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Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
Intervista con Sergio Zavoli
Sergio Zavoli: Il rifiuto del cibo, nella forma morbosa e distruttiva che contrassegna l’anoressia, è un fenomeno della nostra epoca o ha radici lontane nel tempo?
Massimo Recalcati: La pratica del digiuno è stata per secoli, oltre che una misura di riequilibrio naturale del corpo, un motivo fondamentale presente in tutte le esperienze e le pratiche mistico-religiose. L’astensione dal cibo e dal piacere che esso procura rientrava nel contesto più generale della lotta tormentata dell’anima per emanciparsi dalle catene materiali del corpo. Da quella che Platone, in epoca precristiana, chiamava la «follia del corpo». L’etica della rinuncia e del sacrificio del piacere raggiunse il suo apice con l’affermazione della cultura cristiana. Piero Camporesi ha dedicato una delle sue opere più straordinarie, La carne impassibile, proprio all’indagine della cultura della mortificazione del corpo che ha animato gran parte del misticismo cristiano. La lotta a morte contro i piaceri sensibili occupa la vita del santo asceta fino allo stremo delle forze. Fino, appunto, alla sua consunzione anoressica. Nondimeno, nell’esperienza mistica — foss’anche di quella per la quale è difficile definire con precisione i confini tra l’ascesi spirituale e la patologia masochistica individuale — la mortificazione del corpo, la rinuncia e il sacrificio non sono mai pratiche fini a se stesse, ma consentono al mistico di impegnare tutto il suo essere per salvare la propria anima e, insieme alla sua anima, quella di tutti i peccatori dalla dannazione eterna, dalle fiamme dell’inferno. Il santo non agisce per se stesso, ma sacrifica se stesso per salvare una intera comunità dalla corruzione del peccato. Questo sacrificio del proprio io e del proprio corpo sensibile costituisce anche lo sfondo del tema medioevale della imitatio Christi: il santo cristiano rende il suo percorso spirituale simile a quello del Cristo crocifisso, sacrifica la propria vita individuale per salvare quella dei suoi fratelli. La pratica del digiuno fino all’estremo delle forze diventa una sindrome patologica solamente nel corso del Seicento e del Settecento e viene inquadrata nosograficamente come «anoressia» nella seconda metà dell’Ottocento a partire dalle divenute celebri descrizioni cliniche di William Gull e Ernest-Charles Lasègue.
Rispetto al rifiuto del cibo che può caratterizzare la via mistica, nel rifiuto anoressico viene totalmente smarrita la spinta alla espiazione dal peccato come missione e sacrificio per la salvezza degli altri che invece caratterizzava l’impresa del santo. Prevale, piuttosto, quella che Jean Olivier, in un testo del Seicento — Alphabet de l’imperfection et malice des femmes — citato da Piero Camporesi, definiva come una forma nuova, moderna, di peccato tipico del genere femminile. Si alludeva già all’ossessione di molte donne per la dieta e per la linea del corpo. Il sacrificio e la rinuncia auto-imposti non erano più i doni d’amore che il mistico offriva ai suoi simili per salvarli dal peccato, ma il prezzo che le donne di società dovevano pagare per mantenere l’immagine del proprio corpo adeguata all’ideale sociale della bellezza. In questo senso la rinuncia e il sacrificio del piacere dell’appetito non riflettevano alcuna vocazione mistica quanto piuttosto la passione estetica per la propria immagine. Peccato narcisistico, direbbe Freud, peccato dal quale le anoressiche d’oggi non sono certo immuni.
S. Zavoli: Per lungo tempo il rifiuto del cibo fino alla consunzione ha rappresentato una forma di malattia mentale nei confronti della quale la medicina si è dimostrata pressoché impotente. Ci sono oggi maggiori speranze di guarigione? Come spezzare la solitudine di chi è posseduto da questo istinto autodistruttivo?
M. Recalcati: L’impotenza della medicina e di certa psicoterapia cognitivo-comportamentale nella cura dell’anoressia-bulimia è dovuta al fatto che il malato da curare non è l’appetito. Il trattamento medico-farmacologico, come quello cognitivo-comportamentale dei cosiddetti disturbi dell’alimentazione, confonde fatalmente la causa con l’effetto. Si sforza di normalizzare una funzione alterata, di riequilibrare il rapporto tra il soggetto e il suo senso di fame e di sazietà e le sue abitudini alimentari. Il più delle volte però fallisce proprio perché la causa del disturbo alimentare non è di natura organica, né è riducibile in alcun modo all’alterazione di una funzione cosiddetta «normale». È difficile, infatti, dal punto di vista medico trovare una spiegazione razionale per quell’enigma che Freud aveva nominato come «pulsione di morte». Come si può spiegare in termini biochimici la tendenza di un soggetto a rifiutare di nutrirsi nonostante la fame, questa sì davvero divorante, fino all’inedia estrema, fino alla morte? Come si può spiegare la tendenza a mangiare e vomitare anche venti volte al giorno o quella a riempirsi di cibo fino a farsi scoppiare lo stomaco? In effetti, ci troviamo, qui, di fronte a un fenomeno tanto terribile quanto enigmatico. L’essere umano — e questo è uno degli insegnamenti fondamentali della psicoanalisi — non persegue mai prima di tutto il proprio bene. Anzi, se si vuole, la tendenza fondamentale degli esseri umani è proprio di cercare quello che a loro fa male. È ciò che Freud, al termine della sua opera, chiamava, appunto, «pulsione di morte»: l’essere umano è posseduto da una spinta incoercibile a perseguire un godimento che attenta alla sua stessa esistenza, una spinta che oltrepassa le cornici biologiche della protezione della vita. Ne vediamo una manifestazione clinica tanto esemplare quanto drammatica nell’anoressia, nella bulimia e in tutte le forme delle dipendenze patologiche: nella tossicomania e nell’alcolismo, ad esempio. In tutte queste situazioni il soggetto cerca affannosamente di raggiungere un godimento che non coincide col suo bene ma che si rivela, appunto, distruttivo, devastante, diabolico. Un godimento che diventa un padrone spietato e che obbliga il soggetto a una nuova schiavitù. La vera questione della cura è, allora, quella di come sia possibile fronteggiare questo godimento che è al di là di ogni principio di piacere. Come porre rimedio a questa pulsione mortifera? Problema che si complica ulteriormente se si considera che la scelta anoressica è di solito motivata dall’esigenza del soggetto di trovare un riparo proprio da questo godimento distruttivo. L’anoressia, infatti, funziona come una cura vera e propria, una cura autoindotta che il soggetto ha inventato per fronteggiare un proprio malessere di fondo, un malessere che, di solito, emerge nell’età prepuberale e adolescenziale in giovani smarrite e in crisi di fronte al grande compito di separarsi dall’«Altro» familiare.
S. Zavoli: Molte espressioni di sofferenza mentale vengono ricondotte a un rapporto disturbato con la figura materna, alla quale si rimproverano ora l’eccesso ora la carenza di attenzioni, di disponibilità, di amore: l’anoressia e la bulimia, da questo punto di vista, rappresenterebbero l’esplicitazione di un dramma antico, la manifestazione di un bisogno o di un rifiuto. E se invece un giorno si scoprisse che questo disturbo mentale ha origine organica, se la madre, designata come capro espiatorio di buona parte dei disordini comportamentali dei figli, venisse scientificamente assolta, la psicoanalisi dovrebbe essere riscritta?
M. Recalcati: Attualmente non esistono studi che confermino in modo preciso una causa organica di queste patologie. Ma credo che per la psicoanalisi non sia questo il punto. Il punto è che la psicoanalisi e le cosiddette neuroscienze intervengono in modi e su territori differenti e, aggiungerei, irriducibili. In alcuni casi si può constatare facilmente l’efficacia di un intervento farmacologico sul tono dell’umore, sulla regolazione del sonno, oppure, anche se molto raramente nella mia esperienza, sulla riduzione della fame bulimica. L’intervento medico-farmacologico agisce mediante il potere di certe sostanze chimiche. Il farmaco è giudicato capace di produrre determinati effetti terapeutici sul paziente. La clinica del farmaco si fonda su questa centralità della sostanza prescritta e sulla sua efficacia. La psicoanalisi, invece, non opera attraverso sostanze chimiche, ma solo mediante la parola, l’ascolto e il transfert, e considera decisivo non tanto verificare gli effetti terapeutici di una sostanza quanto, piuttosto, riuscire a condurre il soggetto a interrogarsi sul senso, sulla verità inconscia dei suoi sintomi, sui contenuti del rimosso, come si esprimerebbe Freud. L’efficacia di un’analisi non consiste nella somministrazione di una sostanza chimica ma in un’opera di traduzione dell’inconscio in conscio. In effetti la psicoanalisi, per quanto forse questa possa sembrare una formulazione un po’ retorica, non è una terapia come le altre perché è innanzitutto una ricerca della verità... Nondimeno esistono patologie, tra cui l’anoressia e la bulimia, che sembrano resistenti sia al trattamento farmacologico sia alla psicoanalisi. Alcuni psicoanalisti ritengono che il disagio anoressico-bulimico non sia analizzabile. Si tratterebbe cioè di un disagio refrattario per principio ai possibili benefici di una terapia psicoanalitica. Mara Selvini Palazzoli, per citare solo un nome autorevole in questo campo, è stata condotta proprio dalla sua esperienza di terapeuta di pazienti anoressiche a passare da un approccio individuale di tipo psicoanalitico classico a un lavoro di tipo sistemico sull’intera famiglia del paziente. Ella aveva cioè constatato l’inefficacia dell’applicazione classica della psicoanalisi individuale con questo genere di pazienti.
La mia opinione in proposito è che l’uso dell’interpretazione psicoanalitica con questo tipo di pazienti — spesso già fin troppo pieni di sapere «psicoanalitico» — non funziona come dovrebbe, non è lo strumento decisivo di una terapia condotta psicoanaliticamente. La ricerca del corpo magro dell’anoressica e la passione irrefrenabile per il cibo della bulimica sono, come tali, dei fenomeni psicopatologici non interpretabili, nel senso che nessuna interpretazione di senso può modificare o scalfire queste posizioni estreme del soggetto. Perché? Perché né la ricerca del corpo magro dell’anoressica né la passione per l’oggetto cibo della bulimica hanno quel tipico valore metaforico che Freud assegnava alla costituzione del sintomo in senso psicoanalitico. Per la psicoanalisi l’interpretazione semantica può essere efficace solo laddove vi siano dei sintomi che per il soggetto si sono costituiti secondo lo schema linguistico della metafora. Mi permetta di fare un semplice esempio. Prendiamo il caso dell’impotenza sessuale nell’uomo. Questo sintomo può metaforizzare un timore inconscio nei confronti di una madre fallica, cioè autoritaria, sopraffattrice, che ha impedito al soggetto di assumere una posizione virile nella vita. In questo caso avremmo a che fare con una metafora sintomatica dove un significante (l’impotenza sessuale) prende il posto di un significato rimosso (il timore verso la madre fallica). L’interpretazione sarà efficace se condurrà il soggetto a cogliere il senso inconscio del suo sintomo, dunque a tradurre il significato inconscio in un guadagno di consapevolezza. Al contrario, nell’anoressia e nella bulimia non sembra esserci nessun senso inconscio da ricercare. Tutto appare chiaro. L’anoressica tende, infatti, a non considerare l’anoressia come una malattia. Di qui la sua cosiddetta onnipotenza narcisistica… ovvero l’esatto contrario dell’impotenza! La bulimica, invece, soffre acutamente per il suo stato ma, come il tossicomane, attribuisce la causa della sua sofferenza solamente all’esistenza dell’oggetto-cibo. È il cibo che fa soffrire! È la droga che mi fa stare male! In questi casi pare che non vi sia niente da sapere. Tutto è evidente. «Basterebbe inventare un alimento ricco di sapore ma senza calorie per vincere la bulimia», mi disse un giorno una paziente bulimica. Anche in questo caso non c’è nessun significato inconscio da ricercare. Tutto sembra svolgersi alla luce del sole. Tutto sembra ruotare intorno al cibo e al peso. La difficoltà maggiore che incontriamo nell’impostare una cura psicoanalitica con queste pazienti consiste proprio nel rompere la certezza granitica che la malattia si riduca a un problema di peso o di cibo. Non è affatto facile condurre il soggetto a parlare davvero di sé! E ciò senza mai dimenticare che il rischio della morte è sempre in agguato e occorre vigilare con la più grande attenzione!
È vero, esisteva, ed esiste ancora, una letteratura che tende a individuare nel difetto (più o meno precoce) della relazione madre-figlia la causa determinante del disagio anoressico-bulimico. L’esperienza di un rapporto disturbato con l’Altro materno ricorre effettivamente molto spesso nella storia di queste pazienti, sia come eccessiva presenza dell’Altro che tende a soffocare, sia come un’indifferenza che lascia cadere. Ma questa oscillazione dell’Altro materno dell’anoressica-bulimica — dalla presenza soffocante all’indifferenza anaffettiva — non deve essere preso come un dato assoluto. Altrimenti, il rischio è quello di imputare alla madre la causa della patologia, o, meglio, di fare della madre la causa tout court, come se fosse il virus dell’anoressia... Le cose non stanno evidentemente così. Innanzitutto perché una madre è anche, oltre che la madre di una figlia, la donna di un uomo. E, dunque, il suo modo particolare di essere madre dipenderà in buona misura dal rapporto che ha stabilito con il proprio uomo. Ecco, infatti, che nelle famiglie dei pazienti anoressico-bulimici possiamo trovare spesso una relazione padre-madre (soprattutto una relazione uomo-donna) che non funziona.
Per tradurre questo punto complesso della teoria in immagini semplici, potrei dire che le due figure tipiche della famiglia anoressico-bulimica sono quelle della madre-coccodrillo e quella del padre-amante. La madre-coccodrillo divora il frutto del proprio ventre, lo tiene tra le fauci, non lo lascia andare, lo vuole tutto per sé. È la madre cannibalica che troviamo spesso nei sogni delle nostre pazienti e che assume le forme più terribili: balena divoratrice, orca tirannica, mangiatrice di fuoco, fiera insaziabile, tigre spaventosa, pattumiera vivente, aspiratutto gigante… È una madre che ha abolito totalmente il suo essere donna. Poiché come donna la sua esistenza ha subito degli scacchi profondi sarà come madre che cercherà di compensare i suoi fallimenti. Sarà allora una madre-tutta-madre. Alleverà, curerà, vestirà, parlerà alla sua creatura soffocandola di attenzioni solerti. Ma senza che nessuna di queste sia mai un vero dono d’amore. La sua preoccupazione sarà sempre quella di tenere tra le sue fauci ciò che vive come una sua proprietà esclusiva. Ecco perché Fabiola de Clercq, in Tutto il pane del mondo — un piccolo ma straordinario libro-testimonianza che ha reso veramente di dominio pubblico in Italia il problema di questa patologia, ha potuto definire l’anoressia come un’«antimadre». Perché solo grazie al rifiuto del nutrimento e delle cure è possibile separarsi da un Altro materno divoratore, affamato e senza desideri.
Il padre-amante indica, invece, l’effetto di un certo degrado della funzione paterna tipico della famiglia anoressico-bulimica. Questo, però, non va semplicemente inteso come una latitanza reale del padre. Il padre, in questi casi, c’è, ma fin troppo! Al punto da assegnare simbolicamente alla figlia la posizione che dovrebbe essere di pertinenza della madre. Ciò non indica di per sé l’esistenza di episodi di abuso sessuale di carattere incestuoso, anche se occorre segnalare come in queste pazienti si riscontrino molto di frequente episodi del genere, quanto piuttosto un’alterazione profonda del sistema familiare nel quale la coppia uomo-donna s’incarna in quella padre-figlia, con il declassamento, per lo più compiacente, della madre a «madre-tutta-madre». Il disorientamento che a questo punto può generarsi nella figlia è profondo. L’anoressia e la bulimia si profilano, allora, come una cura possibile, un modo per mettere in questione tutto il sistema familiare, per sottrarsi a un gioco relazionale pericoloso e per appellarsi a una sua possibile ridefinizione simbolica.
S. Zavoli: Fino a pochi anni fa l’anoressia era un disturbo specificamente femminile; in passato la donna utilizzava l’isteria per esprimere attraverso il corpo una sofferenza altrimenti muta perché socialmente non accettata e personalmente non consapevole. Oggi anoressia e bulimia non potrebbero esprimere in modi diversi un identico messaggio di protesta, di rifiuto, una, sia pur inconscia, richiesta di aiuto? Con il tempo questa malattia comincia a manifestarsi anche tra gli uomini. A che cosa è dovuto tale cambiamento? Forse, una volta indeboliti i tratti che a livello sociale identificavano il maschio, attenuate le differenze, appiattiti i privilegi, si sta determinando una più diffusa vulnerabilità?
M. Recalcati: A tutt’oggi sembra che il fenomeno riguardi ancora prevalentemente le donne. I casi di anoressia maschile sono rarissimi; più frequenti quelli di bulimia. Secondo la mia opinione l’anoressia e la bulimia sono effettivamente patologie che riguardano in modo particolare il mondo femminile per almeno tre ragioni di fondo. La prima: nella nostra civiltà l’essere di una donna è strettamente collegato al suo modo d’apparire. Il corpo magro è attualmente un canone estetico dominante. E per una donna la dimensione della bellezza e, più in generale, la cura dell’immagine del corpo resta una dimensione ancora decisiva per la sua affermazione personale. Le cose funzionano diversamente per gli uomini, per i quali le vie dell’affermazione personale non sono tanto quelle della bellezza e dell’apparenza, quanto, piuttosto, quelle dell’azione, del potere e della ricchezza. In una formula un po’ abusata, sono quelle dell’avere e non dell’essere. In questo senso aveva ragione Hilde Bruch, una delle maggiori studiose delle psicopatologie alimentari, nel rilevare, già qualche decennio fa, l’incidenza dell’industria della moda sul propagarsi dell’anoressia tra le giovani donne.
La seconda ragione è che lo sviluppo psicosessuale femminile non è uguale a quello maschile. Per il bambino, infatti, l’oggetto d’amore è sempre lo stesso e la madre ne costituisce la matrice fondamentale. L’interdetto paterno, la proibizione dell’incesto, lo sospinge a cercare al di fuori dell’orizzonte familiare il nuovo oggetto d’amore che, tra l’altro, per certi aspetti fondamentali non potrà non ricordare, come insegna Freud, il primo oggetto perduto. Nello sviluppo della bambina, invece, l’oggetto d’amore è obbligato a subire un cambiamento di fondo. Dapprima esso coincide con la madre, ma l’accesso alla sessualità femminile implica un mutamento supplementare: sarà il padre a costituire il nuovo oggetto d’amore. Questo sviluppo della bambina in due tempi rende inevitabile una separazione — che in fondo non avviene mai nel bambino — dal primitivo oggetto d’amore. L’oggetto d’amore deve essere perduto perché la bambina possa accedere all’eterosessualità. Separazione dolorosa perché rinunciare all’Altro materno significa perdere un sostegno narcisistico fondamentale. Non è un caso, allora, che nelle storie cliniche delle donne anoressico-bulimiche possiamo ritrovare con grande frequenza un rapporto irrisolto del soggetto con la madre, o la tendenza a vivere questo legame in modi fusionali; o, ancora più radicalmente, l’una e l’altra tendenza insieme. Non posso vivere né con lei né senza di lei. L’amore spietato verso la madre si intreccia con una spinta odiosa che sorge come effetto dell’estrema dipendenza del soggetto dall’Altro. In questa dipendenza ambivalente il soggetto finisce per perdere se stesso, come se fosse fagocitato dal suo Altro.
La terza e ultima ragione è che una donna per amore, per poter essere l’unica per l’Altro, è disposta a rischiare tutto. Un uomo affronta di solito il discorso amoroso in modo più calcolato e pianificato. Non rischierebbe mai tutto il suo essere per l’Altro. La logica maschile è, infatti, quella del possesso, della difesa e dell’accumulo; è la logica della proprietà. Noi diciamo, in termini psicoanalitici, che il godimento maschile tende a inscriversi entro una logica fallica che è una logica dell’accumulazione e dell’avere. La condizione della donna, al contrario, è assai diversa da quella della madre e dalla sua onnipotenza; è la condizione di un essere che «manca», di un essere che «non ha». Se la madre è l’espressione dell’avere — una madre dà al bambino ciò che ha — la donna è l’espressione del non av...