MicroMega 3/2022
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È un almanacco di filosofia con grandi nomi italiani e internazionali il numero 3/2022 di MicroMega. Una gran parte del volume è dedicata ai temi dell'ecologia e dei diritti della natura e degli animali, con interventi di Francis Wolff, Maurizio Ferraris, Silvia Peppoloni, Giuseppe Di Capua, Stefano Petrucciani, Bruno Latour, Bernd Ladwig. Un ulteriore focus è dedicato alla filosofia postcoloniale, con interventi di Souleymane Bachir Diagne e Paolo Flores d'Arcais. David Chalmers spiega in un lungo saggio perché la realtà virtuale sia da considerarsi realtà a tutti gli effetti, Gloria Origgi affronta il tema dell'autorità scientifica e della sua relazione con la verità, mentre Yves Sintomer e Helene Landemore si occupano di modelli di democrazia. Ad arricchire il volume alcuni inediti fra cui due testi di grandissima attualità di Günther Anders sulla minaccia di guerra atomica.Micromega è una rivista di cultura, politica, scienza e filosofia fondata nel 1986 da Paolo Flores d'Arcais

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9791280852090

iceberg 1

universale, particolare, postcoloniale

L’UNIVERSALE DAL PLURALE DEL MONDO

Con la conferenza di Bandung del 1955, promossa da diversi Paesi asiatici e africani che avevano conosciuto o conoscevano ancora la colonizzazione, il plurale fa irruzione nella storia. Un evento che non può non avere ripercussioni anche sul momento filosofico: da allora l’universale non può più essere pensato astrattamente ma, senza cadere nei particolarismi, deve tenere conto del plurale del mondo.

SOULEYMANE BACHIR DIAGNE

La questione oggi è quella dell’universale a partire dal plurale del mondo. E non possiamo non menzionare al riguardo la (cattiva) disputa dei cosiddetti studi postcoloniali.
La definisco «cattiva» perché si cede troppo facilmente alla semplificazione la quale fa sì che, in nome dell’universalismo, nella ricerca del senso da dare a un mondo postcoloniale si voglia vedere solo l’effetto nocivo di un’esportazione dell’università americana che riflette, nel linguaggio della French Theory, lo spirito del cosiddetto comunitarismo anglosassone. Postcoloniale sarebbe solo il nome di particolarismi lanciati all’attacco della cittadella dell’universale. Si chiederà poi, con tono di esasperazione, che dal tempio della scienza siano espulse le ricerche subito decretate non avere nulla di accademico e tutto, invece, della semplice militanza.
Uscire dall’imprecisione e dal tono della disputa per mettere in piedi un dibattito filosofico richiede che vengano stabilite alcune definizioni e premesse.
1. Il postcoloniale costituisce il momento storico e filosofico dell’irruzione del plurale sulla scena della storia mondiale.
2. La nozione di postcoloniale non abbraccia quella di un’opposizione all’universale o di un suo rifiuto. Aggiungo, inoltre, che non è un paradosso dire che il postcoloniale è perfino la condizione dell’universale. La ragione di ciò è legata alla mia terza premessa.
3. Il momento filosofico ha piuttosto di mira un universale che s’iscrive nel plurale del mondo. Il plurale ne costituisce il fondamento e l’orizzonte. Sia detto a smentita di coloro per i quali l’universale è possibile solo come negazione del plurale. (Sono consapevole nel dire questo che una definizione dell’universale vorrebbe, al contrario, che esso fosse al di sopra del plurale del mondo. Tornerò su questa obiezione, che trova la sua espressione più completa in Emmanuel Lévinas).
***
Spiego cosa intendo per momento storico e momento filosofico.
Ritengo che il momento storico del postcoloniale come irruzione del plurale sulla scena della storia mondiale sia la conferenza di Bandung del 1955. Un promemoria: sotto l’egida di Sukarno, i Paesi asiatici e africani che avevano conosciuto o conoscevano ancora la colonizzazione o uno stato di semicolonizzazione si riunirono per affermare che nulla giustificava la colonizzazione e che nessun popolo poteva arrogarsi il diritto di colonizzarne un altro con il pretesto di civilizzarlo. Al di là dell’adozione di alcune delibere in tal senso, la cosa più importante di questo incontro, che segnò l’inizio del grande sconvolgimento della decolonizzazione, risiedeva nel fatto che esso non era stato convocato dalle nazioni europee. Ciò che rese Bandung l’inizio «fragoroso» di una nuova era, salutato in questi termini da Léopold Sédar Senghor1, è che questa conferenza proiettava l’immagine di come appare un mondo decentralizzato: un incontro tra asiatici e africani in cui l’Europa non è più il centro che lo organizza ma diventa l’oggetto della conversazione, dove si costruiscono delle relazioni orizzontali in opposizione alle relazioni verticali con il centro. L’immagine di un mondo postcoloniale è quella di un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte, per usare una metafora applicata in epoca medievale alla natura paradossale di Dio nonché usata per descrivere la cosmologia moderna di un universo infinito.
Non rifletteva dunque la configurazione di un mondo che si stava ordinando attorno all’Europa come suo centro. Bensì proiettava l’immagine del mondo a venire, senza un centro che disponesse il resto attorno a sé come sua periferia.
Una tale riconfigurazione del mondo non poteva non tradursi in un momento filosofico che è, in particolare, una relazione critica verso l’universalismo (con il quale io intendo l’idea che una provincia del mondo è per sua natura portatrice dell’universale). A cosa si opponeva filosoficamente questo momento? Prima di rispondere a questa domanda, faccio un’osservazione. Ovviamente il plurale del mondo non ha aspettato questo momento per turbare la coscienza filosofica. Montaigne fu così scosso dall’incontro, a Rouen, con tre tupi del Brasile da tornare a se stesso per decentrare lo sguardo su di sé e sugli altri. In generale, si possono sempre trovare precedenti al momento postcoloniale, così come a ogni momento filosofico. Il gesto filosofico di un decentramento del mondo è compiuto, ad esempio, da Orphée noir, celebre prefazione di Jean-Paul Sartre all’antologia di poesie pubblicata da Senghor2. Tutti i temi che consideriamo decentramenti postcoloniali si ritrovano nel testo di Sartre: la decostruzione di un «privilegio bianco» (identificato con il privilegio di guardare gli altri senza essere guardati a propria volta) così come l’idea che l’Europa sia ormai una semplice provincia del mondo, nient’altro – nelle parole di Sartre – che «un accidente geografico, la penisola che l’Asia spinge nell’Atlantico». La richiesta di Dipesh Chakrabarty3 di provincializzare l’Europa era stata in qualche modo già anticipata da questa frase di Sartre.
La prefazione fu scritta nel 1948, sette anni prima di Bandung. Ma ne cattura lo spirito, che postula che sia giunto il momento di ripensare l’universale dopo l’irruzione del plurale sulla scena della storia e che quest’ultima non si identifica solo con l’Europa.
***
Molti autori che possono essere considerati pensatori postcoloniali hanno visto nella fine dell’universalismo europeo cui ho appena accennato la condizione per avviare la costruzione di un universale come orizzonte comune. È quanto afferma, ad esempio, Immanuel Wallerstein, quando nel suo libro sull’universalismo europeo (in cui mostra come la retorica di questo universalismo sia in realtà abitata e animata da quella del potere imperiale4) indica giunto il momento di un «vero universale». E non è un caso se tra coloro che potrebbero indicare la strada menziona Léopold Sédar Senghor. Così facendo, non vede in lui il difensore «dei valori della civiltà del mondo nero», ma il cantore della «civiltà dell’universale». Più precisamente: vede in lui colui che si oppose alla negazione coloniale con la sua «negritudine» solo per meglio proclamare il valore di tutti i volti plurali che le culture e le lingue del mondo conferiscono all’avventura umana e per meglio affermare il compito di costruire non una civiltà universale ma una «civiltà dell’universale».
L’amico di Senghor, Aimé Césaire5, un anno dopo la conferenza di Bandung espresse lo stesso obiettivo nella sua famosa Lettera a Maurice Thorez con cui presentava le sue dimissioni dal Partito comunista francese a colui che ne era allora il segretario generale. Nel suo testo, Césaire esprimeva naturalmente le stesse lamentele di molti intellettuali dell’epoca contro le azioni dell’Unione Sovietica (era il 1956). Ma il nodo cruciale era la denuncia di quello che definiva un «universalismo emaciato». Non poteva riconoscersi come un colonizzato nero nella versione dell’universalismo rappresentata dal Partito. Tuttavia, chiariva che non intendeva incarcerarsi nel suo particolarismo. Semplicemente considerava il fraternalismo universale comunista non migliore del paternalismo universalista coloniale. Vorrei ricordare le parole precise di Césaire:
Provincialismo? Niente affatto. Non mi sto seppellendo in un ristretto particolarismo. Ma non voglio nemmeno perdermi in un universalismo emaciato. Ci sono due modi per perdersi: murare la segregazione nel particolare o diluirla nell’“universale”. La mia concezione dell’universale è quella di un universale arricchito da tutto ciò che è particolare, un universale arricchito da ogni particolare: l’approfondimento e la coesistenza di tutti i particolari.
L’esigenza è quindi di partire dal plurale del mondo. Questo è lo spirito di Bandung. A questo spirito si oppone da un lato una reazione di destra, rappresentata dal Lévinas dell’Umanesimo dell’altro uomo, pubblicato nel 1972, dall’altro una reazione in linea di principio di sinistra, proveniente dal filosofo comunista Slavoj Žižek.
Riguardo a Lévinas, la questione che pone è la seguente: si può davvero pensare un universale senza la dimensione della verticalità, un universale che culture equivalenti, poste per così dire l’una accanto all’altra, si accorderebbero a progettare come orizzonte comune? Impossibile, cioè contraddittorio, decreta Emmanuel Lévinas nell’Umanesimo dell’altro uomo. Culture e linguaggi plurali ed equivalenti, tutti posti sullo stesso piano di immanenza: è un mondo de-occidentalizzato, ma è anche un mondo disorientato, scrive, giocando con le parole. Questo libro è reazionario nel senso preciso che, contro il corso delle cose post-Bandung e contro il plurale del mondo, tiene fermo che solo l’Europa, drizzata come un faro, ha la missione di mostrare all’umanità l’orientamento che deve far proprio. La decolonizzazione è necessaria? E sia. Ma bisogna allora perseguire con altri mezzi l’europeizzazione del mondo, perché corrisponde a una esigenza metafisica e deve avvenire continuamente perché fuori dalla Bibbia e dai Greci, ripete Lévinas, c’è solo la danza. Che, nell’Umanesimo dell’altro uomo, si configura come una «sarabanda di innumerevoli culture, ciascuna giustificandosi solo nel proprio contesto». Coltivare e colonizzare sono cose separate, dice Lévinas, il quale pensa quindi che la colonizzazione sia solo la forma accidentale assunta dall’eccellenza e dalla verticalità essenziali dell’Europa in quanto faro. L’Umanesimo dell’altro uomo è la cruda esposizione di un universalismo che vorrebbe indefinitamente un mondo coloniale senza colonizzazione. Questo è, ostinatamente, ciò che Achille Mbembe6 ha chiamato una «concezione centrifuga dell’universale»7.
L’eurocentrismo della vecchia scuola di Lévinas non è diverso da quello sostenuto da Slavoj Žižek, il quale ha sintetizzato il suo “Leftist Plea for Eurocentrism”8 (un attacco alle prospettive postcoloniali/decoloniali) affermando in un’intervista pubblicata su Libération: «Sono un eurocentrista, non credo affatto nell’idea che le tradizioni e culture locali e le identità parziali possano realizzare una qualsiasi resistenza al capitalismo globale»9. Naturalmente Lévinas parla dalla prospettiva dell’eccezionalismo europeo associato alla «destra», mentre Žižek parla da «sinistra», dalla prospettiva della resistenza al capitalismo globale, ma ciascuno è eco dell’altro perché hanno lo stesso modo di respingere lo spirito di Bandung in nome dell’universalismo.
Un’interessante discussione su questo eurocentrismo/universalismo si trova nel libro del mio collega della Columbia Hamid Dabashi, Can Non-Europeans Think?10. In quel volume c’è un saggio in cui Dabashi risponde all’attacco di Žižek contro i pensatori postcoloniali, in particolare contro Walter Mignolo, autore identificato con il pensiero decoloniale, che Žižek liquida con un aggressivo “F… Mignolo”. Dabashi a sua volta non ha esitato a dare a un capitolo del suo saggio il titolo: «F… Žižek!».
***
Dopo questo scambio di insulti torniamo alla domanda: è possibile invocare (perseguire) quello che Aimé Césaire chiamava un «universale ricco di tutti i particolari» e Immanuel Wallerstein «un universalismo veramente universale» nello spirito di Bandung? Oppure la rivendicazione dell’universale è sempre una macchina da guerra contro il pluralismo e il multiculturalismo?
La mia risposta consiste nel riconciliare il mondo postcoloniale di Bandung con «l’universale come orizzonte e traduzione». Ciò presuppone (1) una decostruzione dell’eccezionalismo filosofico dell’Europa; (2) una concezione dell’universale che non sia negazione della pluralità delle culture e delle lingue ma che trovi in questa stessa pluralità la propria ragion d’essere.
Sulla necessità di decolonizzare la storia della filosofia e collegare universale e università: una riscrittura dei manuali di storia della filosofia in tal senso equivarrebbe a dimostrare che è semplicemente sbagliato ritenere che questa storia sia costituita da un’unica traiettoria lineare (la Bibbia e i Greci) che porta da Gerusalemme ad Atene, poi a Roma e infine a Parigi, Londra, Heidelberg e altre università europee. Infatti la translatio studiorum, ovvero il trasferimento/traduzione della filosofia greca, è passata attraverso molte lingue diverse dal greco, dal latino e dalle lingue europee, e ha seguito molte strade, ad esempio da Atene a Nishapur, Baghdad, Cordoba, Fez, Timbuctù, capitale intellettuale degli imperi del Mali e Songhai.
Il nostro curriculo di base alla Columbia è incentrato attorno al corso sulla civiltà occidentale. Senza ignorare le polemiche che circondano l’espressione stessa di «civiltà occidentale», l’apertura del programma ha l’«universale come orizzonte e come traduzione». Questa apertura è segnata dalla presenza nelle letture di testi «non occidentali» come il Corano, Hayy ibn Yaqzan di Ibn Tufayl, La Liberazione dall’errore di Al Ghazali o il Trattato decisivo di Averroè.
Riguardo al secondo punto, torno brevemente a Lévinas che, nella sua difesa dell’Occidente come unico luogo capace di accogliere verticalmente l’universale, si fa beffe del concetto di universale «orizzontale» o «laterale»: egli considera puro ossimoro l’idea che culture e lingue differenti possano incontrarsi e tendere insieme, nella loro pluralità e orizzontalmente, per così dire, verso un orizzonte universale. Il suo bersaglio qui è l’autore dell’espressione «universale laterale»: Maurice Merleau-Ponty. Il quale riconobbe che viviamo in un mondo (il mondo post-Bandung, appunto) in cui l’universale verticale dello “strapiombo” deve cedere il passo all’orizzontalità della pluralità, dell’incontro e della reciprocità. «Si tratta dunque – secondo Merleau-Ponty – di costruire un sistema generale di riferimento in cui trovi spazio il punto di vista dell’indigeno, del civilizzato, e gli errori dell’uno sull’altro, di costituire un’esperienza allargata che in linea di principio diventa accessibile agli uomini di un altro Paese e di un altro tempo»11.
***
A proposito di questo «si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Sommario
  5. ICEBERG 1 universale, particolare, postcoloniale
  6. ICEBERG 2 ecologia: diritti degli animali, diritti della natura?
  7. SAGGIO
  8. ICEBERG 3 democrazia, partecipazione, verità
  9. INEDITO
  10. NOTIZIE SUGLI AUTORI