla politica.» Giudizi non lusinghieri vanno agli altri protagonisti. Conte? «Un errore dietro l’altro, negli sbagli è secondo solo a Salvini. Ha giocato su due tavoli, ne abbiamo avuto consapevolezza strada facendo, non da subito. Non c’era bisogno che stringesse un rapporto privilegiato con il leader della Lega, non avremmo mai accettato una candidatura che avesse escluso il Movimento 5 Stelle.» Di Maio? «Si è mosso in maniera totalmente indipendente. Ha dimostrato di avere presa sulla maggioranza dei gruppi parlamentari M5S. Ma alla fine cosa ha portato a casa? È stato, però, importante per bloccare la candidatura della Belloni.» La Meloni? «Una partita giocata tutta sul rafforzamento di se stessa a danno del centrodestra, con una scelta da interpretare in prospettiva, ma molto rischiosa.» Si “salvano” Renzi: «Per la prima volta in vita sua ha dimostrato una capacità di misura che gli ha permesso di rientrare nei giochi della politica» e Berlusconi: «Con il suo senso di responsabilità è stato decisivo per la virata di FI su Mattarella. Dopo l’ubriacatura e l’eccitazione della candidatura ha recuperato giudizio ed è stato utile al Paese». “Promosso” anche Draghi. «A un certo punto ha capito di non essere più in campo e si è speso affinché si chiudesse l’intesa sulla conferma del capo dello Stato.»
Ma il “vincitore” delle “Olimpiadi della politica”, per Marcucci, è Letta. «Con la sua strategia attendista è uscito come il leader maggiormente responsabile. Ha saputo tenere unito il partito.» Fuori classifica Mattarella. «Un gigante, non ne ha sbagliata una. Ha un mandato pieno, con una richiesta del Parlamento, con il supporto del Paese, con un ruolo...