I grandi classici del romanzo gotico
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I grandi classici del romanzo gotico

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I grandi classici del romanzo gotico

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Sono gli anni della Belle Époque. Cesare Dias, un signorotto napoletano egoista, cinico e snob, sposa la bella e malinconica Anna, che lo ama profondamente, ma presto la tradisce con la sorella di lei, Laura, una ragazza frivola e capricciosa. Dopo avere scoperto il tradimento, Anna si toglie la vita. Cesare non riesce a dimenticare e a perdonare se stesso e la propria amante, che dopo averlo perseguitato con la sua passione ossessiva, lo obbliga a sposarla, costringendolo a un matrimonio infelice. Ma un giorno, a Firenze, Cesare intravede in una carrozza una donna identica in tutto e per tutto ad Anna. È Hermione, duchessa di Cleveland, donna bellissima, colta, libera e sfuggente. Ma Hermione è davvero Hermione? La sua presenza, come uno spettro emerso dal regno dell'oltretomba, si aggira tra i personaggi del romanzo con il suo fascino ambiguo e misterioso, tormentandoli con un interrogativo fatale: è possibile che una creatura ormai scomparsa ritorni su questa terra per ottenere vendetta o per trovare la pace e il riscatto dalle sofferenze che ebbe in vita?Matilde Serao, con la sua scrittura intrisa di sfumature decadenti e d'impronta dannunziana, trasferisce le atmosfere nordiche del romanzo gotico in ambito mediterraneo, entro una Napoli e una Firenze tanto solari e aristocratiche, quanto dominate dal fascino del mistero e della morte. Una narrazione che ancora oggi è in grado di affascinare e rapire con le sue atmosfere lussureggianti di stampo ottocentesco e tardo romantico.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788898790661

VI

Il giorno seguente alle sue nozze con Laura, Cesare Dias aveva ricevuto da Roma il seguente telegramma:
«Cesare Dias. Napoli – Apprendo soltanto adesso che mi cercate da molto tempo. Sono a vostra disposizione, qui, Hôtel Europe – Luigi Caracciolo».
Cesare Dias aveva immediatamente risposto:
«Luigi Caracciolo. Hôtel Europe, Roma – Parto oggi stesso, aspettatemi domattina – Cesare Dias».
Così, dopo aver letto il dispaccio esplicito di Caracciolo, dopo avergli risposto, Cesare Dias ebbe il senso che tutto fosse oramai deciso, nella sua vita: e che l’ultimo problema fosse risoluto. Risoluto, come? Chi sa? Non gl’importava. Assai aveva vagabondato il suo spirito, dopo la morte di Anna, quasi sfogando tutto il bisogno imperioso di fantasticare che in ognuno esiste e che gli uomini aridi reprimono, ignorando il grande pericolo di queste soffocazioni: ma nelle torbide evoluzioni della fantasia, ma nelle tetraggini della immaginazione che fu colpita da un tragico aspetto, egli aveva conservata l’idea precisa, chiara: la insopportabilità del tradimento di Anna – e insieme con questa nitida idea, la sola, l’assoluta necessità della vendetta contro chi lo aveva tradito. Che gli premeva, dunque, la forma come si sarebbe risoluto il problema? Aveva ritrovato Luigi Caracciolo, il solo uomo che lo interessasse, nel mondo: fra un giorno, fra due, al più tardi, avrebbe tenuto il suo nemico, il suo avversario, innanzi a sé, l’arme alla mano, volendo ucciderlo, o ben deciso a farsene uccidere. Tanto ribrezzo, un tempo, aveva avuto della morte, Cesare Dias! Il suo delicato e scellerato egoismo non aveva temuto che questa terribile cosa, la morte, non vivere più, non vedere più lo spettacolo delle bellissime cose umane, non godere più, cedere alla fossa, alla putrefazione, ai vermi, a questa fine sporca e ignobile. Ora, questa segreta e persistente paura, o piuttosto questo ribrezzo della morte era sparito da lui: e senza chiederla, senza invocarla, egli le andava incontro, a questa morte, senza gioia e senza spavento, trovandola una soluzione naturale. Oh certo, certo, era meglio poter mettere la propria spada nel petto di un uomo come Luigi Caracciolo, quando quest’uomo aveva stretto al petto sua moglie: era una voluttà intensa veder fuggire, da una piccola ferita, tutto il sangue e tutta la vita di un nemico – ma il colpo di spada che avrebbe potuto ucciderlo, lui, Cesare, gli sembrava un mezzo così tranquillo di uscire da tutte le sue miserie spirituali e dalle torture di una esistenza in comune con Laura! Uccidere Luigi, che infinita, inebbriante soddisfazione, è vero: ma dopo, che avrebbe fatto della sua vita, Cesare, trascinando tutto l’irrimediabile turbamento di una doppia tragedia, portandosi accanto il testimonio vivente del passato, sentendo ogni giorno farsi più aspra la lotta fra loro due? E non sapea più, Cesare Dias, quale fosse più saggia, la risoluzione del problema: né vi si fermò più, volendo lasciar fare al destino. Egli aveva chiesto al destino di trovargli Caracciolo: ecco, era trovato. Bastava. Che era il resto? Il resto era silenzio.
Nella mattinata, senza neanche occuparsi della sua seconda moglie, anzi, evitando di chiederne conto, egli fece i suoi bagagli e scrisse un biglietto a Giulio Carafa di venire, per due giorni a Roma, con Marco Palliano, poiché egli aveva un affare con Luigi Caracciolo e desiderava che si compisse con la massima segretezza, quindi non voleva affidarsi a qualche gentiluomo romano, suo amico.
Li pregava con termini così urgenti, che Giulio Carafa, malgrado il disturbo che gli recava questa gita a Roma, nell’ottobre, intesa la gravità della domanda, scrisse a Cesare che lui e Palliano sarebbero partiti la sera per Roma e che speravano poter accomodare la faccenda. Di rimando, egli ringraziò: ma pregava, senz’altro, pregava che il suo affare con Caracciolo non fosse accomodato per nulla; essi dovevano capire che non si trattava di una lite al giuoco, di un urtone sul campo delle corse: era un fatto serio, inutile di raccontarlo, lo conoscevano, dovea finire soltanto con un duello. Giulio Carafa rispose sta bene. In tale scambio di lettere e in altre piccole faccende da sbrigare, nel lacerare una quantità di carte, nello scrivere una lettera testamento al suo uomo di affari, Cesare consumò la sua mattinata. Non avea chiuso occhio, dopo la tormentosa veglia con Laura e alle sette del mattino era giunto il telegramma di Caracciolo: pure, si sentiva benissimo. Andò alla sala d’armi a tirare di scherma, col suo maestro, avendo ripreso questa consuetudine quotidiana, da qualche tempo: aveva il braccio fermo e il polso molto svelto. Assolutamente tranquillo. Uscì di là, era il tocco: aveva detto a casa di portargli il bagaglio alla stazione e pensò di non rientrare più, andando a far colazione al Caffè d’Europa, evitando così d’incontrare Laura e di avere con lei un’altra spiegazione. Tranquillissimo. Qualche amico gli si accostò, non sapendo se condolersi con Cesare del lutto ancora recente, o del nuovo matrimonio recentissimo: egli non era apparso in pubblico che due o tre volte, in quei sette mesi, attraverso i suoi viaggi, e di lui si avevano bizzarre notizie, come estremamente bizzarre erano quelle di Luigi Caracciolo: e gli amici non sapevano che contegno tenere: era certo che Cesare Dias avesse sposato sua cognata? Alle vaghe parole egli rispose vagamente, dicendo subito che ripartiva, che decisamente trovava Napoli troppo noiosa, mettendo il discorso sui pettegolezzi altrui, facendoseli narrare lungamente, ascoltandoli con quella fine voluttà dello scandalo, che era stato uno dei suoi più squisiti piaceri. Dal caffè, dove aveva fatto colazione, andò alla stazione. Il diretto partiva alle tre e dieci: mancavano solo venti minuti e già il suo servo aveva preso il biglietto, aveva messo i bagagli in uno scompartimento di prima classe, vuoto. Tutto andava benissimo, dunque: egli partiva in quel momento, i testimoni partivano la sera e all’indomani mattina si sarebbero incontrati, tutti tre, e i due sarebbero andati da Luigi Caracciolo. Si era al giovedì, sette di ottobre; il venerdì sarebbe passato nelle trattative e il sabato, meno male, si sarebbe potuto fare il duello. Era, così, perfettamente tranquillo.
Non desiderava altro, adesso, che restare solo in quella carrozza di prima classe, sino a Roma. Era un viaggio breve, il treno era direttissimo: ma aveva sempre odiato i compagni di viaggio, amici, conoscenti, estranei: non aveva mai voluto nessuno con sé. Diceva che il viaggio è la liberazione, è l’oblìo, è l’infrangimento di tutti i legami sociali, è quell’inebbriante senso della solitudine fra la folla, è la felicità di essere estraneo e sconosciuto, fra estranei e fra sconosciuti. Mai aveva voluto nessuno e mai aveva voluto portare con sé Anna, nel tempo del loro matrimonio: le donne sono così fastidiose, così poco graziose, in viaggio! Questo desiderio di solitudine gli si ravvivava, in quel breve tragitto che lo portava al suo supremo destino: e nei cinque minuti che precedettero la partenza del treno, egli ebbe quell’impazienza e quell’ansietà di chi vorrebbe dare la propria magnetica volontà alla immobile macchina. Già, già si chiudevano gli sportelli, fra i fischi della vaporiera e Cesare Dias respirava, fiducioso di essersi liberato da qualunque noiosa compagnia, quando una signora si presentò, guardò nello scompartimento e visto Cesare, vi salì leggermente, sedendosi in un angolo, mentre il facchino disponeva le sue valigie. Era Laura. Cesare ebbe tale un moto di disgusto, di seccatura, di immenso fastidio, che ella lo guardò un minuto, fissamente, come per invitarlo a essere più educato.
– Andiamo – egli pensò, fra sé – la tranquillità è finita.
Ma Laura sembrava tranquillissima. Il suo vestito da viaggio era di una eleganza raffinata, tutto era corretto e intonato in lei, dalle scarpette al velo del cappello, dalla cintura da viaggio alle sue valigie orlate d’argento, cifrate: dietro il suo velo bigio, non tanto fitto, si vedeva un viso roseo e riposato. Si muoveva, aggiustando le sue cose, sedendosi meglio, accomodando la tendina del suo sportello, con tale una grazia e un’armonia che quella creatura dava il senso dell’equilibrio.
Pure, Cesare non si lasciò prendere a questa esteriorità così attraente e placida, sotto la quale egli conosceva bene quale ardore cupo, quale imperiosa volontà si celava. E subito si decise a non lasciarsi attraversare il cammino da Laura, si decise a infrangere la volontà di lei, per la seconda volta, a costo di qualunque sforzo. Ma era così serena, lei, mentre aveva aperto un volume di Henry Gréville dalla copertina rossa, un qualunque romanzetto che ella leggeva attentamente! A poco a poco, come il treno accelerava il suo cammino, Cesare sentiva calmarsi quel movimento di grandissima noia, che gli aveva procurato la presenza di Laura, e vi subentrava una di quelle determinazioni fredde e implacabili di non cedere, di vincere l’ostacolo, se ella fosse un ostacolo, magari calpestandolo. Egli leggeva dei giornali, ma poco badava alla lettura, mentre Laura, assai metodicamente, voltava le pagine del mite romanzo della scrittrice francese. Ed era passata almeno un’ora di viaggio, quando ella abbassò il libro e quietamente, come se nulla fosse, gli rivolse la parola:
– Vai a Roma?
– Io? Si. E tu?
– Anch’io – e sorrise. – Prosegui?
– Certamente, no. E tu?
– Io neppure – ed ella sorrise.
Ognuno dalla sua parte riprese la lettura: ma Cesare era disattento e si voltava spesso a guardare la campagna napoletana, già un po’ triste, in quel pomeriggio di autunno. Assorbendosi nei suoi pensieri ogni tanto trasaliva all’idea che Laura si sarebbe frapposta fra lui e Luigi Caracciolo: e immediatamente aveva bisogno di pensare che avrebbe spezzato qualunque opposizione. La sogguardava. Sapeva ella del telegramma di Caracciolo, della risposta, del duello? Se sapeva, perché era venuta quando le donne hanno l’assoluto obbligo dell’astensione in queste gravi circostanze? E se non sapeva, perché lo aveva seguito? Era dunque decisa ad attaccarsi a lui, per sempre, non disgustata della sua freddezza, delle sue preoccupazioni, di quel suo naufragio nel passato? Ma quale era il pensiero segreto che si agitava dietro quella bianca fronte di donna? Adesso, mentre egli guardava la campagna che già perdeva tutto il verde, ella aveva posato il libro di Gréville sulle ginocchia ed era tutta raccolta, con gli occhi bassi dietro il suo velo. Fu lui che avviò di nuovo il discorso:
– Dove scendi, a Roma?
– Mah... dove scendi tu – e fece un atto di leggera meraviglia.
– Mi perseguiti, dunque? – egli disse, sorridendo d’ironia.
– Niente: ti seguo soltanto.
– Vuoi fare per forza un viaggio di nozze?
– Niente, niente; non faccio che andare dove tu vai.
– Ti accorgerai che il viaggiare in compagnia è assai noioso.
– Cercherò di annoiarti il meno che sia possibile – ella rispose semplicemente.
– Quante volte l’intenzione ci tradisce!
– Vedrai, che non ti seccherò.
– Io ho i miei affari, Laura, a Roma.
– Io te li lascio fare.
– Molti affari.
– Va bene. Quando sarai libero, starai con me.
– Affari gravi.
– Spero di non esserti, in essi, d’imbarazzo; e s...

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  12. La Profezia dello Scrigno
  13. Nelle collane Nemo Editrice dedicate alla letteratura gotica: