Il Duca
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Il Duca

  1. 450 pagine
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Un paese di montagna, un'antica villa con troppe stanze, l'ultimo erede di un casato ormai estinto, lo scontro al calor bianco tra due uomini che non sembrano avere nulla in comune... Quanto siamo fedeli all'idea di noi stessi che abbiamo ricevuto in sorte? Matteo Melchiorre ha costruito una storia tesissima ed epica sulla furia del potere, le leggi della natura e la libertà individuale. Un romanzo che ci interroga a ogni riga sulla forza necessaria a prendere in mano il proprio destino: «il modo giusto per liberarsi del passato non è dimenticarlo, ma conoscerlo». L'ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano piú a nessuno, sembra distante. L'ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca». Sospeso tra l'incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire. Ci sono libri che fin dalle prime righe fanno precipitare il lettore in un mondo mai visto prima. L'abilità dell'autore sta nel mimetizzarsi tra le pieghe della storia, e fare in modo che abitare accanto ai personaggi risulti un gesto tanto istintivo quanto inevitabile. È quello che accade leggendo Il Duca, un romanzo classico eppure nuovissimo, epico e politico, torrenziale e filosofico, che invita a riflettere sulla libertà delle scelte e la forza irresistibile del passato. Con una voce colta e insieme divertita, sinuosa e ipnotica - inusuale nel panorama letterario nostrano - Matteo Melchiorre mette a punto un congegno narrativo dal quale è impossibile staccarsi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439609
VIII.

Nero assoluto

Capitolo primo

Il funerale di Fastréda si svolse cinque giorni dopo la scoperta del suo cadavere. La chiesa di Vallorgàna, naturalmente, non bastò. In molti, tra quanti vollero accompagnare a sepoltura un uomo di cosí grande reputazione e morto in circostanze tanto singolari, furono perciò costretti ad accalcarsi sul portone della chiesa stessa, che durante tutta la cerimonia rimase spalancato sulla luce di un pomeriggio autunnale che dell’inverno aveva già i toni stinti e l’aria affilata.
Poco prima che iniziasse la funzione qualcuno sussurrò che non si vedeva la chiesa cosí piena da tanti e tanti anni, e che anche allora era stato un funerale; ma quella volta non era stato il funerale di un uomo anziano, come Fastréda, bensí di un giovane di giusto sedici anni, andato giú dritto con la moto nelle grave del Fragolfo, proprio qua, due curve fuori il paese.
Don Attilio celebrò il funerale di Fastréda profondendovi una rarissima solennità, intonando di persona i canti poi ripresi dal coro e concedendosi di tanto in tanto, nel corso della liturgia, degli inconsueti silenzi. E quando, raggiunto il pulpito, si accinse alla predica, momento che i paesani attendevano, cosí mi parve, con particolare curiosità, don Attilio pronunciò un sermone memorabile: composto, vigilato, con innumerevoli e appropriate citazioni. Ricordo ancora come egli abbia raccontato dapprima, benché soltanto per sommi capi, la vita di Fastréda per poi addentrarsi nello sviluppo di due temi; temi che a suo giudizio costituivano, affermò, «il lascito di Fastréda alla nostra comunità».
Il primo tema fu «l’amore per la propria terra». Mario Fastréda, disse infatti il nostro prete, avrebbe potuto vivere in Venezuela, laddove era emigrato in gioventú; ma amandola «piú di ogni altra cosa» egli aveva scelto di tornare nella propria terra. E per la propria terra, continuò don Attilio, Fastréda spese poi l’intera sua vita, non mancando di agire, oltre che per l’agio della sua famiglia, per il bene del prossimo; e qui io non potei non pensare al rogo della casa del gastaldo. Fastréda ha consigliato il prossimo, insisteva don Attilio, ha aiutato, ha offerto mediazioni, ha concepito iniziative, ha migliorato insomma, concluse, per quanto possibile, la propria terra.
E allora, citando la Genesi, nel passo in cui dice, all’incirca, che la terra in cui nasciamo è il giardino che Dio ha dato all’uomo affinché lo custodisca e lo coltivi, don Attilio poté inoltrarsi nel secondo tema della predica: «il lavoro che santifica l’uomo».
Lo introdusse con un’altra citazione, ma stavolta dal Vangelo: «Non è costui», disse don Attilio, «il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?» Con queste parole don Attilio volle insomma dare a intendere che come il figlio di Dio, per lungo tempo e per gran parte della propria vita, aveva vissuto del lavoro delle proprie mani, cosí Mario Fastréda aveva sostenuto quotidianamente la fatica del lavoro, aveva portato ogni giorno la sua propria croce e aveva consacrato in tal modo la sua non breve peregrinazione terrena.
«E noi tutti sappiamo», disse infine don Attilio infilando un’improvvisa tonalità rimproverante, «che l’anima di Fastréda non vagherà nel vuoto, poiché abbiamo conosciuto il suo amore per la vita». Detto questo, il nostro prete si fermò, alzò gli occhi dal leggio su cui stava il foglio dei suoi appunti e ci guardò. Capimmo subito che ci stava incolpando delle mormorazioni che camminavano per Vallorgàna e che a vario titolo davano per certo che Fastréda, in un modo o nell’altro, avesse inteso togliersi la vita.
Ricordo un’altra cosa del funerale di Fastréda. A messa finita, non ritenendo di dover necessariamente assistere alla sepoltura, stavo aspettando che il corteo sparisse dietro l’angolata del cortile dei Priani e che imboccasse, poco oltre, la strada che scende dritta al cimitero. Ero dunque fermo sulla scalinata della chiesa quando un cane tagliò di corsa attraverso la piazza.
Una volta che mi ebbe scorto, il cane si arrestò immobile e mi osservò con lo sguardo esaltato che hanno i cani allorché scappino dal loro gabbiotto o ne vengano liberati affinché sgranchiscano il loro rinchiuso torpore. Ma quello era un cane nel cui cuore, in quel frangente, doveva essersi risvegliato un supremo istinto. Dicono del resto che gli animali siano capaci di simili intuizioni. Quel cane esagitato era infatti uno dei cani di Fastréda. Potevo forse non essere un minimo toccato dall’estrema fedeltà di quell’animale? Doveva essere scappato di casa, cosí pensai, per venire a salutare il suo padrone; tant’è che non appena scorse il corteo funebre schizzò via per raggiungerlo.
Si venne infine a sapere che gli accertamenti effettuati avevano rilevato che Fastréda era morto a causa di un’ischemia cerebrale, seguita a tre altri analoghi ma meno gravi episodi precedentemente occorsigli. Era questa, dunque, la causa degli svenimenti di Fastréda nelle settimane che avevano preceduto la sua scomparsa. Ischemie, e la quarta di esse si rivelò fatale.
Proprio alla luce di queste conferme, godettero qualche giorno di meritata reputazione il carisma spirituale di don Attilio e la sua fama di fine conoscitore delle anime. Egli infatti aveva escluso per tempo l’eventualità di un gesto estremo da parte di Fastréda. Ma l’annuncio di una morte cosí ordinaria depresse e tacitò le fantasie dei paesani; e di questo non mi stupii. Mi parve singolare, invece, una cosa: il fatto che Fastréda non avesse materialmente compiuto il gesto di togliersi la vita cancellò del tutto la stranezza delle circostanze in cui egli comunque si trovò a morire. Non ci si chiese piú, infatti, perché Fastréda avesse lasciato casa propria senza dir niente a nessuno, con il buio, sotto la pioggia, riuscendo a spingersi in un luogo relativamente lontano e molto impervio quale il Bus del Caorón.
E se non riuscii a comprendere come i paesani avessero potuto dimenticare queste singolari circostanze, ancora piú incomprensibile mi risultò il fatto che a Vallorgàna, una volta condotto Fastréda a sepoltura, si fosse immediatamente smesso di parlare di lui. Il suo nome scomparve dalla bocca dei paesani. I suoi vassalli non celebrarono il ricordo dei suoi meriti, i suoi nemici non proclamarono i suoi torti e Fastréda passò oltre come una stagione.
Mi ero fatto l’idea, tuttavia, che i sodali di Fastréda mi avrebbero a quel punto guardato come il nemico sopravvissuto al buon re defunto, e che fossero pertanto destinate a fiorire nei miei confronti rinnovate antipatie. Ricevetti invece cortesie inattese. Quando mi risolsi a rimetter piede al bar di Rubino, ad esempio, il che avvenne un paio di giorni dopo il funerale, alcuni dei piú stretti vassalli di Fastréda lí presenti mi trattarono con affabilità distinta e riverente. Mi invitarono a sedere con loro. Mi parlarono. Mi chiesero se avessi letto sul giornale la tal notizia. Cose di questo genere, come fossimo stati sempre ottimi amici.
Anche don Attilio, che incrociai in piazza una mattina, mi fermò con la piú grande cortesia e mi chiese, con largo anticipo, se l’anno venturo fossi disposto a ridar vita, a beneficio dei parrocchiani tutti, alla vecchia e buona usanza della messa di San Rocco presso la cappella della villa. Ne fui innervosito: «Vedremo», risposi. E Luigi Tamburlín? Luigi Tamburlín, che sembrava destinato a prendere il posto di Fastréda, essendone peraltro cugino di primo grado, mi disse che era forse il caso, considerati i miei meriti e la mia generosità, che entrassi a far parte del Consiglio direttivo del Consorzio Strada della Montagna, magari non subito presidente, ma consigliere senz’altro.
Com’è possibile, mi chiesi allora, in un paese di poche anime soltanto, intorno al quale si aggirano i lupi, e con i vecchi che muoiono e con il bosco che corre verso di noi pieno di fame, com’è possibile, mi chiedevo, che si sia cosí svelti, come si suol dire, a voltare pagina? Può essere cosí grande l’ingratitudine del mondo?
I miei pensieri, a ogni modo, continuavano a vorticare intorno alle circostanze in cui si era compiuto il destino di Fastréda: il Bus del Caorón e le assonanze, che continuavo a ravvisare, tra la sua morte e quella del mio avo Giuseppe Cimamonte.
Non potevo perciò tollerare che Maria, invece di condividere con me questo gravissimo enigma, trascorresse adesso le sue giornate, come mi venne detto dalla Dina, nel governo del bestiame di Fastréda. Un giorno persi la pazienza e andai dritto da lei, con l’animo di farle presente che non poteva ostinarsi a rifiutare oltre lo sguardo di quella nostra sfinge.
La trovai di fronte alle stalle. Stava svuotando un sacco di mangime nella benna di un trattore. Naturalmente usai le dovute maniere. Avevo preferito attendere che la confusione dei giorni del lutto si diradasse, le dissi, prima di venire a portarle di persona, per il poco che potevano contare, le mie condoglianze. Lei mi ringraziò distrattamente, e cominciò a svuotare nella benna un altro sacco di mangime.
Allora, mentre Maria attendeva a quella sua mansione, iniziai ad accennarle i miei opprimenti pensieri; pensieri, dissi, che erano tanto miei quanto suoi, e forse, a ben guardare, piú suoi che miei; fermo restando che potevo comprendere che la ferita, come si suol dire, potesse essere ancora troppo viva, in lei, perché si rendesse conto che oltre al mangime v’erano questioni pur sempre bisognose di urgente spiegazione.
Maria posò a terra il sacco: «Non c’è niente da spiegare», disse.
«Niente?», incalzai. «Il Bus del Caorón. Le gambe di tuo nonno nella voragine. Ti sembra niente?»
«Bah», sbuffò. «Te l’ho detto. Se si fosse ucciso. Ma è stata un’ischemia. Non c’è altro. Una coincidenza pura e semplice, tremenda se vuoi, ma una coincidenza».
«Ma se invece avesse voluto uccidersi e non avesse avuto il tempo di farlo?», ripresi. «Perché mai, con quel tempo che c’era, e col buio, Fastréda è andato dove è andato? Questo dovrebbe bastare a metterti sul chivalà. Puta caso che volesse buttarsi dentro il Bus del Caorón, e che per qualche motivo, a noi ovviamente ignoto, volesse citare la morte di Giuseppe Cimamonte il mio avo. Si mette lí, con le gambe dentro il buco. Si prepara per quel gesto orribile e allora, attenzione: solo allora, l’ischemia… Chi può dire che non sia andata cosí? E se è andata cosí, e ripeto che non possiamo escluderlo, e se tuo nonno conosceva, perché la conosceva, la storia di Giuseppe Cimamonte, allora bisognerà pur domandarsi il perché di questa cosiddetta coincidenza».
«Tu sei pazzo», mi disse Maria. «Non ha senso. Lo vedi questo mangime?», mi domandò. «Le vedi queste stalle? Hai la minima idea di cosa significhino centoventi tra manze, tori e vitelli?»
Ciò detto volle che la seguissi dentro la stalla, in quella cattedrale dei bovini da carne nella quale ogni tanto si levava un muggito, cui rispondevano in coro altri muggiti, come se vi fosse una manza celebrante che intonava salmi funebri in onore del perduto pastore ai quali le altre manze rispondevano con la piú grande contrizione.
Maria mi indicò gli innumerevoli dorsi di quel bestiame, e ribadí che le cose da fare non si contavano, ed erano cose alle quali non era possibile sottrarsi. Lavoravano tutti senza sosta: lei, sua madre Luciana, la Luigia sua nonna e Rashmi. Quest’ultimo, passato dalla schiavitú alla libertà, pur con tutte le sue colpe, si trovava adesso a dare ordini; e meno male che c’era Rashmi, disse Maria. E meno male, aggiunse inoltre, che ogni tanto, la sera, a titolo di pura gentilezza, venisse a dare una mano anche Elio Marín.
C’erano poi, continuò Maria, le questioni contabili, non poche e a tutti sconosciute, perché di esse si era sempre occupato il solo Fastréda: spese veterinarie, accordi con le ditte di macellazione, gestione dei terzisti e cosí via.
Non so perché Maria ebbe l’idea che ebbe; sta di fatto che non appena giudicò completo l’affresco sulle difficoltà di governo dell’azienda, dichiarando chiusa, con ciò, ogni ulteriore discussione sul conto dei pensieri che ero venuto a proporle, mi condusse, pressoché a forza, dentro la casa del mio defunto nemico. Notai subito, all’ingresso, sull’appendiabiti, la giacca lisa di Fastréda e per terra, giusto sotto, un paio di ciabatte da uomo che giudicai essere indubbiamente appartenute allo stesso Fastréda.
Dopodiché venni introdotto in cucina e mi trovai davanti la madre di Maria e la Luigia. Per via dell’imbarazzo assunsi una rigidità e una compostezza degna di un mio avo in visita alla dimora di un proprio fittavolo. Espressi le mie condoglianze, non omisi di far presente che avrei subito tolto il disturbo, ma l’una e l’altra, la Luciana e la Luigia, mi trattarono con un garbo da non dire.
Mi venne offerta una sedia. La madre di Maria si sedette di fronte a me. Mi guardò. Disse che si ricordava benissimo di avermi visto, una volta, da bambino, tanti e tanti anni prima, quando ero «piccolo cosí», e indicò come metro di paragone il tavolo a cui sedevamo. E la Luigia, con non minore affettazione, giunse al punto di ritenere che io avessi lo stesso profilo di mia madre, donna, affermò, per le poche volte che l’aveva vista, di indimenticabile eleganza.
Queste due donne, pensai, parlando di simili idiozie e guardando le mie fattezze come se prima di allora non l’avessero mai fatto o non avessero osato farlo, stanno mettendo in scena non so che. Comunque sia le assecondai, e parlammo di innumerevoli sciocchezze, ma sul conto di Fastréda non venne fuori la minima parola. E infine, dopo forse una mezz’ora di chiacchiere, la Luigia si rese conto che non mi era stato offerto, maleducazione imperdonabile, alcunché da bere. Si affrettò a versarmi allora un bicchiere di nocino. Eccoti qua, pensai dunque di me stesso: eccoti qua, assistito dalle sue donne, a bere il nocino di Mario Fastréda.

Capitolo secondo

Alla luce delle pochissime occasioni in cui, nei giorni successivi, ebbi modo di incontrarla, o meglio di intravederla, Maria mi sembrò vittima dell’antica allucinazione per effetto della quale si finisce col credere che l’impegno, la buona volontà e l’abnegazione possano davvero governare le cose. Era infatti frenetica, frettolosa, e con questa attitudine, un pomeriggio, piombò nella corte della villa.
Mi disse che non aveva tempo, perché a momenti Elio Marín sarebbe venuto a spostare certe balle di fieno dal tale al talaltro posto; perciò la lasciassi parlare senza troppe domande. Era venuta da me, annunciò, per tre ragioni: primo, per scusarsi; secondo, per comunicarmi una decisione; e, terzo, per consegnarmi una certa cosa.
Quanto alle scuse, affermò che riconosceva di essere stata, ultimamente, un poco brusca. Dovevo perdonarla, disse, perché era tale il disordine generale che non riusciva a pensare che alle impellenze del momento, ovvero al «maledetto baraccone dell’azienda». Pazientassi, dunque, e non appena fosse tornato un po’ di sereno avremmo potuto ragionare insieme, e non solo del Bus del Caorón e delle strane coincidenze che a esso facevano capo, ma anche, disse, delle «cose lasciate in sospeso».
Quanto invece alla decisione che era sua intenzione comunicarmi, Maria premise che doveva prenderla un po’ larga. Proprio il giorno in cui avevo bevuto il nocino di suo nonno, trascorsa neanche un’ora, le si era presentata una persona che Maria definí «il peggiore degli uomini». Era un uomo dal ventre gonfio, con il collo corto, anzi: quasi senza collo, che le puntò subito il dito contro: «Sono qua a tirare i soldi», disse.
«Quali soldi?», domandò Maria.
«Il mangime», rispose. «Sono sei mesi che non vedo niente».
Il peggiore degli uomini era insomma il titolare di una ditta di distribuzione mangimi ubicata nella Piana, presso la quale Fastréda era solito rifornirsi. Negli ultimi sei mesi, cosí disse quell’uomo a Maria, aveva consegnato innumerevoli quintali di mangime senza però vedere un soldo. Maria, è ovvio, chiamò in causa la recente disgrazia ma il peggiore degli uomini continuò a non sentir ragioni.
Inesperta di simili trattative, Maria chiese di vedere allora, per cominciare, i documenti di consegna del mangime. Il peggiore degli uomini rise: le bolle di consegna, disse, sono appunto state consegnate insieme al mangime. Poi pronunciò una minaccia: qualora il mangime non fosse stato pagato entro una settimana, la parola sarebbe passata, senza ulteriori dilazioni, agli avvocati.
«La realtà», mi confidò allora Maria, «è che i soldi non ci sono. Mia madre si è informata. È andata nelle due banche dove stanno i conti di mio nonno. Soldi? Giusto quelli per pagare il funerale e poco altro. Perciò abbiamo deciso. Non è stato facile ma abbiamo deciso. Che cosa? Vendere tutto. La casa no, perché altrimenti dove andrebbe la Luigia? Ma il bestiame, le stalle, i macchinari e i terreni sí. Via tutto».
Liquidazione totale e definitiva dell’azienda di Fastréda, il che significa, pensai, rovina, tracollo e sfacelo. Poche settimane prima, a queste parole, avrei fatto squillare le trombe della vittoria, avrei intonato canti, avrei riso a piene fauci. E avrei schernito Mario Fastréda, ovviamente; e chissà, forse lo avrei anche provocato, cosí, per puro smacco, magari proponendogli di venire a fare il mio gastaldo.
Ma a quel punto, morto il nemico, estinto il gran furore della guerra, la decisione presa dagli eredi di Fastréda mi lasciò senza parole. Riflettei dunque in me stesso circa la straordinaria rapidità con cui l’impero di Fastréda fosse giunto in procinto di crollare, e come esso fosse dunque stato uno di quegli imperi coi piedi di ar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Duca
  4. I. La schiena del drago
  5. II. Le carte della boiserie
  6. III. Il sangue
  7. IV. Le maschere della discordia
  8. V. Riscatti
  9. VI. Il riccio di castagno
  10. VII. La stagione dei funghi chiodini
  11. VIII. Nero assoluto
  12. IX. Congiura d’astri
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Copyright