Elvis e il Colonnello
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Elvis e il Colonnello

  1. 300 pagine
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Elvis e il Colonnello

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Sul Colonnello Tom Parker sono fiorite mille leggende: "l'uomo che fece Elvis Presley" è uno dei personaggi più ambigui e misteriosi all'ombra della stella più luminosa dello show business moderno. Questo libro ricostruisce i mille volti del Colonnello, raccontandolo dall'inizio: prima di intraprendere la carriera di manager, Parker giunse clandestinamente negli Stati Uniti a poco più di vent'anni, cambiò nome e mantenne per tutta la vita il segreto sulle sue origini olandesi. Impresario teatrale di spettacoli circensi prima, poi promoter di musicisti, uomo dalle mille risorse, astuto, ma anche smaliziato giocatore d'azzardo abituato a reinventarsi continuamente, a metà degli anni Cinquanta incontra un giovane Elvis Presley. E da quel momento le loro vite cambiano. Padre putativo, ma anche burattinaio di Elvis, contro tutto e tutti lo accompagna a diventare il grande showman che ha fatto tremare l'America e rivoluzionato completamente il business dell'intrattenimento. In pochi mesi Parker riesce a strappare per Elvis un contratto con RCA Records, a introdurlo alla televisione, ai musical, a Hollywood. Presley è stato e sarà sempre una icona anche grazie all'abilità e alla spregiudicatezza del Colonnello, ma dietro la scalata scintillante al successo si nascondono molte altre storie. Elvis e il colonnello è il racconto incredibile e poco conosciuto sul controverso ma produttivo rapporto tra l'artista che portò il rock nel mondo e il suo manager, una storia che ha scatenato l'immaginazione di un genio come Baz Luhrmann che alla complicata relazione umana e professionale tra Elvis e il Colonnello ha dedicato un film con protagonista Tom Hanks nei panni di Tom Parker.

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Informazioni

1

Il secondo spettacolo più grande del mondo

Per il giovane Tom Parker, Tampa splendeva come un faro nella notte.
La natura legava inestricabilmente Tampa e St. Petersburg tramite un’enorme baia d’acqua salata incuneata nell’entroterra, ma le due città sono assai diverse. St. Petersburg, con le spiagge sabbiose che danno sul Golfo del Messico, ormai da molti anni è il paese dei balocchi di vip e ricchi. Tampa, invece, poggia sulle fondamenta austere della classe operaia e per gran parte della sua storia recente è stata soprattutto un porto d’approdo per le bananiere colombiane.
Dal Sedicesimo secolo, quando Juan Ponce de Leon e Hernando de Soto esplorarono la regione per la prima volta, Tampa si era creata una doppia reputazione: era allo stesso tempo un paradiso naturale alimentato da sorgenti minerali con proprietà curative miracolose e una città portuale aperta, dove gioco d’azzardo, prostituzione e alcolici venivano ragionevolmente tollerati, purché rimanessero a rispettabile distanza dai curatissimi quartieri dell’alta società.
Agli occhi di Tom Parker, Tampa offriva tutto ciò che un giovanotto potesse desiderare. Nei primi anni Trenta, quando Parker esordì nel panorama della baia di Tampa, in Florida il boom immobiliare del decennio precedente era scemato e si era portato dietro una gran quantità di nuovi arrivati, alcuni in possesso di patrimoni da investire, altri disperatamente in cerca di lavoro. Era il momento e il posto ideale, per Parker, per mettere radici. L’intera costa occidentale della Florida era una terra incolta e desolata, a eccezione della zona della baia di Tampa.
Dato che ospitava l’unico porto di una certa dimensione tra Key West e Pensacola, era di gran lunga l’opzione preferita per l’immigrazione illegale dal momento che si potevano evitare i porti più frequentati della costa occidentale. I cubani arrivavano a migliaia per lavorare nelle fabbriche di sigari; era, insomma, il porto di riferimento per l’accesso clandestino negli Stati Uniti. Di tutti i porti americani, era quello in cui si facevano meno domande, il posto perfetto se si aveva un passato ingombrante e si desiderava ricominciare da capo.
Quando Tom Parker giunse a Tampa, all’inizio degli anni Trenta, non era da molto che si faceva chiamare così. Prima del suo arrivo in città, infatti, non ci sono altri documenti che attestino la sua permanenza in America. Tutto ciò che concerne la sua vita prima di quel momento è una macchia sfocata nella storia. Ci sarebbero voluti decenni prima che qualcuno accertasse che il suo vero nome era Andreas van Kuijk. Secondo le testimonianze più accreditate – accettate da un tribunale del Tennessee competente in materia di successioni e mai contestate da Tom Parker – era nato a Breda, in Olanda, il 26 giugno del 1909 e si chiamava, appunto, Andreas van Kuijk.1
Alla sua venuta al mondo, Andreas trovò cinque fratelli e sorelle; altri quattro sarebbero arrivati prima del suo decimo compleanno. I suoi genitori si chiamavano Adam e Maria van Kuijk. Tutto fa pensare che ebbe un’infanzia piuttosto normale. I nonni materni, Johannes e Marie Ponsie, si mantenevano come venditori di ninnoli ambulanti viaggiando sui canali olandesi.
Quando il padre morì, Andreas aveva sedici anni e la scomparsa della principale fonte di sostentamento della famiglia gettò tutti nello sconforto di doversi adattare al cambiamento. Dove sarebbero andati a vivere? Come avrebbe fatto Maria a sfamare la famiglia? Andreas iniziò a sparire per brevi periodi; si scoprì in seguito che passava il proprio tempo nei cantieri navali. Fino a quando, un mattino uscì di casa e non tornò più.2
L’unica cosa che sappiamo per certo è che Andreas sparì verso la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Da qualche parte tra Olanda e Stati Uniti si liberò della vecchia identità e si reinventò. Quando Andreas abbandonò la propria identità olandese, nacque Tom Parker, un adulto fatto e finito con un enorme sigaro artigianale cubano da sfoggiare sempre in bocca.
«Salve» disse una volta arrivato nella grintosa città portuale di Tampa. «Mi chiamo Tom Parker e vengo da Huntington, nella Virginia Occidentale.»
Nel corso degli anni Venti e nei primi anni Trenta, decine di luna park itineranti attraversavano l’America in lungo e in largo, fornendo intrattenimento per fiere, circhi e promotori indipendenti. Il Johnny J. Jones Exposition era uno dei più noti, ma ce n’erano tanti altri, tra i quali il Rubin & Cherry Shows, il Beckman & Gerety’s C.A. Wortham Shows e il John M. Sheeshley’s Mighty Midway.
Una delle attività più intraprendenti era però quella del Royal American Shows di Tampa, che aveva esordito nei primi anni Venti. Fino agli inizi degli anni Trenta aveva dovuto andare alla rimonta degli altri, poi però divenne la principale attrazione del Paese, un riconoscimento che mantenne fino al secolo successivo.
Quelli delle fiere, in sostanza, erano una versione più raffinata degli spettacoli itineranti in cui si vendevano elisir miracolosi, che erano stati popolari dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento fino all’inizio del nuovo secolo. Una buona rappresentante di questo genere di spettacoli era la Kickapoo Indian Medicine Company con la sua variegata proposta di intrattenimento. Il tipico programma in dieci atti comprendeva danze indiane, contorsionisti, un numero al trapezio, esibizioni con pistole e fucili e un equilibrista che camminava sulla fune.3
Quando la popolarità di questi affascinanti spettacoli itineranti crebbe, quelli dedicati agli elisir miracolosi diminuirono di numero, per scomparire più o meno del tutto verso la metà degli anni Sessanta. All’arrivo di Tom Parker a Tampa, però, erano ancora alquanto in voga, in particolare nel Sud. Spesso erano l’unico intrattenimento disponibile per la provincia americana.
La routine era sempre la medesima: lo spettacolo montava i tendoni nella periferia di una cittadina e l’imbonitore si recava in città con un «Jake»4 e un indiano per esibirsi in una serie di numeri all’angolo delle strade di grande passaggio. Gli sketch servivano ad attirare le persone in modo che andassero poi ai tendoni a vedere gli spettacoli, che di solito duravano un paio d’ore e il cui vero scopo – come in seguito fu per i luna park – era vendere prodotti, non offrire intrattenimento.
Per tutti gli anni Venti, il padre di queste fiere americane fu Johnny J. Jones, con i suoi modi gentili, la sua bassa statura e la sua fama da uomo d’affari scaltro ma comprensivo con i dipendenti. I lavoratori lo apprezzavano molto. Quando nel dicembre del 1930 nel circuito iniziò a circolare la notizia della sua morte, la prima reazione fu di tristezza, poiché girava voce che Jones non avesse mai compiuto un gesto scortese nei confronti dei subordinati. Il dolore, però, si trasformò presto in preoccupazione: chi avrebbe assunto le redini del comando?
Gli operai e gli artisti avevano bisogno di una figura che li rappresentasse, qualcuno che sapesse fare loro da guida spirituale, che fosse in grado di fare affari con il mondo delle persone normali. I lavoratori del settore avevano infatti una propria lingua, un proprio codice di condotta e certe aspettative nei confronti del mondo dei non addetti ai lavori. La morte di Johnny J. Jones aveva lasciato un vuoto. I capi non venivano scelti tramite elezioni democratiche né venivano designati per intervento divino: salivano ai vertici dimostrando una naturale propensione al comando.
Nel 1931, l’uomo che aveva più probabilità di assumere il ruolo di guida era Carl J. Sedlmayr, proprietario e gestore (insieme ai fratelli Velare) della Royal American Shows di Tampa. Sedlmayr era nato il 20 ottobre 1886 a Falls City, in Nebraska, perciò alla morte di Jones aveva quarantacinque anni. La sua non era una famiglia di circensi o di giostrai e proprio per questo la sua ascesa al successo fu ancora più notevole.
L’infanzia di Sedlmayr era stata priva di eventi rilevanti fino alla morte di suo padre, avvenuta nel 1897, in seguito alla quale fu mandato a vivere presso alcuni parenti di Kansas City, nel Missouri. A quattordici anni, il suo più grande desiderio era diventare farmacista, un sogno che si infranse quando fece domanda a Omaha e a Council Bluffs, nell’Iowa, e venne respinto.5
Allora Sedlmayr rispose a un annuncio pubblicato sul giornale, con il quale si cercavano rappresentanti di un nuovo prodotto per scrivere, la penna stilografica. Portò nelle strade quella moderna invenzione e fece successo come commesso viaggiatore. Durante i suoi spostamenti incontrò numerosi imbonitori agli spettacoli per la vendita degli elisir e cominciò a interessarsi a uno stile di vita ormai simbolo dello show business americano. Nel 1907, a ventun’anni, si gettò a capofitto nella vita delle fiere iniziando a lavorare come venditore di biglietti al Riverview Park di Chicago. Con il tempo, Sedlmayr risparmiò il denaro sufficiente ad acquistare un’attrazione tutta sua.
Con l’idea che il termine «Royal» avrebbe attirato i canadesi e «American» sarebbe risultato allettante negli Stati Uniti (per avere successo, il gestore di una fiera doveva guadagnare bene in entrambe le nazioni), ribattezzò la propria attività Royal American Shows.6 Nel 1925, Sedlmayr aveva preso con sé due soci, Elmer e Curtis Velare. Insieme, trasformarono la Royal American Shows in un’impresa di prim’ordine.
Le industrie del cinema e radio erano la maggiore minaccia per le fiere itineranti, ma i circensi sapevano essere competitivi sfruttando al meglio la natura partecipativa dei loro spettacoli. Era possibile vedere da vicino gli artisti, si poteva sentire il profumo dell’erba, dei pop corn e delle mele candite. Inoltre, i luna park prevedevano spettacoli femminili capaci di stuzzicare lo spettatore come radio e cinema non potevano fare (a meno di non avere particolare fortuna in galleria).
Sedlmayr era uno showman provetto. Non che si fosse mai esibito su un palco: il suo talento era d’altro tipo. Possedeva infatti la capacità di recarsi in una cittadina e con la semplice forza della sua personalità convincere tutti che quello della Royal American era lo spettacolo più grande del pianeta. Quasi tutti i lavoratori del settore conoscono le città e i Paesi che visitano meglio di chi ci vive. Capiscono in fretta chi è onesto e chi no. Se una cittadina è sotto il controllo di una famiglia che gestisce in stile mafioso spettacoli con ragazze e sale per il gioco d’azzardo, lo sanno quasi subito. Sbuffano quando qualcuno li accusa di inaffidabilità, perché a mettere in atto la più grande tra le truffe per loro è in realtà il mondo: tra i segreti nascosti nelle cittadine di provincia e la ferocia dei grandi centri di potere.
Ad ogni modo, Sedlmyr giungeva in una cittadina tre giorni prima dello spettacolo. La prima cosa da fare era presentarsi alle autorità, ai capi politici e agli uomini d’affari di cui voleva assolutamente evitare l’opposizione. Fatto questo, si recava nel campo in cui si sarebbe svolta la fiera e misurava camminando il punto in cui si sarebbe costruita ogni attrazione. Il suo passo era lungo esattamente tre piedi (circa novantuno centimetri e mezzo). Sedlmayr conosceva l’ingombro di tutte le attrazioni del suo spettacolo ed era orgoglioso della propria capacità di misurare con i passi la giusta collocazione di ogni paletto e di ogni palo di sostegno necessari.
Nel 1935, Sedlmayr era ormai l’indiscusso re del circuito fieristico. La carovana della Royal American riempiva novanta vagoni ferroviari e offriva il più vasto assortimento del settore di giostre, attrazioni da circo e artisti. Ricevette però un ulteriore slancio inaspettato nel 1938, quando i dipendenti del circo Barum & Bailey decisero di scioperare.
Durante quel periodo di inattività, infatti, la Royal American, che spesso forniva lo spazio per allestire il circo, fu in grado di espandere lo spazio assegnatole, cosicché, quando lo sciopero terminò e il circo riprese l’attività, la Royal aveva più agio.
Da che la gente aveva memoria, «Il più grande spettacolo del pianeta» era sempre stato lo slogan di cui P. T. Barnum si era fregiato. Tuttavia, ancora nel 1938, la Royal American di Carl Sedlmayr era chiaramente il secondo spettacolo più grande del pianeta. Solo nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta aumentò la propria influenza, per mantenerla fino alla fine degli anni Novanta come leader indiscussa. Carl Sedlymar non ottenne mai il riconoscimento pubblico o la notorietà di Barnum, decidendo di rimanere dietro le quinte fin dall’inizio della sua carriera. Al di fuori del giro, il suo nome è per lo più sconosciuto, ma nel mondo fieristico è quasi pari a una divinità.
Nel 1965, alla fine della stagione, il treno della Royal American rientrò ai suoi quartieri invernali, a Tampa, e tutto l’equipaggiamento venne scaricato e sistemato in magazzino. Sedlmayr e suo figlio, Carl Sedlmayr Jr., si accordarono per una cena a casa di quest’ultimo la sera successiva. Quando il padre non si presentò come concordato, Carl Jr. andò a cercarlo a casa sua e lo trovò nel letto: si era spento nel sonno, pacificamente.
Oltre milleduecento uomini di spettacolo si presentarono al Greater Tampa Showmen’s Club (il club dei più noti showmen di Tampa) per partecipare al funerale di Carl Sedlmayr. In linea con lo stile di vita cosmopolita del re, il servizio funebre fu condotto sia da un rabbino sia da un ministro protestante. Il corpo venne inumato in un mausoleo dello Showmen’s Rest di Tampa e, in seguito all’addio all’impresario, il testimone della Royal American passò a suo figlio che, a quarantasei anni, si era già fatto la propria parte d’esperienza nei circuiti fieristici.7
La prima volta che Carl J. Sedlmayr Jr. incontrò Thomas A. Parker fu forse nel 1931 o nel 1932. Sedlmayr aveva dodici o tredici anni e aveva appena iniziato ad apprendere dal padre i rudimenti su come gestire gli affari nel mondo fieristico. Era difficile non notare il ventiduenne Parker: con il suo metro e ottanta e la sua stazza, spiccava tra la folla. Aveva un volto rotondo e amichevole, gli occhi azzurri brillavano maliziosi.
Di Parker, Sedlmayr conserva ancora ricordi vividi.8 Non rammenta in quale città si trovassero, ma un giorno, durante una passeggiata, alzando lo sguardo vide una faccia nuova. Ci fece caso perché frequentare il mondo delle fiere è un po’ come stare in famiglia: i nuovi membri vengono sempre esaminati per bene. Tom Parker era dietro il bancone di un chioschetto, svettava in mezzo alla folla e alla confusione della fiera… mentre vendeva mele candite con l’entusiasmo e il fervore di un predicatore che dà spettacolo sotto a un tendone.
Sedlmayr non sa dire con certezza in quale mese Parker firmò con la Royal American, perché tutti i vecchi registri sono andati distrutti per via di una perdita nel soffitto di uno dei carri merci: la pioggia ha completamente inzuppato il carico. Ricorda però l’anno in cui conobbe Parker perché rammenta quanti anni aveva all’epoca. «Era una comunità piccola» ha detto della Royal American. «Avevamo un rapporto stretto perché lavoravamo e vivevamo insieme.»
Come da tradizione, il treno della fiera lasciava Tampa verso marzo-aprile. Da tempo ormai immemorabile, la stagione iniziava sempre la prima settimana di maggio, in corrispondenza della celebrazione annuale del Cotton Carnival di Memphis, nel Tennessee, e si concludeva l’ultima settimana di ottobre con la Fiera statale della Louisiana di Shreveport – due città, Memphis e Shreveport, che si sarebbero rivelate cruciali per la carriera di Tom Parker quanto per quella di Elvis Presley.
Ogni ingaggio durava una settimana, ma in alcune occasioni, come per il festival annuale primaverile di St. Louis, nel Missouri, o per la Calgary Exhibition and Stampede di Alberta, in Canada, si prolungavano per dieci, quattordici giorni. Altre tappe della tournée da Memphis a Shreveport comprendevano l’Annual Shrine Jubilee di Davenport, nell’Iowa, la Edmonton Exhibition ad Alberta, in Canada, la Regina Exhibition di Saskatchewan, in Canada, la fiera statale del Wisconsin a Milwaukee, quella di St. Paul, in Minnesota, quella del Kansas e la Mid America Fair di Topeka.
La prima città in cui Parker si trovò a vendere mele candite fu Memphis, durante il festival di Cotton Carnival, che imitava in maniera neanche troppo velata il Martedì Grasso di New Orleans. Il Cotton Carnival aveva inizio con l’arrivo della «chiatta reale» sul Mississippi all’attracco di Monroe Street, nel cuore di Memphis. Seguiva poi una parata con carri allegramente decorati e fanfare.
Il re e la regina del Carnevale, reclutati tra le famiglie dei me...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. ELVIS E IL COLONNELLO
  4. 1. Il secondo spettacolo più grande del mondo
  5. 2. In viaggio con Hank e Eddy
  6. 3. Il Colonnello scruta il suo regno selvaggio
  7. 4. Il Re raggiunge la vetta a ritmo di rock ’n’ roll
  8. 5. Non più in disparte, di nuovo sotto i riflettori
  9. 6. Cosparso di pece e paillettes, Hollywood style
  10. 7. Las Vegas stringe il cappio
  11. 8. Il Re è morto: lunga vita al manager
  12. Ringraziamenti
  13. Note
  14. Bibliografia
  15. Inserto fotografico
  16. Copyright