I Capolavori della Letteratura Europea
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I Capolavori della Letteratura Europea

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Dandy elegantissimo, poeta di raffinata sensibilità e seduttore seriale, il conte Andrea Sperelli vive la propria vita come un'opera d'arte, ricercando ovunque la bellezza, l'alta cultura e l'Amore assoluto. Abbandonato nel colmo della passione dall'ardente Elena Muti, tenta di dimenticarla passando da un'avventura all'altra, all'insegna di una vita di voluttà e dissolutezza. Diventa così l'amante di una donna in grado di ispirargli un sentimento più spirituale e poetico, la pura e virginale Maria Ferres. Le due donne rappresentano per lui due forme di desiderio che egli sogna di armonizzare in una sintesi perfetta. Il lusso dei balli e dei palazzi romani, lo splendore barocco della città eterna segretamente pervasa di morte, fanno da sfondo sontuoso alla vicenda. Insieme al capolavoro di Huysmans, À Rebours, e a La morte a Venezia di Thomas Mann, Il piacere rappresenta uno dei principali manifesti del decadentismo ed è considerato il romanzo più riuscito e giustamente più famoso di D'Annunzio.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788898790654

III

Gittatemi una treccia, ch’io salga! – gridò Andrea, ridendo, giù dal primo ripiano della scala, a Donna Maria che stava su la loggia contigua alle sue stanze, tra due colonne.
Era di mattina. Ella stava al sole per farsi asciugare i capelli umidi che l’ammantavano tutta quanta, come un velluto d’un bel violetto profondo, tra il quale appariva il pallore opaco della faccia. La tenda di tela, a metà sollevata, d’un vivo colore arancione, le metteva in sul capo il bel fregio nero del lembo nello stile de’ fregi che girano intorno gli antichi vasi greci della Campania; e, s’ella avesse avuto intorno le tempie corona di narcisi e da presso una di quelle grandi lire a nove corde che portano dipinta a encausto l’effigie d’Apollo e d’un levriere, certo sarebbe parsa un’alunna della scuola di Mitilene, una lirista lesbiaca in atto di riposo, ma quale avrebbe potuto imaginarla un prerafaelita.
– Voi gittatemi un madrigale – rispose ella, per gioco, ritraendosi alquanto.
– Vado a scriverlo sul marmo d’un balaustro, all’ultima terrazza, in vostro onore. Venite a leggerlo, quando sarete pronta, poi.
Andrea seguitò a discendere lentamente le scale che conducevano all’ultima terrazza. In quel mattino di settembre, l’anima gli si dilatava col respiro. Il giorno aveva una specie di santità; il mare pareva risplendere di luce propria, come se ne’ fondi vivessero magiche sorgenti di raggi; tutte le cose erano penetrate di sole.
Andrea discendeva, di tratto in tratto, soffermandosi. Il pensiero che Donna Maria fosse rimasta su la loggia a guardarlo gli dava un turbamento indefinito, gli metteva nel petto un palpito forte, quasi l’intimidiva, come s’ei fosse un giovinetto in sul primo amore. Provava una beatitudine ineffabile a respirare quella calda e limpida atmosfera ove respirava anch’ella, ove immergevasi anche il corpo di lei. Un’onda immensa di tenerezza gli sgorgava dal cuore spargendosi su gli alberi, su le pietre, sul mare, come su esseri amici e consapevoli. Egli era spinto come da un bisogno di adorazione sommessa, umile, pura; come da un bisogno di piegare i ginocchi e di congiungere le mani e di offerire quell’affetto vago e muto ch’egli non sapeva qual fosse. Credeva sentir venire a sè la bontà delle cose e mescersi alla sua bontà e traboccare. – Dunque l’amo? – si chiese; e non osò di guardar dentro e di riflettere, poiché temeva che quell’incanto delicato si dileguasse e si disperdesse come un sogno d’un’alba.
– L’amo? Ed ella che pensa? E s’ella vien sola, le dirò io che l’amo? – Godeva interrogar sé medesimo e non rispondere e interrompere la risposta del cuore con una nuova domanda e prolungare quella fluttuazione tormentosa e deliziosa a un tempo. – No, no, io non le dirò che l’amo. Ella è sopra tutte le altre.
Si volse; e vide ancóra, in sommo, nella loggia, nel sole, la forma di lei, indistinta. Ella, forse, l’aveva seguito con gli occhi e col pensiero fin là giù, assiduamente. Per una curiosità infantile egli pronunziò a voce chiara il nome, su la terrazza solitaria; lo ripeté due o tre volte, ascoltandosi. – Maria! Maria! – Nessuna parola giammai, nessun nome eragli parso più soave, più melodioso, più carezzevole. E pensò che sarebbe stato felice s’ella gli avesse permesso di chiamarla semplicemente Maria, come una sorella.
Quella creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e di sommessione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbegli stata più dolce, avrebbe risposto con sincerità: – Obedirla. – Nessuna cosa gli avrebbe fatto dolore quanto l’esser da lei creduto un uomo comune. Da nessuna altra donna, quanto da lei, avrebbe voluto essere ammirato, lodato, compreso nelle opere dell’intelligenza, nel gusto, nelle ricerche, nelle aspirazioni d’arte, negli ideali, nei sogni, nella parte più nobile del suo spirito e della sua vita. E l’ambizione sua più ardente era di riempirle il cuore.
Già da dieci giorni ella viveva a Schifanoja; e in quei dieci giorni come interamente l’aveva ella conquistato! Le loro conversazioni, su le terrazze o su i sedili sparsi all’ombra o lungo i viali fiancheggiati di rosai, duravano talvolta ore ed ore, mentre Delfina correva come una gazelletta tra gli avvolgimenti dell’agrumeto. Ella aveva nel conversare una fluidità mirabile; profondeva un tesoro d’osservazioni delicate e penetranti; rivelavasi talvolta con un candore pieno di grazia; in proposito de’ suoi viaggi, talvolta con una sola frase pittoresca suscitava in Andrea larghe visioni di paesi e di mari lontani. Ed egli poneva un’assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza della sua cultura, la raffinatezza della sua educazione, la squisitezza della sua sensibilità; e un orgoglio enorme gli sollevò tutto l’essere quando ella gli disse con accento di verità, dopo la lettura della Favola d’Ermafrodito:
– Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un’impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi.
Egli ora, seduto su i balaustri, ripensava quelle parole. Donna Maria non era più nella loggia; anzi la tenda copriva tutto l’intercolunnio. Sarebbe forse discesa tra poco. Doveva egli scriverle il madrigale, secondo la promessa? Il piccolo supplizio del versificare a furia gli parve insoffribile, in quel grandioso e gaudioso giardino ove il sole di settembre faceva dischiudere una specie di primavera soprannaturale. Perché disperdere quella rara commozione in un giuoco affrettato di rime? Perché rimpicciolire quel vasto sentimento in un breve sospiro metrico? Risolse di mancare alla promessa; e restò seduto a guardare le vele sul limite estremo dell’acqua, che brillavano a simiglianza di fuochi soverchianti il sole.
Ma un’ansietà lo stringeva come più i minuti fuggivano; ed egli volgevasi tutti i minuti a vedere se in sommo della scala, tra le colonne del vestibolo, apparisse una forma feminile. – Era forse quello un ritrovo d’amore? Veniva forse quella donna in quel luogo a un colloquio segreto? Imaginava ella di lui quell’ansietà?
– Eccola! – il cuore gli disse. Ed era.
Era sola. Scendeva pianamente. Su la prima terrazza, presso una delle fontane, si soffermò. Andrea la seguiva con gli occhi, sospeso, provando ad ogni moto, ad ogni passo, ad ogni attitudine di lei una trepidazione come se il moto, il passo, l’attitudine avessero un significato, fossero un linguaggio.
Ella si mise per quella successione di scale e di terrazze intramezzate d’alberi e di cespugli. La sua persona appariva e scompariva, ora tutta intera, ora dalla cintola in su, ora emergente con la testa fuor d’un rosaio. A volte l’intrico dei rami la celava per un buon tratto: si vedeva soltanto negli spazii più radi passare la sua veste oscura o brillare la paglia chiara del suo cappello. Come più si avvicinava, più ella facevasi lenta, indugiando per le siepi, arrestandosi a guardare i cipressi, inchinandosi a raccogliere un pugno di foglie cadute. Dalla penultima terrazza salutò con la mano Andrea che aspettava ritto su l’ultimo gradino; e gli gettò le foglie raccolte, che si sparpagliarono come uno sciame di farfalle, tremolando, rimanendo qual più qual meno nell’aria, posandosi su la pietra con una mollezza di neve.
– Ebbene? – chiese ella, a mezzo della branca.
Andrea piegò le ginocchia sul gradino, levando le palme.
– Nulla! – egli confessò. – Chiedo perdono; ma voi e il sole stamani empite i cieli di troppa dolcezza. Adoremus.
La confessione era sincera e anche l’adorazione, sebbene fatte ambedue con un’apparenza di gioco; e certo Donna Maria comprese quella sincerità, poiché arrossì un poco, dicendo con una singolare premura:
– Alzatevi, alzatevi.
Egli s’alzò. Ella gli tese la mano, soggiungendo:
– Vi perdono, perché siete in convalescenza.
Portava un abito d’uno strano color di ruggine, d’un color di croco, disfatto, indefinibile; d’uno di que’ colori cosiddetti estetici che si trovano ne’ quadri del divino Autunno, in quelli dei Primitivi, e in quelli di Dante Gabriele Rossetti.
La gonna componevasi di molte pieghe, diritte e regolari, che si partivano di sotto al braccio. Un largo nastro verdemare, del pallore d’una turchese malata, formava la cintura e cadeva con un solo grande cappio giù pel fianco. Le maniche ampie, molli, in fittissime pieghe all’appiccatura, si restringevano intorno i polsi. Un altro nastro verdemare, ma sottile, cingeva il collo, annodato a sinistra con un piccolo cappio. Un nastro anche eguale legava l’estremità della prodigiosa treccia cadente di sotto a un cappello di paglia coronato d’una corona di giacinti simile a quella della Pandora d’Alma Tadema. Una grossa turchese della Persia, unico gioiello, in forma d’uno scarabeo, incisa di caratteri come un talismano, fermava il collare sotto il mento.
– Aspettiamo Delfina – ella disse. – Poi andremo fino al cancello della Cibele. Volete?
Ella aveva pel convalescente riguardi assai gentili. Andrea era ancóra molto pallido e molto scarno, e gli occhi gli si erano straordinariamente ingranditi in quella magrezza; e l’espression sensuale della bocca un po’ tumida faceva uno strano e attirante contrasto con la parte superiore del viso.
– Si – rispose. – Anzi vi son grato.
Poi, dopo un poco di esitazione:
– Mi permettete qualche silenzio, stamani?
– Perché mi chiedete questo?
– Mi pare di non aver la voce e di non saper dire nulla. Ma i silenzii, certe volte, possono essere gravi e infastidire e anche turbare se si prolungano. Perciò vi chiedo se mi permettete di tacere durante il cammino, e d’ascoltarvi.
– Allora, taceremo insieme – disse ella, con un sorriso tenue.
E guardò in alto, verso la villa, con una impazienza visibile
– Quanto tarda Delfina!
– Francesca s’era già levata, quando siete discesa? – domandò Andrea.
– Oh, no! E’ d’una pigrizia incredibile... Ecco Delfina. La vedete?
La bimba discendeva rapidamente, seguita dalla sua governante. Invisibile giù per le scale, riappariva su i terrazzi ch’ella attraversava correndo. I capelli disciolti le ondeggiavano per le spalle, nel vento della corsa, sotto una larga paglia coronata di papaveri. Quando fu all’ultimo gradino, aperse le braccia verso la madre e la baciò tante volte su le guance. Poi disse:
– Buon giorno, Andrea.
E gli porse la fronte, con un atto infantile d’adorabile grazia.
Era una creatura fragile e vibrante come uno strumento formato di materie sensibili. Le sue membra eran così delicate che parevan quasi non poter nascondere e neppur velare lo splendor dello spirito entro vivente, come una fiamma in una lampada preziosa, d’una vita intensa e dolce.
– Amore! – sussurrò la madre, guardandola con uno sguardo indescrivibile, nel quale esalavasi tutta la tenerezza dell’anima occupata da quell’unico affetto.
E Andrea ebbe dalla parola, dallo sguardo, dall’espressione, dalla carezza una specie di gelosia, una specie di scoramento, come s’egli sentisse l’anima di lei allontanarsi, sfuggirgli per sempre, divenire inaccessibile.
La governante chiese licenza di risalire; ed essi presero il viale degli aranci. Delfina correva innanzi, spingendo un suo cerchio; e le sue gambe diritte, strette nella calza nera, un po’ lunghe dell’affilata lunghezza d’un disegno efebico, si movevano con ritmica agilità.
– Mi sembrate un po’ triste ora, – disse la senese al giovine – mentre dianzi, nello scendere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pensiero? O non vi sentite bene?
Ella chiedeva queste cose con una maniera quasi fraterna, grave e soave, persuadente alla confidenza. Una voglia timida...

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  1. Titolo pagina
  2. Libro primo
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. Libro secondo
  9. I
  10. II
  11. III
  12. Libro terzo
  13. I
  14. II
  15. III
  16. IV
  17. Libro quarto
  18. I
  19. II
  20. III