Erano quasi le otto e la luce bianca del mattino si gettava sghemba attraverso i finestroni del primo piano della Manifattura Tabacchi. A poco a poco, la distesa di tavoli da lavoro prendeva colore sotto i primi raggi che rischiaravano la stanza delle sigaraie. Fuori l’alito tiepido di marzo prometteva finalmente un po’ di caldo.
Tra non molto il signor Enzo, il sorvegliante, avrebbe spalancato i battenti accanto al suo tavolo e l’odore pungente delle foglie di tabacco che impregnava l’aria sarebbe scivolato fuori mischiandosi a quello del mare.
Alcune delle operaie erano già in fila per ritirare le commesse al bancone accanto all’ingresso, per poi sistemarsi alle proprie postazioni e cominciare a maneggiare trinciati e rollare foglie ruvide per tutta la giornata.
Lena e Annamaria, le più anziane, controllavano che le ragazze si dirigessero svelte al loro posto, per evitare che già di buon’ora qualcuna venisse rimproverata ma, ringraziando ’u Signure, in pochi attimi erano quasi tutte sedute e intente a organizzare il lavoro.
«Maria, Bastiana, voi due ieri un poco tardi avete finito» disse Lena perentoria. Aveva un fisico imponente e una crocchia di capelli che ormai erano più grigi che neri, di sicuro colpa dei dispiaceri più che degli anni. «Oggi vi dovete arruspigghiare tanticchia.» Poi si diresse verso il signor Enzo, in attesa che le leggesse il pizzino con gli ordini della mattinata.
Bastiana guardò la compagna in cagnesco e calò la testa facendo una smorfia. Maria sapeva che era solo colpa sua se avevano consegnato il lavoro in ritardo, ma non disse una parola, non ne aveva la forza: raccolse le mani in grembo per un attimo, fece un lungo respiro e prese un pizzico di tabacco sminuzzato.
Lavoravano in coppia, le sigaraie, e per questo bisognava essere veloci e coordinate, entrare subito in sintonia, intendersi al minimo cenno e divenire una cosa sola con la propria compagna. Non tutte ci riuscivano, Franca e Rosa sì.
Le due – Rosa riempiva e Franca chiudeva – si scambiarono un’occhiata, ma non si voltarono verso Maria. Non volevano che l’amica si affruntasse, le parole di Lena di sicuro l’avevano mortificata.
Il bancone che occupavano era accanto a uno dei cinque finestroni che si aprivano sulla grande parete a est, non troppo distante dal corridoio che conduceva agli uffici dell’amministrazione, il punto più ampio e luminoso di tutti, ma anche il più esposto agli sguardi. Sedevano un poco in disparte dalle altre, perché lavoravano alla produzione dei sigari di pregio, una mansione che pochissime di loro erano in grado di svolgere: ci volevano vista acuta, velocità e precisione certosina.
Erano belle Franca e Rosa, forse le più belle fra tutte le sigaraie. La prima scura di carnagione e mora, magra e scattante ma forte come il tronco di un leccio, la seconda dalla pelle chiara e delicata e con una chioma dai riflessi dorati. Delle due Rosa era la più in carne ma aveva un’eleganza innata nei movimenti che faceva risaltare i fianchi morbidi e il seno pieno.
Le dita di Franca e Rosa volavano, esperte e salde, senza mai fermarsi; solamente le vistose macchie scure di tabacco e le crepe sulla pelle ne scalfivano l’armoniosità. Franca alla manifattura era stata presa subito perché era sveglia e instancabile, una sarda viva proprio. Rosa era più lenta ma più accurata in alcune lavorazioni, per questo alle due ragazze dell’Arenella era stata affidata una partita speciale, quella dei sigari da mandare a Messina e che da lì avrebbero risalito l’Italia per soddisfare le richieste dei clienti più ricchi ed esigenti. Era un travagghio di mestiere quello, e loro il mestiere lo avevano nelle mani prima ancora che in testa.
Quella mattina un fastidioso pizzicore irritava la gola di Franca. «È una fabbrica di morte. Ci ammaleremo tutte» aveva appena finito di dire, poi aveva arrotolato la lunga treccia scura e se l’era raccolta sulla nuca, aveva infilato la candida cuffia di cotone e stretto i lacci attorno al viso, ma qualche ciocca sfuggiva sempre dallo scomodo copricapo che tutte erano costrette a indossare.
«Però intanto ci fa campare a tutte» sibilò Rosa di rimando, «sta’ zitta e travagghia, Fra’.»
Franca era incredula, non si aspettava quella risposta così secca dall’amica. «Ma comu si’?» replicò inchiodandola con lo sguardo.
Rosa non le diede retta, aveva già iniziato la preparazione del bozzo: toccava a lei avviare il lavoro e dare un ritmo ai gesti di Franca, non aveva tempo da perdere. Lavorava sempre canticchiando, muovendo appena le labbra piene e rosse che spiccavano sul viso diafano, una carnagione che si notava subito, così come i grandi occhi verdi, placidi e rassicuranti. Teneva le maniche della camicia arrotolate strette sopra il gomito per non avere impicci.
Franca slegò il primo mazzo di foglie e cominciò a metterle l’una accanto all’altra stendendole accuratamente. Mentre aspettava che Rosa terminasse la prima tripa, per un attimo controllò con lo sguardo che Maria stesse lavorando. Davanti a lei uno stuolo di donne coi capi incorniciati dalle cuffie lavorava in silenzio. Indossavano tutte le stesse camicie chiare e lo stesso grembiule nerastro, i volti chini sui grandi banconi di legno impregnati dell’aroma intenso e delle tinte scure delle foglie di tabacco. Franca vide che Bastiana stava già arrotolando il primo ripieno fatto da Maria, sembrava che tutto filasse liscio quel giorno, tutto tranne la sua gola.
«Se s’accorgono che c’hai la lingua troppo lunga, finisce che un giorno di questi ti trovi a spasso» le sussurrò Rosa, allungandole il piccolo involto da ricoprire. «Poi va’ a trovarlo un altro posto con la paga a giornata.»
Franca la guardò di traverso.
Rosa tagliò corto, non voleva essere richiamata dal signor Enzo. «Tu parli troppo.» Con un cenno del capo indicò l’accesso alla rampa di scale che conduceva al piano inferiore. «Pensa a quelle che stanno giù alle vasche che se la passano peggio assai e zittuti, vuoi fare a cambio con Mela?»
Franca scosse la testa, rammaricandosi per la nipote di Lena che di sfortune era piena come un otre di vino in cantina. «No, idda se la passa peggio assai di noi, e mica solo per il reparto dove travagghia» bisbigliò la ragazza, soffocando un colpo di tosse.
Franca non era certo il tipo da piegarsi alle regole e faticava a tenere a freno la lingua, ma al confronto di tutte le donne che al piano terra stavano con le mani a mollo nell’acqua, per ore e ore, poteva considerarsi fortunata. Afferrò con troppa foga la prima foglia da arrotolare, che le sfrigolò fra le mani. Mollò subito la presa e si costrinse a calmarsi. Posò il ripieno alla base della foglia più sottile e cominciò ad avvolgerlo stretto. Le dita si muovevano sapienti e rapide, strato dopo strato. Con pochi tocchi precisi realizzò il primo sigaro della giornata e lo depose sulla rete metallica bordata di legno che serviva per trasportare i prodotti finiti alla stanza dove avveniva l’essiccazione.
Franca era irrequieta quel giorno. Una tosse insistente l’aveva colta salendo le scale e sentiva grattare la gola a ogni respiro.
«Ro’, stamattina mi sento il fuoco qui» sospirò indicandosi il collo e, senza rendersene conto, il suo tono di voce si alzò troppo, seguito da un altro attacco di tosse, più forte del primo.
Rosa alzò gli occhi e vide Franca rossa in viso, per un attimo si allarmò. «Che c’hai?» le chiese, mentre l’amica si slacciava la cuffia.
«Non respiro con questi lacci» rispose Franca, gettando il copricapo a terra con stizza.
Il signor Enzo si alzò facendo stridere la sedia sul pavimento e le richiamò con un cenno. Bastò la sua espressione torva per riportarle al silenzio.
Rosa chinò subito il capo, quasi volesse recuperare i pochi attimi persi.
Franca riprese fiato, raccolse la cuffia e fece per rimettersela. «Ca manco ci si può affucare più, a chisto siamo arrivate. M’aio a tossire colla bocca chiusa, ma bedd’a virità» sussurrò con l’espressione di una che era bell’e pronta a cercarsi guai.
Rosa le lanciò un’occhiata che voleva dire una cosa sola: doveva tapparsi la bocca. Ci mancava solo che passasse Ninni. Come se Franca non sapesse quanto fosse camurriusu.
«L’erba che non vuoi nel tuo giardino è la prima che spunta» ripetevano le più anziane e quel giovane era peggio della gramigna.
Ninni, fortunatamente, stava nel suo ufficio quasi tutto il tempo, ma quando passava dallo stanzone delle sigaraie non perdeva occasione di maltrattarne qualcuna.
Il signor Enzo invece non era così, anzi, era un bravo cristiano, però la sua parte la doveva fare: spesso faceva finta di niente, ma non quando sentiva troppe chiacchiere o quando era il momento di dare il via al lavoro. Ogni mattina, dagli uffici arrivava un pizzino e il signor Enzo lo leggeva a Lena che, come tutte le donne che lavoravano lì dentro, non era in grado di decifrare quelle scritte. Nessuno si era premurato di insegnarglielo. Lui a leggere aveva imparato da piccolo, grazie al figlio del padrone per il quale suo padre lavorava: aveva avuto il permesso di assistere alle lezioni del precettore, a patto che stesse buono e in silenzio.
Dopo aver dato le consegne a Lena, per il resto del tempo se ne stava in disparte, seduto al suo tavolo a ridosso del finestrone vicino alle scale. Lì di luce ce n’era tanta e lui, che per anni aveva lavorato nei campi, si sentiva quasi all’aperto. In quei giorni di primavera, gli piaceva aprire la sua finestra e sporgersi a respirare a pieni polmoni l’aria satura di sale, di pollini, dell’umore della terra umida del mattino. Sapeva riconoscere ogni odore e sapeva prevedere che tempo avrebbe fatto solo osservando il cielo e annusando l’aria. Parlava poco, si vedeva che era in soggezione in mezzo a tutte chidde fimmine. Aveva grosse mani impacciate che non sapevano mai dove posarsi, allora si portava appresso qualche camurria da aggiustare, così gli sembrava di lavorare davvero anziché starsene senza far niente.
Se suo padre, che quando era vivo e in forze travagghiava chino sulla terra dall’alba al tramonto, avesse saputo che a Enzo lo pagavano per guardare il lavoro degli altri, gli sarebbe venuto un colpo.
L’enorme portale, incastonato fra due colonne di marmo grigio di Billiemi, si apriva sul cortile incorniciato da un possente loggiato sorretto da doppi pilastri. Lo zampillo della fontana di pietra emanava un gorgoglio rassicurante e regalava all’ingresso dell’elegante palazzo un’atmosfera di pace, coi canti degli uccellini che venivano ad abbeverarsi, posandosi sulla scultura di Diana sopra la vasca.
La duchessa Margherita, udendo quei rumori familiari, seppe di essere finalmente a casa.
Indugiò un poco attorno alla fontana prima di salire l’ampia scalinata che l’avrebbe condotta al piano superiore, un trionfo di sale e saloni di rappresentanza con soffitti affrescati, pavimenti maiolicati, stucchi e opere d’arte di pregio.
Lei e il marito si erano concessi un viaggio da sposini, anche se già erano passati due anni dal matrimonio. La verità è che non avevano ancora figli e questa cosa stava facendo chiacchierare la gente. La duchessa ne soffriva, sentiva di avere gli occhi di tutti puntati addosso, li sentiva gli sguardi che indugiavano sul suo ventre sperando di scorgere qualche novità. Più passava il tempo e più Margherita ne faceva una malattia.
Il medico le aveva consigliato di cambiare aria e pensieri, ché distrarsi a volte aiuta.
«La duchessa ha fatto buon viaggio?» le chiese il capo della servitù accogliendola sul pianerottolo.
La donna annuì sorridendo, percorse le prime stanze ed entrò per un attimo nel salone che si affacciava su via Maqueda. Dai balconcini, sulla sinistra, si potevano ammirare i Quattro Canti, il crocevia più bello della città, formato dagli imponenti edifici disposti attorno alla piazza ottagonale. Teatro del sole lo chiamavano, perché a ogni ora del giorno una delle facciate era sempre baciata dalla luce che faceva risaltare i ricchi decori, le fontane e le preziose statue con le sante protettrici care alla città. Quelle figure imponenti facevano sentire Margherita al sicuro.
La sua cameriera personale la trovò sul balcone.
«La duchessa vorrebbe rinfrescarsi un po’ prima di pranzo?» le chiese inchinandosi e sorridendole.
«Certamente sì, andiamo» rispose la giovane signora.
La cameriera l’accompagnò subito nella parte più interna del palazzo, dove si trovavano gli appartamenti privati, con le camere da letto del duca e della duchessa e i due boudoir adiacenti.
Lungo il tragitto incontrò il marito. «Ti vedo un poco stanca, che ne dici se pranziamo nella saletta piccola, noi due soli, così ti puoi rilassare?»
Margherita guardò il duca sollevata. Era un uomo dall’animo sensibile e lei sapeva di essere molto fortunata. «Ti ringrazio, mi eviteresti un cambio d’abito e potrei andare a coricarmi subito dopo aver pranzato. Come sai, non ho dormito molto in nave.»
Il duca diede ordine alla servitù di non apparecchiare nel salone. Del resto lui aveva il tempo solo per uno spuntino veloce: suo cugino, il baronetto, lo attendeva per una questione che aveva definito della massima urgenza.
Di sicuro voleva soldi, non era certo la prima volta che gliene chiedeva.
«Margherita cara, ti prego di scusarmi, ma ho una visita da fare. Sai, mi ha cercato il baronetto» disse il duca posando il tovagl...