Il bacio della Medusa
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Il bacio della Medusa

  1. 456 pagine
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Il bacio della Medusa

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Informazioni sul libro

Lo straordinario esordio di Melania Mazzucco, un romanzo sul desiderio e sull'amore che incanta e commuove. «L'inizio di una carriera letteraria costellata di molti altri magnifici libri, tradotti a tutte le latitudini».
Silvia Ricci Lempen, «La revue de belles-lettres» «Con una scrittura di grande respiro, ricca nei dettagli, Melania Mazzucco ci svela il destino di due donne molto diverse».
«Hamburger Abendblatt» «Un libro bellissimo, una vera scoperta».
Natalia Aspesi, «Elle» «Un romanzo ricco, intenso, doloroso».
Simonetta Bartolini, «il Giornale» 1905. Nel giorno delle sue nozze con il conte Felice Argentero, la giovane Norma Boncompagni, figlia di un professore universitario fiorentino, incontra per la prima volta lo sguardo lontano di Medusa, bambina selvatica e scontrosa. Sono diverse per educazione, ambiente sociale, esperienze. Eppure sono destinate a incrociarsi di nuovo e a lasciarsi travolgere da un amore vitale e scandaloso che sovverte tutte le convenzioni e cambia per sempre le loro esistenze. Con uno stile che possiede profondità, eleganza, grazia, Melania Mazzucco ci trascina dentro una storia feroce e appassionata, che conquista con i suoi personaggi indimenticabili - cosí fragili e cosí complessi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439807

Parte seconda

S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l’effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?
FRANCESCO PETRARCA
PRIMO MOVIMENTO

La soglia dell’essere

Una serie ininterrotta di impronte – lunata scia di ferri di cavallo – biancheggiava sulla strada nazionale, ridotta in quei giorni di marzo a un canale scavato tra altissimi cumuli di neve. Le stipendiate compagnie degli spalatori avevano fatto un buon lavoro, battendo, spianando, gettando sale e segatura. Lo spartineve, trascinato da una dozzina di robusti muli e condotto con maestria da altrettanto robusti guidatori, aveva percorso continuamente le non esigue distanze tra i villaggi. Cosí, dopo quasi una settimana di beltempo, le comunicazioni fra alta e bassa valle erano state ripristinate, e al rintocco delle nove, puntuale, da Argentera era partita la vettura pubblica a dodici posti delle Autolinee Argentero – servizio appena istituito dal vulcanico onorevole eponimo a pro dei valligiani suoi fiduciosi elettori, che per sole cinque lire e in appena due o tre ore potevano raggiungere il fondovalle, Borgo San Dalmazzo e la civiltà. A pro dei suoi elettori: parenti e familiari non dovevano servirsi del pesante e disagevole automezzo. Sicché non era la vettura pubblica delle Autolinee Argentero quella che i rari valligiani sfaccendati ai bordi della strada videro volare giú per la discesa, verso Vinadio, e poi imboccare la dismessa strada del vallone di Sant’Anna: era un mail coach lussuoso, con le tendine tirate. Il viaggiatore sfidava le previsioni meteorologiche (bollettino unanime: precipitazioni nevose sui rilievi) e il buonsenso: aveva fretta di arrivare.
Nell’abitacolo immerso nella penombra il freddo penetrava dagli interstizi, dal pavimento, dal finestrino vanamente serrato, e Medusa rabbrividiva, nonostante la pesante coperta di lana shetland che la signora Argentero le aveva offerto e appoggiato sulle ginocchia. La “signora”, poiché in quel momento non aveva altro nome. Dal suo respiro si levavano nuvolette di vapore condensato, e i vetri completamente appannati nascondevano il panorama, impedendo distrazioni paesaggistiche. Non che lo spettacolo della valle imbacuccata di neve potesse suscitarle qualche sussulto, ma doveva pur passare il tempo, in qualche modo. Erano in viaggio da quasi due ore, e ancora la signora non aveva detto una parola: se ne stava lí, di fronte a lei, con il fagotto viola fra le braccia, abulica, completamente assente. Meglio cosí: nella nuova casa (nella vecchia casa che da sempre doveva diventare la sua, sebbene forse non a questo modo), Medusa voleva essere soltanto una efficiente cameriera alle dipendenze di una famiglia altolocata, numerosa, concorde. Una cameriera adibita ai pranzi, alle cene, alle spese e ai bucati, resa ottusa dalla ripetizione meccanica dei medesimi gesti, dall’indifferenza con cui doveva eseguirli e dall’encefalogramma piatto dei sentimenti personali esclusi da ogni transazione lavorativa. Non sapeva se voleva restare a lungo al servizio della signora: sapeva solo che adesso si rintanava nell’angolo piú lontano del sedile come ieri in quello piú buio di una stanza nella quale era già stata, una volta, bambina, e che pure non riconosceva perché la sua memoria gliela aveva serbata impacchettata in carta rosa, ricamata di sfumature calde e vaporose, e invece il colore dei ricordi era invecchiato. Il salone le era sembrato perfino angusto: non c’era piú l’agrippina, non c’erano i quadri che si aspettava, e neanche il ritratto della contessa al pianoforte – solo la pelle dell’orso, ma irriconoscibile, la pelliccia smangiata dal tempo. Il trofeo si era ridotto a uno straccio polveroso, una specie di zerbino senza valore, e anche la padrona di casa non sembrava la stessa: non aveva piú la gentilezza incerta di una volta, né lo stesso sorriso, e il suo sguardo era reso distante da un altezzoso paio di occhiali, le cui lenti rotonde s’incastonavano in una superba montatura di metallo dorato.
L’inizio della sua avventura presso gli Argentero non era stato incoraggiante, nulla era andato come immaginava: si era trovata inserita di colpo nel meccanismo inceppato di un orologio le cui rotelle dentate e i cui sofisticati ingranaggi continuavano a macinare minuti, ore e giorni avvitandosi su se stessi, ma senza sincronia, quasi senza scopo. Era caduta in una galassia sconosciuta, in un labirinto nel quale regnava un ordine apparente e un ordine occulto, babelico e caotico, in una casa dove sembrava non esserci alcun bisogno di lei, in cui tutti sembravano occuparsi di attività sfuggenti e insulse. Dieci minuti dopo il suo ingresso nella residenza la vita di quella gente le era stata rovesciata addosso come l’acqua sporca di un catino, sotto forma di pettegolezzi, commenti, informazioni. E benché si fosse curata di evitarli ne sentiva già addosso l’odore – un odore di problemi, mascherati ma non guariti, come la crema cosmetica ed emolliente per le screpolature delle mani che le avevano regalato mascherava e non guariva le ulcere dei geloni.
Il fagotto viola era invisibile, sepolto sotto le coperte. Medusa era divorata dalla morbosa curiosità di sbirciare nel batuffolo di lana e doveva tenere occupate le mani, scrocchiando in continuazione le dita, per impedirsi di toccarlo. Era sempre stata curiosa, e non sopportava l’attesa: dover stare lí, inchiodata al sedile di velluto, a dieci centimetri dal mistero di cui tutta la valle favoleggiava da giorni, e non poter guardare. Ostentava indifferenza, annodava e sfaceva il nodo del fazzoletto che le pizzicava la gola, si mangiucchiava le unghie e le pipite, aderiva anatomicamente al sedile, chiudeva gli occhi: avrebbe potuto dormire, ma stanotte aveva dormito dieci ore e non aveva affatto sonno. Nella strada si apriva una voragine maligna, e in quei giorni gli astri si manifestavano benevoli a Medusa: cosí, a uno scossone particolarmente violento della carrozza, mentre le ruote affondavano e l’abitacolo scrollava energicamente, come volesse accasciarsi su un fianco, la signora rovinò fra le sue braccia, e nel viluppo di coperte, manicotti, ermellini e velette intravide nella lana una testina liscia e tonda, calva come quella di una bambola sparruccata. E intercettò due occhi chiari spalancati su di lei – due occhi inerti e vitrei che le comunicarono un immediato, invincibile senso di panico.
Vardte daj marcà d’Iddiou. Era quello il bambino-sirena con le gambe a coda di pesce, acqua nelle vene, e un’alga marina al posto del cervello. Chiacchiere di paese ne parlavano come di un demonio. La causa di tanta imperfezione: un incantesimo della potente masca locale, la decrepita Bruciera capace di trasformare uomini e donne in asini, capre, gatti e lepri, capace di far danzare pentole e scope, di evocare puerpere morte di parto in agghiaccianti tregende alla Serra del Bal e far marciare legioni di anime perse nel vallone dei morti. Racconti fantasiosi cui non si crede mai, salvo casi eccezionali. Questo era un caso eccezionale. «Se seve da part d’Iddiou parlé, se seve da part dl diau, fé vosta strà», esorcizzò a labbra serrate. «Crus, dí crus, escoupís». Lo scongiuro prevedeva uno sputo rituale, che la situazione rendeva impossibile. Medusa sputò mentalmente per immunizzarsi dal sortilegio. Eppure la Sirena non sembrava indemoniata: sembrava piuttosto una bambola, come quella che aveva visto ieri sera nel soggiorno della residenza, mentre Modestina, magnanima sebbene lievemente indispettita dal suo repentino avvento, le illustrava la disposizione delle camere e delle stufe, la dislocazione della cucina e degli alloggi. La bionda signora si accorse del suo istintivo moto di repulsione, si rannicchiò al suo posto, aggiustò la coperta sul fagotto, strofinò un guanto sul vetro e scostò la tendina. Fuori c’era solo neve, e neve, e neve.
Sbucavano dietro la curva le casette basse di Pratolungo, la strada s’infossava in un vallone profondo, incassato fra le cime del Lausetto e la Gorgia della Cagna. Il torrente schiumava fra i ghiacci frantumati, e si gettava nella Stura proprio vicino alle case della borgata. Lí si arrestò la carrozza, e lí il cocchiere scese a terra, tirando un sospiro di sollievo. Lo aspettava una lunga giornata di riposo – tra una partita a carte e una sonatina con la fisarmonica. La strada per il Santuario restava priva di manutenzione per tutto l’inverno, seppellita dalla neve: chiusa, inaccessibile al mail coach e ai cavalli. Davanti alla piola fumosa c’era una slitta, e un montanaro che si sfregava le mani guantate, attorniato dagli abitanti del paese. «La neu fude», dicevano, scuotendo la testa, alludendo al pericolo delle valanghe, «es tchaut». La gente di città pensa di poter comandare la natura a suo piacimento, ma la montagna è signora e padrona, e agli sprovveduti riserva brutti tiri, spesso meritati. La moglie dell’onorevole Argentero andava a cercare guai, per esempio. Guai per tutti, se le fosse accaduto qualcosa. Medusa desiderava vivamente tornare indietro, non sapeva nemmeno perché si trovasse in quel luogo, e l’idea di camminare con quel freddo non le garbava affatto. La contessa discuteva con il conducente della slitta, un montanaro atticciato con le orecchie violacee e il naso da pugile rosso come un lombo di maiale al sangue, che tentava invano di farla ragionare, spolmonandosi nel gelo. Medusa si aspettava una lunga trattativa, la contessa avrebbe implorato l’alpigiano di scortarla al Santuario e magari di portarcela in braccio, e dài e dài, e farij nen mej a ’ndé a cà, e tira e molla, alla fine il furbo montanaro avrebbe svoltato una clamorosa mancia. Invece lei disse «non voglio che mi accompagni, le sto chiedendo solo di portarmi al Baraccone. Mi porti su, per favore». Tutti le dicevano che avrebbe fatto meglio ad aspettare l’estate. «Non posso aspettare, devo andarci adesso!»
La grazia, pensava Medusa, indispettita, ma sant’Anna la grazia non la concede a tutti, solo ai veri fedeli, come sua madre – che tanti anni fa, in un memorabile, affollatissimo pellegrinaggio estivo, in una notte senza luna illuminata dalle fiaccole dei pellegrini aveva chiesto a Nostra Signora delle Montagne che suo marito, Minot Belmondo, all’epoca scomparso inseguendo qualche miraggio di felicità che aveva certo sembianze femminili, tornasse a casa. E due giorni dopo, sorridente come sempre, allegro ma temporaneamente pentito, Minot era tornato al focolare. Allora sua madre aveva percorso volando la lunga strada per il Santuario: e come la prima volta, Medusa, all’epoca di sette anni, l’aveva accompagnata, perché sua madre andava a deporre un solenne ex voto nella chiesa profumata d’incenso. Sull’ex voto, una rude statuetta di legno intagliato, c’era scritto solo “per Minot”, e certo doveva essere ancora lassú, fra le offerte, talune magnifiche, talune assurde – come quella che recava scritto “per mio figlio che non sposò” – che i beneficati lasciavano a ricordo della visita della grazia.
«Vi porto fino al Baraccone, ma poi non m’avventuro», diceva il conducente. «Lo so», rispondeva la signora, «vado su a mio rischio e pericolo… andiamo». Medusa la fissava, imbambolata. «Anche tu puoi restare al Baraccone, non ti obbligo. Se non vuoi venire con me, andrò da sola». Voce inespressiva e sguardo che chiede il contrario. Medusa la seguí sulla slitta. «Mi ven cun ti», disse, vagamente snervata. Superiore condiscendenza per lei, che da sola certo non sarebbe mai arrivata al Santuario e la grazia per la figlia Sirena non l’avrebbe potuta chiedere. Le ultime serpentine del sentiero erano molto ripide, e doveva esserci un pataflak di neve, lassú. C’era qualcosa di folle nella sfida della temeraria signora con la pelliccia d’ermellino e il demonio nascosto nel fagotto viola, e non si tirò indietro.
Si abbandonò sul sedile della slitta, e la signora le sedette accanto, offrendo in segno di riconoscenza di spartire con lei il manicotto imbottito. Medusa rifiutò con un cenno sprezzante del capo. La Sirena non si era resa conto di niente, né della sosta, né del cambio di mezzo di trasporto – indifferente a tutto, anche al cielo bianco e minaccioso, di nuovo scomparso sotto una coltre di nuvole basse. Medusa ancora non si capacitava della situazione: non riusciva a essere contenta di avere trovato un ottimo lavoro presso la famiglia piú ragguardevole della vallata. Quel tedioso mattino di marzo rappresentava il suo primo giorno di servizio presso la contessa Argentero. Aveva assunto proprio lei, Medusa la Franzesa, Medusa delle marmotte, la putan. A dirlo in giro sarebbe parsa una vanteria assurda – e infatti, temendo il potere dell’invidia, non aveva divulgato l’informazione, limitandosi a comunicarla ai familiari al momento in cui aveva raccolto le sue cose apprestandosi a lasciare Ferriere. Eppure non era contenta, per niente. Avrebbe preferito spezzarsi la schiena lavorando il fazzoletto di terra avara dei Belmondo, ma non voleva piú fare la serva, per nessuno. Non voleva rassettare letti, vuotare pitali, lavare stoviglie, sgusciare fagioli, smacchiare interminabili bucati. Non si era neanche resa conto di avere detto di sí. Un sí soffiato a malincuore, accompagnato da un cenno della testa che comunicava un unico messaggio: obbedisco. La contessa disse «vuoi cominciare domani?» e lei pensava che ancora una volta qualcuno voleva portarla via, doveva lasciare di nuovo la baita tutta nera, e la vacca, Toni naso di cane e la piccola Mera, e lasciare Ferriere ombelico del Tempo dove tutto comincia o tutto finisce – e stavolta, dopo tanti vagabondaggi, non aveva voglia di andarsene: voleva fermarsi, perché ogni volta che era partita si era illusa di stare meglio e poi era sempre tornata a casa, sola, delusa, senza bagaglio, e adesso di tanti anni di servizio altrove le restava solo un gran vuoto, dal quale perfino l’odio che credeva di provare per i Reynaud era fuggito. Al posto dell’odio c’era solo un buco, macerie fumanti di ricordi neutralizzati piú in fretta di quanto avesse creduto. Voleva fermarsi, diventare come tutti gli altri. Ma la signora la guardava e la guardava, Medusa annegò nei suoi occhi che erano verdi come le ipotesi, e disse di sí.
Avrebbe potuto servire chiunque, qualunque padrona, anche una vecchia grassa e alcoolizzata come Madame Reynaud, ma non questa donna. Non la Bionda dalle mani delicate e il sorriso profumato di fiori di Provenza che da molti anni aveva lasciato lo striminzito mondo dei suoi ricordi per entrare in quello segretissimo e assai piú sfrontato dei suoi sogni. I sogni a occhi aperti, sontuosi e dettagliatissimi, che dipanava mentre sorvegliava le vacche sui pascoli del Grand Bérard. I sogni erano dedicati agli uomini della sua vita – suo padre, Peru, perfino il conte – ma questi personaggi entravano e uscivano, mentre Lei era sempre lí: in quella nuova realtà riveduta e corretta dalla fantasia la casa di legno riscaldata dalla stufa apparteneva a Medusa, era Medusa la moglie del conte, e la Bionda si limitava a farle da serva – le portava la colazione, la cospargeva di borotalco, le spalmava la pomata profumata di ciliegia sulle labbra spaccate, riempiva la vasca, la insaponava e le accarezzava la schiena col tocco portentoso e indimenticato delle sue mani. Sogni che dileguavano al suono sordo dei campanacci, ma capaci di ripetersi invariati per settimane, mesi, finché in una conigliera la sognatrice aveva scoperto che si può fare indigestione di sogni, ed esserne sazi. A quella che tante volte le aveva detto «sissignora contessa» non poteva dire altrettanto, e non l’avrebbe detto mai.
E invece era seduta accanto a lei, sotto la coperta, sotto la pelliccia d’ermellino, e cercava di non guardare le sue mani, abbandonate sulla coperta e nascoste da un paio di guanti foderati di pelo. Cercava di non incrociare i suoi occhi. Quel verde brillante, reso lucido dal vetro delle lenti, la faceva pensare a un grande silenzio, alle pozze tranquille che i fiumi del Mijú formano tra le canne, alla vernice fluida che un imbianchino rimestava nel secchio prima di stendere sul portone di una villa. Verde, verde, verde. Tentò di sonnecchiare, invano. Sentiva contro il fianco la pressione di una coscia ignota, nell’aria si diffondeva un aroma di verbena, resina e biscotti, ma forse era un’illusione del suo stomaco vuoto. La slitta si inerpicava nel bosco, e già dietro i rami si intravedevano le case della borgata Puà, e la fontana gelata – ed era a disagio, strozzata in un abitino che non era il suo, ma aveva vestito quella medesima donna che fingeva di non accorgersi della sua presenza, sballottata in una slitta stretta e scomoda, e alle undici della mattina, sebbene non avesse fatto nulla e avesse inaugurato un comodo modo di lavorar oziando, aveva di nuovo fame. Tuttavia, nonostante l’ozio, avrebbe preferito essere altrove, perché la compagnia non era delle piú allegre, e una malia, una fattura, un malocchio, aleggiava in quel lugubre bosco.
«Qual è il tuo vero nome, Medusa?» disse a un tratto la signora, svagatamente. «Maddalena». «Non ti si addice. Medusa è un bellissimo nome. Ti chiamerò Medusa anch’io». Il suo nome rimbalzò nell’aria tagliente, poi si spense e fu di nuovo silenzio, la voce rauca del conducente che incitava i muli in un punto particolarmente ripido della salita. Eeehh op, eeehh op, op, op. La strada si apriva come un taglio di coltello fra i massi inerti del vallone e sbucava sul torrente muto, impaniato sotto una coperta di ghiaccio, scavalcandolo con uno strettissimo e ardito ponticello. Stavolta il prolungato silenzio – squarciato dal verso angosciante di qualche rapace – aveva un rintocco vagamente sinistro, e anche la signora dovette pensarla come lei, perché inaspettatamente parlò di nuovo. «Questa è Angelica», disse, alludendo alla Sirena nel fagotto viola, «la mia bambina, non vi ho ancora presentate».
Medusa gettò un’occhiata distratta alla Sirena, e di nuovo incrociò quegli occhi vitrei, e di nuovo ne ebbe paura. Vardte daj marcà d’Iddiou. A parte gli occhi, per quel che poteva vedere, la famosa Sirena era una bambina come tante altre, forse troppo piccola, forse troppo silenziosa – in tre ore, neanche un gemito – comunque normale, non mostruosa come si diceva in paese. La signora la guardava, arricciolandosi una ciocca di capelli fra le dita, e sembrava aspettare qualcosa da lei: forse un complimento, uno qualunque. Sono cosí stupide le donne, si accontentano di poco, non bisogna sforzarsi piú di tanto per cattivarsele. Ognuna ha il suo punto debole. Madama Reynaud aveva il sidro. Intuito infallibile le diceva che il punto debole della signora era in quel fagotto viola. «Ah», constatò, non riuscendo a dire altro. Si sporse verso il fagotto, e accarezzò la testa calva della piccola. Al tocco della sua mano la Sirena non ruotò neppure gli occhi, non si mosse – era pietrificata e inerte come un blocco d’alabastro. Un’immobilità innaturale che agghiacciava. Che ha, perché non si muove? voleva chiederle. Voleva una risposta qualunque, per arginare lo sgomento, ma la signora continuava ad arricciolare una ciocca di capelli fra le dita, e non capí. «Puoi prenderla in braccio, se vuoi», disse.
Medusa non si era mai trovata in una situazione simile, non sapeva cosa fare. Era entrata in casa di questa donna come si entra in una stazione per intraprendere un viaggio di lavoro: ci si inoltra nei corridoi delle carrozze con le valigie pesanti di abitudini, chiedendosi solo quanto lungo sarà il viaggio, il treno porterà ritardo? chi verrà a sedersi nel nostro scompartimento, un seccatore, un importuno, una famiglia chiassosa? Medusa era uno di quei viaggiatori che rifuggono la compagnia e si siedono solo in uno scompartimento vuoto, tirano le tendine sperando che nessuno osi entrare: che nessuno osi rivolgerti la parola, che non ti offra uno spuntino, che non voglia farsi prestare il giornale, che non ti racconti la sua storia, che ti lasci dove sei, accanto al finestrino, assorto. Non voleva lasciarsi implicare nell’esistenza di un’altra persona e anche per questo non voleva prendere in braccio la sua Sirena. Alzò le spalle, e distolse lo sguardo: la strada si elevava, tornantando, slargava in vista dello sbocco del Vallone di Maladecia. Gli alberi sgocciolavano in un silenzio stregato, rotto appena dai colpi ritmati degli zoccoli dei muli. La Sirena sembrava fissare il cielo basso, gonfio, bianco sporco, opprimente. Quella sagoma immota, composta, rappresa, abbandonata fra le braccia della signora – un oggetto che nessuno reclamava, privo di utilità, plastico, assurdo, aveva una persistenza dolorosa, una concretezza assillante, ipnotica. Un fantasma scolorito che ammaliava come un incantesimo. Il male è contagioso. Medusa aveva una paura irrazionale di quel fagottino e anche della madre ancharmata. Paura di essere risucchiata in quel vuoto di immobilità e silenzio. Le venne un desiderio insano di lasciarla cadere giú dalla slitta. A tumbà. A tumbà, che malor! Sfracellare la Sirena nel burrone, o soffocarla con la copertina. Le tirò la coperta fino alla fronte, per nascondere quegli occhi bluastri che sembravano biglie nelle orbite di un animale imbalsamato. La signora strinse a sé il fagotto. Medusa contemplò ottusamente la punta bagnata delle sue scarpe: sentiva di dover dire qualcosa, poiché l’aveva offesa, ma aveva la mente vuota come un fiasco dopo un banchetto.
Norma affondò il viso nella lana soffice della coperta. Nascondersi, scomparire, celarsi agli occhi di un’estranea indifferente al suo immenso dolore. Una giovane zotica, ingrata, insensibile che come tutti gli altri, tutti, aveva paura della sua inerme bambina. Angelica che aveva la vita apparente, inoffensiva e sottomessa di una banderuola che vortica sul tetto a ogni colpo di vento, che le avevano strappato dalle viscere come fosse parte integrante del suo corpo, che non aveva pianto venendo al mondo, che aveva la morte negli occhi e non riconosceva niente e nessuno, neppure sua madre. Sua madre. Angelica non rispondeva alle carezze, non le sentiva neppure: la sua presenza era un trucco ottico, irraggiungibile, forse inesistente, nessuna strada portava a lei. Aveva un solo dono: ispirare universale ribrezzo. Scomoda, cosí piccola eppure tanto voluminosa – concettualmente voluminosa. Tutti volevano liberarsene come di un ingombro, una suppellettile biedermeier che parenti privi di gusto hanno donato e che non sarà mai degna di figurare nella vetrinetta del nobile soggiorno. Un regalo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il bacio della Medusa
  4. Preludio
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Finale
  9. Passi sulla neve
  10. Parole verdi sullo schermo grigio
  11. Il libro
  12. L’autrice
  13. Della stessa autrice
  14. Copyright