Elogio del fallimento
eBook - ePub

Elogio del fallimento

Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Elogio del fallimento

Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Massimo Recalcati, meditando sulla propria pratica clinica di psicoanalista, offre una visione lucida e appassionata del nostro tempo: in un mondo in cui prevale il culto della prestazione, l'esperienza del fallimento costituisce per il soggetto una concreta possibilità di trasformazione.Elogio del fallimento propone una serie di conversazioni svoltesi nelle circostanze più varie, su riviste e in trasmissioni radiofoniche, tra il 1998 e il 2011; i temi affrontati sono quelli del desiderio e del godimento, del disagio della giovinezza, delle anoressie-bulimie, delle mutazioni antropologiche in atto, della crisi diffusa del discorso educativo e del carattere onnipervasivo del discorso del capitalista.La tesi di fondo di Recalcati è che, in un mondo in cui prevale il culto della prestazione, l'esperienza del fallimento costituisca per il soggetto una concreta possibilità di trasformazione, che sia anzi per certi versi, in un'ottica psicoanalitica, la sola esperienza in grado di aprire inattesi orizzonti di senso.Attraverso Lacan, accostato qui al Pasolini luterano, Massimo Recalcati, meditando sulla propria pratica clinica di psicoanalista, offre una visione lucida e appassionata del nostro tempo e dei sintomi che lo rappresentano, insieme a una sintesi chiara ed efficace del proprio itinerario di ricerca che può considerarsi una prima introduzione generale al suo pensiero.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Elogio del fallimento di Massimo Recalcati in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Education e Education General. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Il Margine
Anno
2022
ISBN
9791259820693
Argomento
Education

1.

Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo1

Intervista con Sergio Zavoli
Sergio Zavoli: Il rifiuto del cibo, nella forma morbosa e distruttiva che contras­segna l’anoressia, è un fenomeno della nostra epoca o ha radici lontane nel tempo?
Massimo Recalcati: La pratica del digiuno è stata per secoli, oltre che una misura di riequilibrio naturale del corpo, un motivo fon­damentale presente in tutte le esperienze e le pratiche mistico-religiose. L’astensione dal cibo e dal piacere che esso procura rien­trava nel contesto più generale della lotta tormentata dell’anima per emanciparsi dalle catene materiali del corpo. Da quella che Platone, in epoca precristiana, chiamava la «follia del corpo». L’etica della rinuncia e del sacrificio del piace­re raggiunse il suo apice con l’affermazione della cultura cristiana. Piero Camporesi ha dedicato una delle sue ope­re più straordinarie, La carne impassibile, proprio all’inda­gine della cultura della mortificazione del corpo che ha animato gran parte del misticismo cristiano. La lotta a morte contro i piaceri sensibili occupa la vita del santo asceta fino allo stremo delle forze. Fino, appunto, alla sua con­sunzione anoressica. Nondimeno, nell’esperienza mistica — foss’anche di quella per la quale è difficile definire con precisione i confini tra l’ascesi spirituale e la patologia masochistica individuale — la mortificazione del corpo, la rinuncia e il sacrificio non sono mai pratiche fini a se stesse, ma consentono al mistico di impegnare tutto il suo essere per salvare la propria anima e, insieme alla sua anima, quella di tutti i peccatori dalla dannazione eterna, dalle fiamme dell’inferno. Il santo non agisce per se stesso, ma sacrifica se stesso per salvare una intera comunità dalla corruzione del peccato. Questo sacrificio del proprio io e del proprio corpo sensibile costituisce anche lo sfondo del tema medioevale della imitatio Christi: il santo cristiano rende il suo percor­so spirituale simile a quello del Cristo crocifisso, sacrifica la propria vita individuale per salvare quella dei suoi fratelli. La prati­ca del digiuno fino all’estremo delle forze diventa una sindrome pa­tologica solamente nel corso del Seicento e del Settecento e viene inquadrata nosograficamente come «anoressia» nella seconda metà dell’Ottocento a partire dalle divenute celebri descri­zioni cliniche di William Gull e Ernest-Charles Lasègue.
Rispetto al rifiuto del cibo che può caratterizzare la via mistica, nel rifiuto anoressico viene totalmente smar­rita la spinta alla espiazione dal peccato come missione e sacrificio per la salvezza degli altri che invece caratterizzava l’impresa del santo. Prevale, piuttosto, quella che Jean Olivier, in un testo del Seicento — Alphabet de l’imperfection et malice des femmes — citato da Piero Camporesi, definiva come una for­ma nuova, moderna, di peccato tipico del genere femminile. Si alludeva già all’ossessione di molte donne per la dieta e per la linea del corpo. Il sacrificio e la rinuncia auto-imposti non erano più i doni d’amore che il mistico offriva ai suoi simili per salvarli dal peccato, ma il prezzo che le donne di società dovevano pagare per mantenere l’immagine del proprio corpo adeguata all’ideale sociale della bellez­za. In questo senso la rinuncia e il sacrificio del piacere del­l’appetito non riflettevano alcuna vocazione mistica quanto piuttosto la passione estetica per la propria immagine. Pec­cato narcisistico, direbbe Freud, peccato dal quale le ano­ressiche d’oggi non sono certo immuni.

S. Zavoli:
Per lungo tempo il rifiuto del cibo fino alla consunzione ha rappresentato una forma di malattia mentale nei confronti della quale la medicina si è dimostrata pressoché impotente. Ci sono oggi maggiori speranze di guarigione? Come spezzare la solitu­dine di chi è posseduto da questo istinto autodistruttivo?
M. Recalcati: L’impotenza della medicina e di certa psicoterapia cognitivo-comportamentale nella cura dell’anoressia-­bulimia è dovuta al fatto che il malato da curare non è l’appetito. Il trattamento medico-farmacologico, come quello cognitivo-comportamentale dei cosiddetti disturbi dell’alimentazione, confonde fatalmente la causa con l’effetto. Si sforza di normaliz­zare una funzione alterata, di riequilibrare il rapporto tra il soggetto e il suo senso di fame e di sazietà e le sue abitudini alimentari. Il più­ delle volte però fallisce proprio perché la causa del disturbo ali­mentare non è di natura organica, né è riducibile in alcun modo all’alterazione di una funzione cosiddetta «normale». È difficile, infatti, dal punto di vista medico trovare una spiegazione razio­nale per quell’enigma che Freud aveva nominato come «pulsione di morte». Come si può spiegare in termini biochimici la tendenza di un soggetto a rifiutare di nutrirsi nonostante la fame, questa sì davve­ro divorante, fino all’inedia estrema, fino alla morte? Come si può spiegare la tendenza a mangiare e vomitare anche venti volte al giorno o quella a riempirsi di cibo fino a farsi scoppiare lo stomaco? In effetti, ci troviamo, qui, di fronte a un fenomeno tanto ter­ribile quanto enigmatico. L’essere umano — e questo è uno degli insegnamenti fondamentali della psicoanalisi — non persegue mai prima di tutto il proprio bene. Anzi, se si vuole, la tendenza fondamentale degli esseri umani è proprio di cercare quello che a loro fa male. È ciò che Freud, al termine del­la sua opera, chiamava, appunto, «pulsione di morte»: l’essere uma­no è posseduto da una spinta incoercibile a perseguire un godimento che attenta alla sua stessa esistenza, una spinta che oltrepassa le cornici biologiche della protezione della vita. Ne vediamo una manifestazione clinica tanto esemplare quanto drammatica nell’anoressia, nella bulimia e in tutte le forme delle dipendenze patologiche: nella tossicomania e nell’alcolismo, ad esempio. In tutte queste situazioni il soggetto cerca affannosamente di raggiungere un godimento che non coincide col suo bene ma che si rivela, appunto, distrutti­vo, devastante, diabolico. Un godimento che diventa un padrone spietato e che obbliga il soggetto a una nuova schiavitù. La vera questione della cura è, allora, quella di come sia possibile fronteggiare questo godimento che è al di là di ogni principio di piacere. Come porre rimedio a questa pulsione mortifera? Problema che si complica ulteriormente se si considera che la scelta anoressica è di solito motivata dal­l’esigenza del soggetto di trovare un riparo proprio da questo godi­mento distruttivo. L’anoressia, infatti, funziona come una cura vera e propria, una cura autoindotta che il soggetto ha inventato per fronteggiare un proprio malessere di fondo, un males­sere che, di solito, emerge nell’età prepuberale e adole­scenziale in giovani smarrite e in crisi di fronte al grande compito di separarsi dall’«Altro» familiare.

S. Zavoli:
Molte espressioni di sofferenza mentale vengono ricondotte a un rapporto disturbato con la figura materna, alla quale si rim­proverano ora l’eccesso ora la carenza di attenzioni, di disponi­bilità, di amore: l’anoressia e la bulimia, da questo punto di vi­sta, rappresenterebbero l’esplicitazione di un dramma antico, la manifestazione di un bisogno o di un rifiuto. E se invece un giorno si scoprisse che questo disturbo mentale ha origine orga­nica, se la madre, designata come capro espiatorio di buona par­te dei disordini comportamentali dei figli, venisse scientifica­mente assolta, la psicoanalisi dovrebbe essere riscritta?
M. Recalcati: Attualmente non esistono studi che confermino in mo­do preciso una causa organica di queste patologie. Ma credo che per la psicoanalisi non sia questo il punto. Il punto è che la psicoanalisi e le cosiddette neuroscienze in­tervengono in modi e su territori differenti e, aggiungerei, irriducibili. In alcuni casi si può constatare facilmente l’ef­ficacia di un intervento farmacologico sul tono dell’umo­re, sulla regolazione del sonno, oppure, anche se molto raramente nella mia esperienza, sulla riduzione della fa­me bulimica. L’intervento medico-farmacologico agisce mediante il potere di certe sostanze chimiche. Il farmaco è giudicato capace di produrre determinati effetti terapeutici sul paziente. La clinica del farmaco si fonda su questa centralità della so­stanza prescritta e sulla sua efficacia. La psicoanalisi, invece, non opera attraverso sostanze chimiche, ma solo mediante la parola, l’ascolto e il transfert, e considera decisivo non tanto verificare gli effetti terapeutici di una sostanza quan­to, piuttosto, riuscire a condurre il soggetto a interrogarsi sul senso, sulla verità inconscia dei suoi sintomi, sui contenuti del rimosso, come si esprimerebbe Freud. L’efficacia di un’analisi non consiste nella somministrazione di una sostanza chimica ma in un’opera di traduzione dell’inconscio in conscio. In effetti la psicoanalisi, per quanto forse questa possa sembrare una formulazione un po’ retorica, non è una terapia come le altre perché è innanzitutto una ricerca della verità... Nondimeno esi­stono patologie, tra cui l’anoressia e la bulimia, che sem­brano resistenti sia al trattamento farmacologico sia alla psicoanalisi. Alcuni psicoanalisti ritengono che il disa­gio anoressico-bulimico non sia analizzabile. Si tratterebbe cioè di un disagio refrattario per principio ai possibili benefici di una terapia psicoanalitica. Mara Sel­vini Palazzoli, per citare solo un nome autorevole in questo campo, è stata condotta proprio dalla sua esperienza di terapeuta di pazienti anoressiche a passare da un approccio individuale di tipo psicoana­litico classico a un lavoro di tipo sistemico sull’intera fa­miglia del paziente. Ella aveva cioè constatato l’inefficacia dell’applicazione classica della psicoanalisi individuale con questo genere di pazienti.
La mia opinione in proposito è che l’uso dell’interpretazione psicoanalitica con que­sto tipo di pazienti — spesso già fin troppo pieni di sapere «psicoanalitico» — non funziona come dovrebbe, non è lo strumento decisivo di una terapia condotta psicoanaliticamente. La ricerca del corpo ma­gro dell’anoressica e la passione irrefrenabile per il cibo della bulimica sono, come tali, dei fenomeni psicopatologici non interpretabili, nel sen­so che nessuna interpretazione di senso può modificare o scalfire queste posizioni estreme del soggetto. Perché? Perché né la ricerca del corpo magro dell’anoressica né la passione per l’oggetto cibo della bulimica hanno quel tipico va­lore metaforico che Freud assegnava alla costituzione del sintomo in senso psicoanalitico. Per la psicoanalisi l’interpretazione semantica può essere effi­cace solo laddove vi siano dei sintomi che per il soggetto si sono costituiti secondo lo schema linguistico della me­tafora. Mi permetta di fare un semplice esempio. Prendiamo il caso dell’impotenza sessuale nel­l’uomo. Questo sintomo può metaforizzare un timore inconscio nei con­fronti di una madre fallica, cioè autoritaria, sopraffattrice, che ha impedito al soggetto di assumere una posizione virile nella vita. In questo caso avremmo a che fare con una metafora sinto­matica dove un significante (l’impotenza sessuale) prende il posto di un significato rimosso (il timore verso la madre fallica). L’interpretazione sarà efficace se condurrà il sog­getto a cogliere il senso inconscio del suo sintomo, dunque a tradurre il significato inconscio in un guadagno di consapevolezza. Al con­trario, nell’anoressia e nella bulimia non sembra esserci nessun senso inconscio da ricercare. Tutto appare chiaro. L’ano­ressica tende, infatti, a non considerare l’anoressia come una malattia. Di qui la sua cosiddetta onnipotenza narci­sistica… ovvero l’esatto contrario dell’impotenza! La bulimica, in­vece, soffre acutamente per il suo stato ma, come il tossi­comane, attribuisce la causa della sua sofferenza solamente all’esistenza dell’oggetto-cibo. È il cibo che fa soffrire! È la droga che mi fa stare male! In questi casi pare che non vi sia niente da sapere. Tutto è evidente. «Basterebbe inventare un alimento ricco di sapore ma senza calorie per vincere la bulimia», mi disse un giorno una paziente bulimica. An­che in questo caso non c’è nessun significato inconscio da ricercare. Tutto sembra svolgersi alla luce del sole. Tutto sembra ruotare intorno al cibo e al peso. La difficoltà mag­giore che incontriamo nell’impostare una cura psicoanali­tica con queste pazienti consiste proprio nel rompere la certezza granitica che la malattia si riduca a un problema di peso o di cibo. Non è affatto facile condurre il soggetto a parlare davvero di sé! E ciò senza mai dimenticare che il rischio della morte è sempre in agguato e occorre vigilare con la più grande attenzione!
È vero, esisteva, ed esiste ancora, una letteratura che tende a individuare nel difetto (più o meno precoce) della relazione madre-figlia la causa determinante del disagio anoressico-bulimico. L’esperienza di un rapporto distur­bato con l’Altro materno ricorre effettivamente molto spesso nella storia di queste pa­zienti, sia come eccessiva presenza dell’Altro che tende a soffocare, sia come un’indifferen­za che lascia cadere. Ma questa oscil­lazione dell’Altro materno dell’anoressica-bulimica — dalla presenza soffocante all’indifferenza anaffettiva — non deve essere preso come un dato assolu­to. Altrimenti, il rischio è quello di imputare alla madre la causa della patologia, o, meglio, di fare della madre la causa tout court, come se fosse il virus dell’anoressia... Le cose non stanno evidentemente così. Innanzitutto perché una madre è anche, oltre che la madre di una figlia, la donna di un uomo. E, dunque, il suo modo particolare di essere madre dipenderà in buona misura dal rapporto che ha stabilito con il proprio uomo. Ecco, infatti, che nelle famiglie dei pazienti anoressico-bulimici possiamo trovare spesso una relazione padre-madre (soprattutto una relazione uomo-donna) che non funziona.
Per tradurre questo punto complesso della teoria in im­magini semplici, potrei dire che le due figure tipiche della famiglia anoressico-bulimica sono quelle della madre-coccodrillo e quella del padre-amante. La madre-coccodrillo divora il frutto del proprio ven­tre, lo tiene tra le fauci, non lo lascia andare, lo vuole tutto per sé. È la madre cannibalica che troviamo spesso nei so­gni delle nostre pazienti e che assume le forme più terribi­li: balena divoratrice, orca tirannica, mangiatrice di fuoco, fiera insaziabile, tigre spaventosa, pattumiera vivente, aspiratutto gigante… È una madre che ha abolito totalmente il suo essere donna. Poiché come donna la sua esistenza ha subito degli scacchi profondi sarà come madre che cercherà di com­pensare i suoi fallimenti. Sarà allora una madre-tutta-madre. Al­leverà, curerà, vestirà, parlerà alla sua creatura soffocan­dola di attenzioni solerti. Ma senza che nessuna di queste sia mai un vero dono d’amore. La sua preoccupazione sarà sempre quella di tenere tra le sue fauci ciò che vive come una sua proprietà esclusiva. Ecco perché Fabiola de Clercq, in Tut­to il pane del mondo — un piccolo ma straordinario libro-te­stimonianza che ha reso veramente di dominio pubblico in Italia il problema di questa patologia, ha potuto definire l’a­noressia come un’«antimadre». Perché solo grazie al rifiuto del nutrimento e delle cure è possibile separarsi da un Al­tro materno divoratore, affamato e senza desideri.
Il padre-amante indica, invece, l’effetto di un certo de­grado della funzione paterna tipico della famiglia anoressico-bu­limica. Questo, però, non va semplicemente inteso come una latitanza reale del padre. Il padre, in questi casi, c’è, ma fin troppo! Al punto da assegnare simbolicamente alla fi­glia la posizione che dovrebbe essere di pertinenza della madre. Ciò non indica di per sé l’esistenza di episodi di abuso sessuale di carattere incestuoso, anche se occorre segnalare come in queste pazienti si riscontrino molto di frequente episodi del genere, quanto piuttosto un’alterazione profonda del sistema familiare nel quale la coppia uomo-donna s’incarna in quella padre-figlia, con il declassamento, per lo più compiacente, della madre a «madre-tutta-madre». Il disorientamento che a questo punto può generarsi nella figlia è profondo. L’anoressia e la bulimia si profilano, allora, come una cura possibile, un modo per mettere in questione tutto il sistema familiare, per sottrarsi a un gioco relazionale pericoloso e per appellarsi a una sua possibile ridefinizione simbolica.

S. Zavoli:
Fino a pochi anni fa l’anoressia era un disturbo specificamen­te femminile; in passato la donna utilizzava l’isteria per espri­mere attraverso il corpo una sofferenza altrimenti muta perché socialmente non accettata e personalmente non consapevole. Oggi anoressia e bulimia non potrebbero esprimere in modi di­versi un identico messaggio di protesta, di rifiuto, una, sia pur inconscia, richiesta di aiuto? Con il tempo questa malattia comincia a manifestarsi anche tra gli uomini. A che cosa è dovuto tale cambiamento? Forse, una volta indeboliti i tratti che a livello sociale identificavano il maschio, attenuate le differenze, appiattiti i privilegi, si sta de­terminando una più diffusa vulnerabilità?
M. Recalcati: A tutt’oggi sembra che il fenomeno riguardi ancora prevalente­mente le donne. I casi di anoressia maschile sono rarissi­mi; più frequenti quelli di bulimia. Secondo la mia opinione l’anoressia e la bulimia sono effettivamente pa­tologie che riguardano in modo particolare il mondo fem­minile per almeno tre ragioni di fondo. La prima: nella nostra civiltà l’essere di una donna è strettamente collegato al suo modo d’apparire. Il corpo magro è attualmente un ca­none estetico dominante. E per una don­na la dimensione della bellezza e, più in generale, la cura dell’immagine del corpo resta una dimensione ancora decisiva per la sua affermazione personale. Le cose funzionano diversamen­te per gli uomini, per i quali le vie dell’affermazione per­sonale non sono tanto quelle della bellezza e dell’appa­renza, quanto, piuttosto, quelle dell’azione, del potere e della ricchezza. In una formula un po’ abusata, sono quelle dell’avere e non dell’essere. In questo senso aveva ragione Hilde Bru­ch, una delle maggiori studiose delle psicopatologie alimentari, nel rilevare, già qualche decennio fa, l’incidenza dell’industria della moda sul propagarsi dell’anoressia tra le giovani donne.
La seconda ragione è che lo sviluppo psicosessuale femminile non è uguale a quello maschile. Per il bambino, infatti, l’oggetto d’amore è sempre lo stesso e la madre ne costituisce la matrice fondamentale. L’interdetto paterno, la proibizione dell’incesto, lo sospinge a cercare al di fuori dell’orizzonte familiare il nuovo oggetto d’amore che, tra l’altro, per certi aspetti fondamentali non potrà non ricordare, come insegna Freud, il primo oggetto perduto. Nello sviluppo della bambina, invece, l’oggetto d’amore è obbligato a subire un cambiamento di fondo. Dapprima es­so coincide con la madre, ma l’accesso alla sessualità fem­minile implica un mutamento supplementare: sarà il padre a costituire il nuovo oggetto d’amore. Questo sviluppo della bambina in due tempi rende inevitabile una separazione — che in fondo non avviene mai nel bambino — dal primitivo oggetto d’amore. L’oggetto d’amore deve essere perduto perché la bambina possa accedere all’eterosessualità. Separazione dolorosa perché rinunciare all’Altro materno significa perdere un sostegno narcisistico fonda­mentale. Non è un caso, allora, che nelle storie cliniche delle donne anoressico-bu­limiche possiamo ritrovare con grande frequenza un rapporto irrisolto del soggetto con la madre, o la tendenza a vivere questo legame in modi fusionali; o, ancora più radicalmente, l’una e l’altra tendenza insieme. Non posso vivere né con lei né senza di lei. L’amore spietato verso la madre si intreccia con una spinta odiosa che sorge come effetto dell’estrema dipendenza del soggetto dall’Altro. In questa dipendenza ambivalente il soggetto finisce per perdere se stesso, come se fosse fagocitato dal suo Altro.
La terza e ultima ragione è che una donna per amore, ­per poter essere l’unica per l’Altro, è disposta a rischiare tutto. Un uomo affronta di solito il discorso amo­roso in modo più calcolato e pianificato. Non rischierebbe mai tutto il suo essere per l’Altro. La logica maschile è, infatti, quella del possesso, della difesa e dell’accumulo; è la logi­ca della proprietà. Noi diciamo, in termini psicoanalitici, che il godimento maschile tende a inscriversi entro una logica fallica che è una logica dell’accumulazione e dell’avere. La condizione della donna, al contrario, è assai diversa da quella della madre e dalla sua onnipoten­za; è la condizione di un essere che «manca», di un essere che «non ha». Se la madre è l’espressione dell’avere — una madre dà al bambino ciò che ha — la donna è l’espressione del non av...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. prima parte: Interviste e dibattiti
  3. 1. Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
  4. 2. Intorno alla Clinica del vuoto
  5. 3. Angoscia e anoressie
  6. 4. L’anoressia come malattia ipermoderna
  7. 5. La sublimazione non è il paradiso
  8. 6. La fragilità ipermoderna
  9. 7. A margine de L’uomo senza inconscio
  10. seconda parte: Radiofonia
  11. 8. Il malessere contemporaneo
  12. 9. Il disagio della giovinezza
  13. 10. L’adolescenza di oggi e i nuovi sintomi
  14. 11. Il soggetto ipermoderno è senza inconscio
  15. 12. Liquidità e solidità: due facce dell’uomo senza inconscio
  16. 13. Quel che resta del Padre
  17. terza parte: Marginalia
  18. La mia formazione e il mio rapporto con la psicoanalisi
  19. Introduzione a Che cos’è Lacan?
  20. Il Nome del Padre ha avuto per me il Nome di una donna
  21. Bibliografia
  22. Ringraziamenti