Una piccola figurina avvitata su se stessa coronata dal latte del marmo: è la Saffo di Auguste Rodin. Ne sorvegliano il passo incerto due ragazze, probabilmente le sue compagne. Oltre le loro silhouette gentili solo la brutalità informe della pietra ancora grezza. La scultura era parte della collezione privata di Hans Füstenberg e pare essersi smarrita in uno dei tanti saccheggi di opere d’arte perpetrate dai nazisti; cosí la creazione di Rodin diventa quasi la rappresentazione plastica del destino di oscurità e di luce, di perdite e di ritrovamenti che appartiene a colei che della scultura è stata modello.
Solo una foto: tanto rimane della piccola poetessa scolpita. Un frammento: viene da chiedersi se le sia stato mai concesso altro, se non una vita a singulti. Piccoli istanti perfettamente a fuoco in ogni dettaglio, mentre intorno, oltre le parole spesso mutile dei suoi canti sopravvissuti al naufragio, si addensano le ombre.
Eppure nel cerchio d’oro di quel che ci rimane Saffo trionfa: sempre al centro, sempre in aggetto, sempre protagonista.
La Saffo di Rodin è piccolina e vulnerabile, tuttavia il suo corpo ha la muscolarità burrosa e sensoriale che tanto scandalo ha destato nei contemporanei dello scultore. Pare che la sua poetessa fosse stata ritenuta troppo erotica, troppo audace e cosí scartata dagli acquirenti del Metropolitan Museum di Boston, che pure commissionarono allo scultore una Psiche, un Pigmalione e, persino, una Galatea destinati ad approdare nel 1910 nelle collezioni del museo.
I seni protesi in un vuoto antagonista, le gambe in bilico come se stessero scappando da un pericolo ignoto o volessero ritrarsi al sicuro nel ventre del marmo.
Il braccio sinistro che termina in una mano immensa, autonoma dal resto del corpo, come spesso accade alle mani di Rodin, che sembra coprire una porzione di seno, ma in verità chiude soltanto le labbra. Si diceva che le mani scolpite da Rodin molto si dovessero all’estro della sua musa Camille Claudel: amata fin dal primo giorno, quando si incontrano nell’atelier parigino di Alfred Boucher e lei è poco piú che bambina. Era il 1883. A lei lo scultore scriverà: «Grazie perché devo a te tutta la parte di cielo che ho avuto nella mia vita». Una traduzione siderale dell’amore che tanto sarebbe piaciuta alla ragazza di Lesbo; del resto la danza con l’aria era la sfida continua di Rodin e, anche, quella di Saffo.
E di certo il corpo della poetessa in questa nudità di neve non ha nulla del ritratto un po’ gotico che già gli antichi le dipingevano addosso: una figurina secca secca e nera, come le vecchiette sedute fuori dalle case di sera, dopo mesi o anni di lutto stretto, o un usignolo avvolto da piume informi su un corpo piccino. Né è la sorella gemella di Virginia Woolf come la immaginava Lawrence Durrell. No, niente lutto per la Saffo di Rodin, solo la carezza di una tempesta immaginaria.
Negli stessi anni in cui il Metropolitan decideva di non accogliere la scultura di Rodin nella sua collezione permanente, un giovane Rilke militava come segretario del vecchio maestro: una devozione assoluta quella di Rilke per Rodin, durata fino al 1913 (lo scultore muore nel 1917). Commuove anche solo sfogliare la loro corrispondenza di quegli anni e constatare il trasmutare della devozione del poeta per l’artista, «stimato, illustre maestro», in amicizia, «amico carissimo, amico mio caro» fino al «caro e grande Rodin» del 1913.
Nel 1907 Rilke dedica a Saffo e Alceo una poesia, Saffo ad Alceo. In una lettera alla moglie del 25 luglio di quell’anno, il poeta rivela di essersi ispirato a un cratere famoso esposto a Monaco. Sul canestro di coccio del vaso, Saffo e il suo contemporaneo Alceo si fronteggiano: lei risoluta e fiera imbraccia, come Alceo, il barbitos, una sorta di lira oblunga con una cassa di risonanza piú piccola che si suonava con il plettro, come se fosse una chitarra. E in effetti sul vaso, dipinto probabilmente intorno al 470 a. C. dal pittore di Brygos, c’è anche il plettro, appeso a una cordicella. Saffo tiene il mento alto e si intuisce come già allora fosse una pop star: non c’è nulla di arreso o subalterno che denoti una presunta «fragilità» femminile. Al contrario Saffo è pienamente consapevole della sua grandezza. Forse per questo Alceo le sta di fronte con lo sguardo rivolto verso il basso e il barbitos poggiato su un fianco con poca convinzione. Dalla sua bocca precipitano tanti cerchi vuoti che stanno per la sua incapacità di proferire parola di fronte all’incanto della poetessa di Lesbo.
Alceo pare provasse per Saffo un’ammirazione molto vicina all’adorazione. In un frammento giustamente famoso, attribuito d’abitudine ad Alceo, il poeta sgrana come i vaghi di una collana una manciata di epiteti che non stonerebbero neppure se fossero indirizzati a una dea:
Veneranda Saffo, crine di viola, sorriso di miele
[fr. 384 Voigt]
Basterebbe questa minuscola serenata per restituire al lettore una parte non piccola del mondo di Saffo: il profumo delle viole e il velluto cangiante dei suoi capelli, il miele, il sorriso, quella sorta di brivido che ti coglie di fronte a una forma di sacralità che non necessariamente prelude a un contatto con il divino, ma è emozione e mistero.
Nella poesia di Rilke Saffo si stacca dalla bidimensionalità del biscotto del vaso per rivolgersi ad Alceo e parlargli di Mitilene che «come un giardino di meli profumava di notte | al crescere dei nostri seni»: la città, il suo profumo, i giardini si fondono con il corpo della poetessa e di chi come lei sapeva preservare il segreto del «fiore dolce della giovinezza».
È la Saffo sensoriale di Rodin ad affacciarsi nella poesia di Rilke: un corpo femminile che è insieme parola e isola, poesia e città. E c’è anche lo stesso spazio, insieme metafisico e reale, che fa da scenario ai versi di Saffo. Anzi l’isola non è un semplice fondale, ma qualcosa di simile al dio paesaggio di pavesiana memoria: vivo, palpitante, mobile. Una rete di simboli e un trionfo di profumi e di prati calpestati.
I giardini saffici sono un erbario raccolto di pochi odori: l’aneto, il cerfoglio selvatico, il meliloto fiorente. Soprattutto ovunque trionfano le rose: rose nei boschi e nei prati, rose nei serti, nelle ghirlande. Nel frammento 2, tra i piú belli della poetessa, i cespugli di rose sembrano abitare giardini ben lontani dalla partizione disciplinata di quelli inglesi: non ci sono viottoli e ghiaietto, ma fusti di rose alti al punto da proiettare ombre che si intrecciano con quelle dei meli. Sul terreno scorre una fonte di acqua fredda, le foglie stormiscono. Lí accanto un prato diventa un pascolo per le cavalle, fiorito com’è incessantemente in un’eterna primavera:
Dal cielo…
qui da Creta… tempio
sacro, dove sboccia di meli
un bosco e dagli altari si leva
il fumo d’incenso,
e una fresca corrente scintilla fra i rami
di melo. Si allunga a terra l’ombra
delle rose, e il sonno scende
allo stormire delle foglie…
Il pascolo delle cavalle è tutto un fiore
di primavera, dolce soffia una brezza.
Vieni, qui, Cipride e… prendi,
in coppe d’oro con eleganza leggera,
versa nettare mescolato alla festa.
[fr. 2]
È questo lo spazio in cui Afrodite è invitata a comparire, con quei perentori: «qui», «qui», con cui si aprono i versi. E la rosa è da sempre il suo fiore. La dea ne conosce persino il potere taumaturgico: nell’Iliade, ad esempio, è olio di rose quello con cui unge il corpo di Ettore per preservarlo dallo scempio a cui di lí a poco Achille avrebbe sottoposto il cadavere e per tenere lontani i cani, mentre Apollo pietoso guida dal cielo una nube nera per proteggere il figlio di Priamo dai raggi del sole (Iliade 23, vv. 185-191).
Le rose hanno un profumo intenso e caduco: saturano d’imperio il paesaggio olfattivo. Cosí accade nella poesia di Saffo: le rose non sono soltanto i fiori della dea che della poetessa pare compagna, ma adornano i riccioli biondi di una ragazza che sta per andare sposa; compaiono come anelli sulle dita della luna. Abitano i giardini segreti delle Muse, in Pieria, in Macedonia, cosí che non sapresti ben dire se siano chiamate a evocare l’amore e la sua caducità, la giovinezza e la seduzione, la presenza della divinità o se anche richiamino per metonimia l’incanto stordente dei versi della poetessa di Lesbo.
In ogni caso, tanta sfacciata predilezione aveva spinto Meleagro di Gadara, poeta filosofo del I secolo a. C., a concedere a Saffo una corona intrecciata di sole rose: di Saffo pochi fiori, purché siano rose, scriverà nell’introduzione alla sua antologia di poeti intitolata La ghirlanda dei poeti (Antologia Palatina 4, 1). E stupisce persino un po’ che questo maestro siriaco della poesia dell’eccesso, inventore di nuovi accostamenti di parole, destini alla poetessa di Lesbo un bouquet composto da un unico fiore.
Accanto alle rose, piú timidi e discreti, fioriscono fra i versi giacinti e prati di loto profumato sorvegliano il mondo dei morti, con quelle corolle esauste che affondano le radici nell’acqua delle paludi. E poi, quietato il disorientamento olfattivo indotto dalle rose, ecco fare la loro comparsa le viole: sono un’ombra fra i seni e nell’incrocio delle gambe (fr. 30), la materia di cui è fatto il ventre di una giovane donna contrapposto al tremolio della vecchiaia (fr. 21) e l’alito profumato del seno di una Musa (fr. 58c). Nel celebre frammento dell’addio (fr. 94) diventano la memoria di una stagione passata in cui si intrecciavano in serto con le rose: vorrei davvero essere morta, lamenta un’amica sconosciuta sul punto di partire per sposarsi. A lei come un balsamo Saffo rammenta allora il profumo dei giardini trascorsi: le corone di rose e di viole, le ghirlande di fiori, gli unguenti, i morbidi letti, forse un tempio o uno spazio sacro.
Il giardino, il giaciglio, il collo della ragazza: tutto è apalós, un termine difficile da tradurre che descrive la categoria della morbidezza. Una morbidezza osmotica e contagiosa che, nei luoghi della poesia greca, non solo saffica, si trasferisce da un fiore all’ansa di un collo, da un cuscino alle braccia di una giovane donna colta nella vulnerabilità del sonno. È una categoria dell’anima, perché dà un nome a quella fragilità risoluta e tenace che appartiene all’età piú delicata di un fio...