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I luoghi di Antonia
Chi ti dice
bontà
della mia montagna? –
Bontà inesausta, 1° ottobre 1933
[…] la mia pianura lombarda, malinconica forte e reale […]
Lettera a Maria Gramignola del 2 luglio 1938
Casa degli sfrattati – via dei Cinquecento – fuori di piazzale Corvetto (il mio piazz. Corvetto: un mese fa, quei carri di ferraglie sullo sfondo delle ciminiere, l’acqua color conchiglia al porto di mare […]).
Nota di diario del 21 febbraio 1938
C’è tuttora a Milano, in via Mascheroni 23, il palazzo in cui Antonia Pozzi viveva con i genitori: un bell’edificio che coniuga una sobria base classica con raffinati elementi liberty. Dalla scritta sul portone d’ingresso risulta che era stato terminato nel 1914, e appunto in quell’anno la famiglia vi si era trasferita da corso Monforte 14, dove Antonia era nata il 13 febbraio 1912.
Lucia Bozzi ed Elvira Gandini – le sue amiche più care, anzi le «sorelle d’adozione», come lei stessa le chiamava – all’inizio degli anni duemila ricordavano volentieri alcuni particolari della casa dei Pozzi: la collezione di quadri dell’Ottocento, il pianoforte a coda coperto da un pizzo a punto Venezia e, soprattutto, lo studio di Antonia. Qui, sopra un divano-letto, era collocato un Cascella che rappresentava la via Appia con i suoi pini secolari; vi erano inoltre una libreria e, vicino alla finestra, un grande tavolo, il suo tavolo (lo sottolineava affettuosamente Lucia), nei cui cassetti Antonia nascondeva i quaderni delle poesie.
Era, dunque, una dimora elegante del prestigioso quartiere di piazza della Conciliazione, dove, nei primi decenni del Novecento, abitavano importanti famiglie alto-borghesi: per esempio i Falck, i Borletti, i Castellini. D’altronde i Pozzi partecipavano ai fasti sia borghesi sia aristocratici di Milano, poiché il padre Roberto era un noto avvocato con frequentazioni altolocate e la madre, Lina Cavagna Sangiuliani di Gualdana, proveniva da una famiglia pavese di antica nobiltà terriera.
Nella medesima zona Antonia, dopo aver frequentato la prima elementare anticipata e la seconda presso le Suore Marcelline di piazzale Tommaseo, fu iscritta alla scuola pubblica di via Ruffini. Successivamente passò al Liceo Ginnasio Manzoni di via Orazio, che si trovava poco lontano. Gli allievi di questo istituto erano per la maggior parte di provenienza alto-borghese, ma non vi mancavano ragazzi e ragazze, come Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, appartenenti a famiglie di professionisti. Gli studenti di famiglia aristocratica si suddividevano in genere tra il «Manzoni» e il «Parini», certamente i licei classici più rinomati di Milano.
Antonia Pozzi avrebbe avuto la possibilità di inserirsi nei più importanti salotti cittadini, ma a questi ambienti preferì ben presto quello della Regia Università Statale di corso Roma (oggi corso di Porta Romana), dove trovava docenti di grande valore e compagni molto brillanti, in particolare gli studenti dei corsi di Estetica, tenuti prima da Giuseppe Antonio Borgese e poi da Antonio Banfi.
Con la classe sociale di appartenenza, e anche con amici meno abbienti, condivideva il piacere di assistere agli spettacoli del Teatro alla Scala. Per molto tempo i nobili avevano posseduto palchi familiari, che decoravano con i propri colori, ma, con la nomina dell’imprenditore Senatore Borletti a commissario straordinario e sovrintendente, tutto era tornato di proprietà della Scala ed era iniziata una gestione più borghese di quel prestigioso teatro, con il risultato di farvi affluire un pubblico più vario e consapevole. Antonia usufruiva dell’abbonamento in platea della propria famiglia, che comprendeva tre poltrone in seconda fila; e, quando i genitori lasciavano liberi i loro posti, invitava qualche persona a lei particolarmente cara. Tra l’altro, poté godere delle grandi esecuzioni di Arturo Toscanini, prima che il maestro fosse costretto ad andarsene dall’Italia per questioni politiche. Di una sua Butterfly la tredicenne Antonia parla con trasporto in una nota di diario del 21 dicembre 1925, da cui traspare il fascino che la musica lirica esercitava su di lei. E delle rappresentazioni scaligere scrive con entusiasmo anche in una lettera del 22 gennaio 1926 alla nonna materna Maria Gramignola, rivelando una predilezione, comprensibile in un’adolescente, per le trascinanti melodie di Verdi, Gounod, Bizet e Puccini. Naturalmente, col tempo, ampliò i suoi gusti musicali e, a un certo punto, assistette regolarmente con le amiche e gli amici anche ai concerti della Società del Quartetto, che si tenevano al Conservatorio: vi andò perfino alla vigilia del suicidio.
Negli ultimi anni Antonia frequentò assiduamente alcune zone periferiche di Milano, in particolare il quartiere operaio di piazzale Corvetto, dove, in via dei Cinquecento, si trovava la «casa degli sfrattati». Qui, aderendo da laica a un ideale di cristiana solidarietà, seguì dapprima Lucia Bozzi e poi Dino Formaggio, uno studente lavoratore che era molto legato a quel mondo, avendo a lungo vissuto in una casa popolare del luogo. Sulla desolazione della «casa degli sfrattati», ultima spiaggia per tante persone sfortunate, Antonia annotava nel diario il 21 febbraio 1938:
[…] ogni venti metri una latrina, e in mezzo file di porte uguali con piccoli numeri di ferro smaltato come in un albergo di infimo ordine. Ogni porta una famiglia, di 5, 8, 10, 12 persone. Bambini: a centinaia, a migliaia, a frane, a nuvole. Ma strani bambini, che quasi non urlano. Hanno la pancia vuota e anche i loro giochi sono deboli. In mezzo a un corridoio, un mucchietto umano nerastro: una decina di maschietti sui dieci anni seduti in terra. Testoni di capelli incolti su colli gracili, camicie e magliette di nessun colore, a buchi.
Secondo le testimonianze di quanti l’hanno conosciuta, Antonia non intendeva praticare dall’alto una distaccata carità: al contrario, da quelle situazioni di miseria e disperazione si lasciava coinvolgere totalmente, fino ad avvertire quasi come una colpa la propria appartenenza a un mondo di ricchi. Un’esperienza di vita che le ispirò la poesia Via dei Cinquecento, del 27 febbraio 1938.
Non lontano da questa via, nella campagna di Chiaravalle, Antonia scelse di morire il 2 dicembre di quello stesso anno, su uno di quei prati verso i quali amava dirigersi in bicicletta, da sola o con gli amici, per immergersi nella dolcezza della natura. A tale proposito, il 23 ottobre aveva scritto a Paolo Treves, mentre parlava con trasporto del suo rapporto con Dino: «E poi andiamo in bicicletta alla periferia, lungo i fossi, con le foglie secche come piccole nubi scricchiolanti sotto le ruote […]». Con la parola «periferia» Antonia intendeva in particolare due zone tra loro limitrofe: Chiaravalle, la cui abbazia era molto cara sia a Dino sia a lei, e Porto di mare, dove allora si trovavano alcune fabbriche e un piacevole laghetto artificiale, che compaiono in alcuni suoi scatti fotografici.
È questo il paesaggio dolce e malinconico di Periferia, del 21 gennaio 1938:
E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.
Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni…
Era vicina, in questa propensione per i «tristi sobborghi» e per la città che sconfinava nella campagna, all’amico Vittorio Sereni e alla sua poesia di quegli anni, che sarebbe poi confluita nella raccolta Frontiera. Entrambi proiettavano su tali luoghi di confine, quasi ponti tra mondi diversi, il senso di precarietà della loro generazione di giovani intellettuali in crisi, il rifiuto di ambienti sentiti come inautentici e, per contrapposizione, il desiderio di aderire con maggiore schiettezza alla vita e alle cose semplici, colte nella loro verità.
Milano rappresentò dunque per Antonia, più che il mondo elevato da cui proveniva per nascita, il luogo di una cultura alternativa a quella ufficiale, vissuta insieme a compagni dei più diversi ambienti sociali, con i quali poteva scoprire inedite realtà intellettuali e umane, che la coinvolgevano profondamente.
La pianura lombarda e le montagne della Valsassina furono invece per lei l’occasione di un contatto rigenerante con una natura che le restituiva un senso di radicamento e di pace.
I suoi nonni materni possedevano grandi e lussuose ville a Carate Urio sul lago di Como e, in prossimità del Ticino, alla Zelata di Bereguardo, detta in famiglia «la Zelada». In queste dimore Antonia soggiornò spesso da bambina, prima che fossero alienate in seguito alla divisione ereditaria dei beni del nonno, e di esse conservò sempre un ricordo molto vivo.
Quella pianura la legava alla madre, agli antenati e, soprattutto, alla nonna materna Maria Gramignola, la «Nena», come tutti la chiamavano. Antonia le dice infatti nel...