Il figlio del figlio
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Il figlio del figlio

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il figlio del figlio

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Informazioni sul libro

«Un pacato on the road Milano-Barletta di un nonno un padre un figlio che devono chiudere con il passato ma dentro un presente senza identità, un romanzo che dice molto su chi siamo».
Goffredo Fofi «Un libro di un vero scrittore».
Raffaele La Capria Tre uomini che tirano le somme della propria vita. Tre lingue diverse per raccontare l'emigrazione e la perdita delle radici; il bisogno di partire e la conquista di un posto in cui tornare. Nicola ha ventisei anni e fa l'insegnante precario a Milano. È figlio di Riccardo, un emigrante invecchiato troppo presto, e nipote di Leonardo, un contadino analfabeta e senza terra, che un giorno sorprende tutta la famiglia con una decisione importante: bisogna vendere la casa al mare, diventata l'oggetto ingombrante che divide fratelli, genitori e cugini. Cosí, una mattina di prima estate, partono a bordo di una Punto amaranto, nonno padre e nipote, per raggiungere la Puglia, a cui sono legati in maniera diversa. Il viaggio tra i luoghi e le memorie che hanno costruito la famiglia Russo diventa un viaggio iniziatico in cui i rapporti di confronto-scontro tra padri e figli si sciolgono in rapporti fra tre uomini, ognuno con i propri imbarazzi, affetti, difficoltà.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439791

Il figlio del figlio

Alla memoria dei miei nonni,
custodi dell’infanzia
Ma anch’io, cos’era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d’un’altra estraneità.
ITALO CALVINO, La strada di San Giovanni
Non era stato un anno facile. E non solo perché gli anni facili non esistono. La mia famiglia non riusciva a capire come mai questa storia dello studio non finisse piú e non portasse a un bel niente. Pesava a mia madre e mio padre che loro figlio continuasse a studiare «senza diventare mai uomo», che significa avere un lavoro. E dal momento che studiare non è un lavoro, era ovvio che io restavo ancora un ragazzo piú o meno spensierato.
I miei erano assolutamente sicuri di questo. Era una convinzione che apparteneva a molti della loro età, e di condividere in casa la mia stanchezza, che invece era proprio quella di un uomo, non c’era alcun modo.
Non aiutava poi il fatto che a me studiare piaceva. Il tempo passato in casa a leggere, o addirittura a scrivere, era la dimostrazione che io a fare l’eterno studente ci sguazzavo come una papera nello stagno, senza avvertire quel bisogno di indipendenza che invece loro avevano sentito fin dalla prima giovinezza.
– Io ho iniziato a quattordici anni e tuo padre a quindici! Tutti e due ce ne siamo venuti a Milano senza genitori! – si lagnava mia madre, quasi che fossi responsabile oltre che del mio ritardo anche delle loro precocità. Io di anni ne avevo ventisei.
Il nonno, invece, sembrava capire meglio. – Se volevi fare il ladro arrivavi prima… –, cosí mi sfotteva quando gli dicevo che adesso, finita anche la scuola di specializzazione, mi mancava chissà quanto per diventare insegnante di ruolo. Per «lavorare in pianta stabile», come diceva lui. Bofonchiando quelle parole appoggiato al bracciolo del divano, mi sembrava infatti non tanto che desse del fannullone a me, ma che se la prendesse piuttosto con tutti quei «farabutti che hanno inventato queste diavolerie di laure specialità e master che servono solo a sfasciare le famiglie e a farti passare la voglia di faticare prima che inizi!»
E in effetti la paura di aver fatto tutto questo e di scoprire poi che quel mestiere non faceva per me era iniziata a crescere. Si affacciava anche nel sonno. Del resto era vero, chi aveva mai insegnato? Fare questo lavoro significa fidarsi solo di un’intuizione.
Quando raccontavo al nonno queste faccende lui sorrideva, come al solito senza scomporre quel suo grande corpo da guerriero, aprendo appena le labbra e rimpicciolendo a fessura gli occhi d’acquamarina.
In quel periodo passavo con lui interi pomeriggi, quasi fossi tornato bambino, quando ogni giorno, fino all’arrivo di mia madre dal lavoro, i miei veri genitori erano loro, il nonno e la nonna. Nonna Anna, con le mani sempre pronte a soffiarmi il naso e ad attraversarmi i ricci; e nonno Leonardo, che mi sembrava ancora, a piú di ottant’anni, un gigante pieno di forze nonostante il volto fiaccato dalla tosse asmatica, le rughe che gli squadravano in tavola pitagorica la fronte, le labbra strette che non sprecavano parole. Erano loro due che mi cambiavano la maglietta se ero sudato, che mi obbligavano a fare i compiti e a interromperli alle quattro per fare merenda. Loro che mi facevano preparare la cartella e mettere le cose in ordine dieci minuti prima che arrivasse mia madre.
In quel mese di giugno caldo e senza vento avevo ripreso a passare dal nonno, in verità perché mi sentivo solo. Non che amici me ne mancassero, ne avevo sempre avuti e poi c’erano quei due o tre su cui potevo contare sul serio, che sapevano di me paure e debolezze senza prendersene gioco.
Ma lo smarrimento di quell’estate era una cosa nuova. Chi non aveva fatto l’università già lavorava da anni, era fidanzato e pensava a fare passi che io nemmeno immaginavo. Dei miei compagni di corso ero stato il piú veloce e loro li avevo lasciati nei chiostri e nelle biblioteche a continuare i pomeriggi tra chiacchiere, sigarette, letture. Invece a me il mondo dell’università era diventato di colpo distante, forse perché era venuta fuori quella stanchezza di uomo che i miei non mi volevano riconoscere, forse perché era normale che venisse a noia un posto come quello, dove l’aria è sempre vecchia.
E poi le prime supplenze. Gli ingressi in classe impacciato in giacca e camicia che speravo mi dessero piú autorità, l’impatto con studenti spesso piú alti e grossi di me, la luce che dalle tende si sfrangiava sulle loro facce già cosí diverse dalla mia. Ma di tutto questo non riuscivo a dire niente. Rimanevo zitto, convinto che fossero solo pensieri miei, che gli altri non avrebbero capito. Insomma, non ne volevo a nessuno ma preferivo starmene da solo, incrociare la sera questo o quell’altro per bermi una birra e tirare tardi tra battute e discorsi di politica.
Di pomeriggio il nonno mi vedeva arrivare dalla finestra. Io mi sbracciavo lasciando il manubrio della bici e di risposta gli vedevo alzare la testa e accennare un sorriso breve. Il tempo di legare la bicicletta che lui arrivava al citofono, cosí davanti al portone non serviva suonare.
– Hai fatto il pennico, Nonò?
– Solo poco perché era caldo.
– Facciamo un giro?
– Lontano o vicino?
– Oggi, se vuoi, andiamo lontano.
Andare vicino significa arrivare fino al campo di pannocchie che c’è ancora dietro casa dei nonni. Vuol dire percorrere una strada dritta poco trafficata, poi tutta via Andrea Costa, superare il benzinaio della Esso e infilarsi in una serie di stradine tutte curve coi nomi dei musicisti. Al campo, vent’anni fa, io e il carrozzone di cugini con cui sono cresciuto buttavamo per terra le biciclette e aspettavamo che il nonno arrivasse coi gelati. Facevamo merenda tutti insieme, seduti davanti al primo filare di pannocchie che gettava un gran ventaglio d’ombra. Anche il nonno, dopo essersi tirato su i pantaloni di fustagno, si sedeva per terra con noi, al fresco. Mentre mangiavamo raccontava una storia oppure chiedeva a turno come era andata la scuola, o certe volte di recitargli una poesia, visto che a lui piacevano parecchio, soprattutto quelle con le rime.
Fu per divertire il nonno che ne imparai moltissime fin dalle elementari. Mi sembrava di conquistarmi di piú la sua complicità e la sua protezione forzuta, cosí, recitandogli quei versi di cui forse nemmeno intendeva il senso, trasportato com’era dalla parola che si fa musica.
Ma per noi era piú emozionante quand’era lui a raccontare. A dirci a bassa voce di quand’era in guerra, dove ci si lavava con l’acqua sporca e i denti guasti si strappavano col coltello, dove si stava senza mangiare anche per due giorni e si camminava per chilometri nei boschi col compagno ferito portato a sacco di patate sulla spalla.
A me da piccolo quei racconti sembravano le gesta di un campione. Tutto travisavo nella mitizzazione dell’eroe. Dopo, nel tempo, ne avrei avuto ben altro interesse ma sempre lo stesso piacere a sentirlo parlare in quella sua miscela di dialetto pugliese tradotto alla lettera in italiano, che per lui era una lingua che entrava in casa il mattino insieme ai nipoti e se ne andava con loro la sera.
Per andare e tornare dal campo di pannocchie si pedala per tre chilometri. Questo vuol dire andare vicino.
Andare lontano è invece tutt’altra cosa, e da piccoli era un vero evento. Innanzi tutto il nonno andava lontano con un nipote per volta e con una bicicletta sola, la sua, quella che gli avevano regalato i compagni della Montecatini quand’era andato in pensione, già col sellino doppio, sapendo che si sarebbe dedicato a tutta quella figliolanza.
Sarò andato lontano cinque o sei volte, arrivando sempre in posti che mi sembravano straordinari e in cui anni dopo sarei passato distratto, quasi senza ricordare. L’Accademia di Brera, lo stadio di San Siro e l’ippodromo, il Castello Sforzesco, l’arco della Pace…
Stavo sul sellino abbracciato al nonno che ogni tanto allungava la mano e mi dava due pacche sul fianco chiedendo «stai bene?», che voleva dire «sei comodo?» Si andava in silenzio ascoltando il vento e guardando le macchine che ci superavano. Solo bisognava essere pronti alle richieste del ciclista: «metti la freccia», oppure «piegati un poco di qua!», perché lo assecondassi col corpo mentre curvava.
Appena arrivato ero subito rapito da un senso di distanza da casa che non percepivo andando, protetto com’ero dalla schiena del nonno che copriva il mondo. Mi elettrizzava l’idea che non avremmo fatto in tempo a tornare per il rientro della mamma, che certo si sarebbe preoccupata per me pensandomi lontano in un posto che non sapeva. Mi sarebbe venuto a prendere in macchina mio padre all’ora di cena e nessuno mi avrebbe sgridato perché ero stato col nonno.
Una volta arrivati lontano, poi, acquistavo un’importanza che nel viaggio non avevo. Diventavo anche io guida, perché gli leggevo passeggiando ogni insegna di negozio, ogni cartellone pubblicitario.
Nonno Leonardo, infatti, era analfabeta. Ma anche questo a me da piccolo sembrava solo motivo di scherzo, e mi rimaneva lontana ogni considerazione sulla sua vita e sulla differenza tra la mia e la sua storia, disseminata di privazioni e sacrifici già sconosciuti a mio padre.
Solo piú tardi capii il dolore che doveva provare non riuscendo a interpretare quei segni di cui era zeppa la città. Adesso mi vergogno ricordando che gli mettevamo sotto il naso i nostri quaderni che lui faceva finta di saperci controllare, mentre se un bambino sapesse penetrare lo sguardo di un vecchio avrebbe notato lo smarrimento sulla sua faccia, sul contorno degli occhi d’acquamarina che si contraevano nello sforzo di decifrare.
Quel suo dolore – l’unico che gli suscitasse imbarazzo e vergogna – mi restò estraneo fino a che nonna Anna, un pomeriggio in cui il nonno faceva il pennico (cosí loro due chiamavano la siesta dopo pranzo e cosí imparammo a chiamarla noi nipoti), mi raccontò che l’analfabetismo di suo marito fu anche per lei scoperta tarda. Per tutto il fidanzamento infatti il nonno riuscí a mentirle, dicendole con tono di sufficienza che aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare, ossia che sapeva non solo leggere e scrivere, ma anche far bene di conto. Niente male per un contadino orfano di padre fin dai primi anni. Sesto di otto figli.
Con grande destrezza nonno Leonardo riuscí per un anno a evitare tutte le occasioni di lettura – poche in verità – che capitavano quando passava a salutare la fidanzata dopo il lavoro. In casa della nonna girava ogni tanto un giornale, un gazzettino che arrivava da non si sa quale bottega e che riportava i fatti essenziali del giorno. Glielo lasciava sul davanzale, tra i vasi di basilico, la vicina nel primo pomeriggio, e nonna Anna a sua volta lo portava verso sera all’altra vicina, moglie di un contadino a cui la carta riusciva utile piú per fasciare la frutta da vendere che per informarsi. Quando la nonna lo sfogliava per commentarlo, il nonno faceva sí con la testa come un sapientone e le rispondeva che lo aveva già letto il giornale, e anzi proprio quel gazzettino, che un suo compagno ritirava ogni mattina dal fratello giornalaio. Nonna Anna finí cosí per considerare il suo futuro marito anche attento e scrupoloso lettore.
A questo punto restava un dubbio solo. Mai però, per paura di offenderlo, trovò il coraggio di mettergli la penna in mano. Aspettò il giorno del matrimonio. Ma qui il nonno ne uscí, se possibile, ancora piú brillantemente. Quando il prete chiese di apporre la firma sul registro lui scrisse il suo nome perfino ornandolo di ghirigori calligrafici.
Per confessare aspettò il viaggio di nozze, che a quei tempi per chi non era ricco voleva dire andare qualche giorno a trovare i parenti. Sulla carrozza vuota del treno che li portava a Napoli le spiegò, in lingua italiana, di sentire ancora un certo fastidio a un dito perché aveva passato le ultime sere con un tale Saverio – figlio di un contadino che lavorava con lui – a imparare a fare questa maledetta firma, che oltre a un principio di artrite gli costò tanto tempo d’esercizio e non poche bestemmie, poi prontamente espiate nella confessione prematrimoniale.
– Che significa? – chiese la nonna che ancora non capiva.
– Che ti sei presa un analfabeta bugiardo, – rispose il nonno afferrandole la mano.
Lei rimase sulle prime ammutolita. – E chi te l’ha fatta fare questa cosa, Leò?
– Ancora piú dell’amore la p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il figlio del figlio
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright