Maledetti pacifisti
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Maledetti pacifisti

Come difendersi dal marketing della guerra

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Maledetti pacifisti

Come difendersi dal marketing della guerra

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«Non sono un medico, non sono un politico, sono un giornalista. Il mio pezzettino, la mia gocciolina, è provare a raccontare la guerra per quello che è: merda, sangue, morte e dolore.» Mentre l'Ucraina brucia, Nico Piro, inviato di guerra per il Tg3, ragiona e scrive in queste pagine, con penna affilata, della vendita del "prodotto- guerra" da parte dei politici e del loro apparato mediatico, disperatamente impegnati a piazzare il conflitto a un'opinione pubblica che non ne vuole sapere nulla ed è schierata – lo dicono i sondaggi – con la pace. Di fronte alla violenza verbale degli opinionisti con l'elmetto, al sorgere di un pensiero unico bellicista, lo scopo di questo pamphlet è smontare la narrazione della guerra che ci stanno spacciando come male necessario dall'alto valore morale.

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Informazioni

A Gino Strada, guerriero della pace.
A chi lascio a casa quando sono lontano.
Alle persone che incontro lungo la strada.
Siamo coraggiosi e diciamo la verità:
sta distruggendo tutti i popoli coinvolti nella guerra. Tutti. Perché la guerra non solo distrugge il popolo sconfitto, no, distrugge anche il vincitore; distrugge anche coloro che la guardano con notizie superficiali per vedere chi è il vincitore,
chi è lo sconfitto.
Papa Francesco

Premessa

Quando Giuseppe Civati mi ha chiesto di scrivere di guerra e di pace in memoria di Gino Strada, ci ho messo un po’ di tempo a dargli una risposta. In Italia purtroppo il ricordo dei morti serve a glorificare i vivi. Troppi viventi amano scrivere di chi non c’è più finendo per raccontare loro stessi, le proprie glorie in un profluvio di “io e lui”, “quella volta che insieme…”, “quando gli spiegai come…”. È una forma di degenerazione culturale dalla quale cerco possibilmente di stare alla larga, anche perché è facile scivolarci dentro nonostante le migliori intenzioni.
Così ho silenziosamente declinato l’invito. Purtroppo a convincermi non sono state solo le insistenze di Civati ma la guerra tornata a incendiare il cuore d’Europa, testarda e inarrestabile come l’acqua che dalla falla cerca sempre nuovi percorsi per affondare una barca.
Ho però deciso di scrivere qualcosa di diverso da un mio “ricordo di Gino Strada”. Per spiegarvi il perché vorrei prima dire qualcosa sul mio rapporto con lui. Negli anni si è stabilito un legame profondo con Gino, ma non ho mai insistito per vederlo o sentirlo fuori dai momenti che ci portavano a stare insieme in qualche remoto e complicato angolo del mondo. Ho sempre considerato Gino come una cosa preziosa – un uomo impegnato a salvare il mondo “una persona alla volta” – a cui non sottrarre inutilmente tempo per telefonate della serie “Come stai?”. Per quanto Gino fosse una persona profondamente cordiale, di quelle che a fine giornata amano riunire tutti intorno al tavolo per un Campari e due chiacchiere, preferivo che la nostra fosse un’interazione legata al lavoro e a quanto volevo capire e imparare.
Non ho dubbi quindi che se vogliamo ricordare Gino Strada c’è solo una cosa da fare: continuare il suo lavoro.
Gino voleva “solo” curare le persone nei luoghi dove nessuno poteva aiutarle, gente innocente ridotta a brandelli da proiettili, schegge ed esplosioni. Da chirurgo spesso aveva il compito di provare a rimettere insieme il corpo di un ferito con ciò che di quella persona era rimasto.
L’esperienza con il Comitato Internazionale della Croce Rossa gli aveva fatto capire che lo sforzo individuale non bastava, che ci voleva uno strumento e che quello strumento non c’era, andava creato. Nasceva così nel 1994 Emergency, creatura di quella Milano eccezione italiana dove esisteva ancora una borghesia illuminata; organizzazione capace poi di ramificarsi con una rete di supporto in tutto il Paese grazie a una straordinaria comunità di volontari.
Gino sapeva che non bastavano gli ospedali, che bisognava riservare una quota di quelle cure, che lui voleva fossero accessibili a tutti gli esseri umani, anche all’idea della Pace: banalizzata, sbeffeggiata, persino additata come forma pericolosa di intelligenza col nemico.
Per questo nel suo percorso di cura delle persone Gino è stato profondamente Politico. Per questo, pur rifuggendo sempre le sirene della politica, è finito con il colmare la voragine che certi partiti italiani si sono lasciati alle spalle nell’opinione pubblica, trascurando i loro stessi valori fondanti, favorendo gli interessi dei propri singoli affiliati, spingendo gli elettori verso l’astensione.
La Emergency che Gino si lascia dietro è un’organizzazione in salute, sempre più strutturata e con un modello organizzativo che le consentirà di continuare a operare nel futuro e a farlo bene. Il non poter ascoltare più la sua voce è invece un vuoto feroce che prende allo stomaco e ci fa sentire più soli in un Paese che ha smarrito il suo pensiero critico, il senso della necessità del pluralismo, l’essenzialità del dissenso.
Come un catalizzatore, il conflitto in Ucraina ha esasperato questa deriva e ha messo sempre più all’angolo chi ritiene che la guerra non sia una soluzione e faccia schifo, tanto schifo.
Per questo motivo ho deciso che l’unico contributo che potevo dare non era (solo) ricordare Gino ma fare il mio “pezzettino”, come lo chiamava la sua prima moglie, Teresa Sarti. Gino invece usava un’altra metafora per riferirsi al cambiamento individuale che diventa globale: «Quel che facciamo per loro, noi e altri, quel che possiamo fare con le nostre forze è forse meno di una gocciolina nell’oceano. Ma resto dell’idea che è meglio che ci sia quella gocciolina, perché se non ci fosse sarebbe peggio per tutti. Tutto qui».
Non sono un medico, non sono un politico, sono un giornalista. Il mio pezzettino, la mia gocciolina, è provare a raccontare la guerra per quello che è: merda, sangue, morte e dolore.
Al conflitto in Ucraina guardo da vicino (sono in Russia) ma non dal campo. Vorrei essere in prima linea, ma una mia trasferta nel Donbass filorusso degli anni passati mi ha fatto scivolare nell’elenco delle persone non gradite al governo di Kiev, e quindi dal 2019 non posso più entrare in Ucraina. Mi dispiace, certo, non essere in prima linea, ma la vivo come un’occasione: rispetto all’inviato che racconta quello che vede, questa volta ho la possibilità di avere molte più fonti e punti d’osservazione, posso assistere meglio alla vendita del prodotto-guerra da parte dei politici e del loro apparato mediatico, disperatamente impegnati a piazzare il conflitto a un’opinione pubblica che non ne vuole sapere nulla ed è schierata – lo dicono i sondaggi – con la pace.
Di fronte alla violenza verbale degli opinionisti con l’elmetto, al sorgere di un Pensiero Unico Bellicista, ho pensato che la mia gocciolina poteva essere quella di smontare la narrazione della guerra che ci stanno spacciando come male necessario dall’alto valore morale. Provare a dare a quelli che la politica tratta come consumatori – non più elettori o “opinione pubblica” – degli strumenti affinché possano non essere ridotti a terminali passivi e difendersi dall’acquisto compulsivo della guerra.
Mai come ora sento sulle mie spalle le frasi con cui sintetizzo il senso del mio lavoro: “Dare voce a chi non ha voce” me la sono ripetuta per esempio mentre scalavo una collina nel Sud del Bangladesh, scarnificata di alberi e arbusti per soddisfare la fame di baracche di centinaia di migliaia di profughi. Oggi, per me, quella frase non ha come riferimento solo i dannati della Terra. A perdere la parola in Italia sono le ragioni della pace: a queste la voce va restituita.
“Se vuoi la pace, conosci la guerra” è un’altra frase che un tempo mi ripetevo camminando tra le corsie di ospedali pieni di bimbi amputati e di donne macellate da un’esplosione. Ora mi torna nella testa come un mantra quando sento gli opinionisti con l’elmetto dai loro attici in centro mettere all’indice “deboli” generali che pur hanno guidato truppe in combattimento e “venduti” giornalisti che pur hanno camminato in strade tappezzate di cadaveri. È un paradosso della Storia, tanto che non ne riusciamo nemmeno a ridere per quanto sia assolutamente patetico, ma va sciolto se vogliamo aiutare l’Italia e il futuro dei nostri figli. L’unica arma che abbiamo per farlo è la nostra, autonoma, testa.
Seguitemi nelle prossime pagine, proviamoci insieme.

Distanza di sicurezza

La gente passeggia di fretta nei grandi corridoi del centro commerciale, tra musica, insegne luminose e vetrine che, magnetiche, attirano lo sguardo. Se non fosse per le scritte in cirillico, non ci sarebbe differenza tra il centro commerciale Gorizont di Rostov sul Don, un mall del Midwest americano e le gallerie dello shopping alle porte di Roma.
Sto cercando una SIM da ricaricare in contanti per il mio telefono, dopo che la mia ultima carta di credito ha ricevuto un mezzo pernacchio dal POS in cui avevo provato a passarla: «TRANSAZIONE FALLITA» – primi effetti delle sanzioni occidentali contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Stordito dal brusio della folla e dalle luci delle vetrine, i miei pensieri non smettono di andare all’altra parte del mondo, a Disney World. L’unica volta in cui sono stato nel grande parco divertimenti a Orlando, in Florida, era agli inizi del gennaio 2020, in contemporanea con una potente esplosione all’aeroporto di Baghdad. Una serie di missili lanciati da un drone MQ-9 Reaper carbonizzano Qasem Soleimani, il più potente e simbolico generale iraniano, autore della strategia di Teheran in Iraq e in Siria che stava creando non pochi problemi agli americani. La palla di fuoco divora due auto di fabbricazione giapponese seguendo le leggi intrinseche di ogni detonazione: risucchia l’ossigeno, lo usa per alimentare le sue fiamme, spingendole il più lontano possibile mentre la temperatura arriva a migliaia di gradi nella bolla di fuoco. L’uccisione è una dichiarazione di guerra di Washington a Teheran e spinge il mondo sull’orlo di un nuovo conflitto in Medio Oriente, quello che i consiglieri di Trump alla Casa Bianca vorrebbero a tutti i costi.
La guerra è un pensiero che non riesco a togliermi dalla testa mentre un fiume di gente sotto al sole della Florida passa da una fila all’altra, per vivere la “magia” di Disney, un’allucinazione architettonica dove stordirsi di calorie mentre nei bagni ci sono contenitori speciali per raccogliere, in sicurezza, le siringhe di insulina usate dai diabetici. Eppure io non riesco a vedere il Millennium Falcon né It’s a small world, il giro in barchetta intorno al mondo, a me Disney World oggi racconta perfettamente quanto gli Stati Uniti siano incredibilmente sufficienti a loro stessi: per gli americani quello che accade lontano – compresi i disastri che causano i loro politici – è solo una eco distante o il bagliore di fiocchi gialli che sui pali dell’elettricità di un paesino del Midwest ricordano i caduti locali, morti dall’altra parte del mondo, in Iraq o in Afghanistan, spesso al primo viaggio oltreconfine della loro vita.
Al di là delle grandi vetrate dello scintillante centro commerciale Gorizont c’è il vento del Don che spazza la steppa e arriva fin dentro questa città da un milione di abitanti. È implacabile come quello dei cento giorni a Herat, ma non ti soffoca bruciandoti la gola con il suo calore. Qui è come una lama ghiacciata che ti fa sentire addosso il dolore dei soldati dell’ARMIR, quelli che il regime fascista mandò quaggiù a morire sperando di aiutare Hitler a raggiungere il petrolio del Caucaso. Morti le cui piastrine di identificazione o altri brandelli delle loro povere vite continuano a essere restituiti da queste pianure gelide.
A Disney World come al centro commerciale di Rostov la guerra sembra un qualcosa di lontano, ma in questo lembo di Russia meridionale non c’è la rassicurante distanza geografica dell’America profonda da tutti i suoi conflitti, qui il fronte è a sole due ore di auto. Dopo otto anni ormai la gente di Rostov con il conflitto in Donbass ci convive e forse, per via dell’atavico fatalismo russo, era già rassegnata a un’escalation bellica come quella cominciata il 24 febbraio. Sentiva che prima o poi l’invasione ci sarebbe stata, magari non se l’aspettava proprio adesso, come del resto nessuno nel mondo. Solo i servizi segreti americani ci hanno preso, afferrando così finalmente un successo in termini di previsioni dopo due decenni di fallimenti in Medio Oriente.
Dopo la Seconda guerra mondiale, con il moltiplicarsi delle armi atomiche, le potenze globali hanno evitato lo scontro diretto che avrebbe portato all’olocausto nucleare. Si sono sfidate a distanza, per procura, in conflitti regionali come in Vietnam o nell’Afghanistan degli anni Ottanta.
Imploso lo storico avversario russo per la propria inefficienza strutturale, dopo l’11 settembre l’Occidente ha cercato in luoghi lontani nuovi nemici da eliminare in nome della sicurezza: combattere lontano per garantire la serenità a casa.
I conflitti del capitolo “guerra al terrore” hanno assunto una diversa forma strategica rispetto al passato perché, pur essendo regionali, non erano contro eserciti formalmente organizzati ma contro forze di guerriglia (“guerre asimmetriche”) e non vedevano potenze globali scontrarsi indirettamente. Inoltre, dopo una fase iniziale da “prima pagina”, queste guerre lontane si sono rapidamente trasformate in crisi croniche, cioè di lunga durata e che riscuotevano la minima attenzione mediatica. Spesso definite “a bassa intensità”, una triste etichetta che, personalmente, mi fa tanta rabbia perché toglie ai morti e agli amputati persino la dignità di essere vittime di guerra, come se anche loro diventassero “a bassa intensità”, vittime di seconda classe.
Una delle conseguenze di questo cambiamento è che la guerra è diventata uno spettacolo televisivo distante. Con l’allontanarsi geografico dei conflitti, il “resto del mondo” si è trasformato in uno spettatore distratto, interessato per un breve periodo di tempo finché non cede al “si ammazzassero tra di loro”.
Questa “distanza di sicurezza” (fatta non solo di lontananza fisica dal pericolo ma anche di flussi di merci e comfort mai intaccati da kamikaze che si facevano esplodere in un mercato di Baghdad, non alla Borsa di New York o in una indispensabile mega fabbrica cinese) ha prosciugato l’empatia del pubblico verso le guerre degli altri, portandoci persino a vivere nella situazione surreale di avere soldati chiamati a morire in battaglia – è accaduto in Afghanistan – mentre nelle nostre città l’ora dell’aperitivo continuava a fare da spartiacque tra il pomeriggio e la sera. Durante questi conflitti a debita “distanza di sicurezza” da noi, solo la notizia dei nostri (della nostra stessa nazionalità) caduti è stata in grado di risvegliare l’attenzione dei media e le coscienze delle persone ma, dopo mesi di oblio mediatico, i “nostri ragazzi” finivano per apparire come vittime di qualcosa di ignoto, di incomprensibile, visto che, non raccontandoli più, di quei conflitti avevamo perso il senso, dimenticando persino perché erano cominciati, anzi dimenticandoli del tutto così da non disturbare il manovratore.

La verità è morta al fronte

L’apparente serenità della gente di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Colophon
  4. Frontespizio
  5. Indice
  6. Premessa