L'ergastolano
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L'ergastolano

La strage di Peteano e l'enigma Vinciguerra

  1. 304 pagine
  2. Italian
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L'ergastolano

La strage di Peteano e l'enigma Vinciguerra

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Cinquant'anni fa, vicino a Gorizia esplodeva un'auto uccidendo tre carabinieri. Il colpevole di quella che fu chiamata la 'strage di Peteano' è Vincenzo Vinciguerra, unico reo confesso di tutta la strategia della tensione, condannato all'ergastolo. Ma è veramente tutto chiarito o esistono ancora delle verità nascoste che meritano di essere raccontate?

La sera del 31 maggio 1972 una telefonata anonima ai carabinieri di Gorizia segnalò la presenza, a Peteano di una Fiat 500 abbandonata a bordo strada. All'apertura del cofano esplose una bomba, uccidendo i tre carabinieri che la stavano controllando e ferendone un quarto. Di tutte le stragi fasciste, questa è la più singolare per la presenza di un reo confesso: Vincenzo Vinciguerra di Ordine Nuovo.La sua 'assunzione di responsabilità' arrivò solo nel 1984, dopo indagini svolte prima in direzione di Lotta Continua, poi verso un gruppo di goriziani, assolti dopo oltre un anno di carcere. In seguito si scoprì che alti ufficiali dell'Arma (ma la polizia non fu da meno) protessero i neofascisti che avevano ucciso tre loro commilitoni. Anche il segretario del Msi, Giorgio Almirante, fu rinviato a giudizio per favoreggiamento e sfuggì al processo solo grazie a un'amnistia. Oggi Vinciguerra continua a dichiararsi combattente contro lo Stato e non ha mai usufruito di alcun permesso. Con un racconto incalzante, il libro fa luce sugli aspetti ancora in ombra della strage e sullo stesso Vinciguerra, intervistato in carcere, svelando una storia italiana ancora oggi difficile da accettare.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788858149539

1.
Il testimone

Dopo una sessantina di udienze, il dibattimento era alle battute finali. Ma lo scorso 11 gennaio il presidente della Corte d’assise Francesco Maria Caruso ha deciso di portare in aula altri testimoni. Al processo per la strage di Bologna che ha visto condannato all’ergastolo Paolo Bellini come esecutore, ma con sullo sfondo per la prima volta i presunti organizzatori e mandanti (i vertici della P2 Licio Gelli e Umberto Ortolani, il capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto D’Amato e il direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, tutti deceduti da tempo), sono così sfilate altre dieci persone: Paolo Bolognesi, già deputato del Pd e presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, e quattro giornalisti (Roberto Scardova, Antonella Beccaria, Giorgio Gazzotti e Gigi Marcucci) coautori assieme all’ex magistrato Claudio Nunziata del libro Alto tradimento. Poi lo stesso Nunziata e ancora Giuliano Turone e Leonardo Grassi, pure loro in veste di saggisti prima ancora che di uomini di legge che della strage si sono occupati.
Gli ultimi due nomi hanno sorpreso un po’ tutti. Il primo era infatti quello di Sergio Picciafuoco, già condannato all’ergastolo per la strage in primo grado e poi per due volte assolto in appello, prima a Bologna e poi a Firenze (dopo che la Cassazione aveva annullato il primo verdetto di secondo grado), sentenza poi definitivamente confermata dalla Suprema Corte il 15 aprile 1997. Un personaggio indecifrabile, Picciafuoco, trovato morto nella propria abitazione di Castelfidardo lo scorso marzo: piccolo malavitoso comunque in contatto con i Nar autori della strage, ma soprattutto l’unico fra tutti gli imputati che abbia mai ammesso la propria presenza il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Tra l’altro, la Corte d’assise lo aveva già sentito diverse settimane prima, il 1° ottobre 2021.
L’ultimo dei dieci testimoni era il più sorprendente: Vincenzo Vinciguerra, pure lui già sentito dalla Corte addirittura in due occasioni, il 26 maggio e il 4 giugno 2021, ma la cui mole di dichiarazioni (e soprattutto il loro rilievo) aveva spinto il presidente Caruso a riprovarci. Ed era chiaro fin dalla formula espressa nella convocazione, avvenuta per «verificare la disponibilità del testimone a dire ciò che ha espressamente dichiarato di non voler fin qui riferire, nonostante l’ampiezza delle circostanze sulle quali ha deposto in questo e in altri processi»: un passaggio dell’ordinanza che suonava come un pressante invito a Vinciguerra a fare finalmente dei nomi. E forse sarà stato anche questo inatteso annuncio di riconvocazione in aula a convincere i giornalisti di «Report», la trasmissione di Rai 3, a mandare finalmente in onda una puntata incentrata proprio sul processo di Bologna, che conteneva anche un’intervista allo stesso Vinciguerra, realizzata nel carcere di Opera dove è detenuto ormai da quasi trent’anni: poche battute di un colloquio durato oltre due ore con il giornalista Paolo Mondani, avvenuto ancora nell’ottobre 2021, ma si sa, i tempi televisivi sono quelli che sono.
Vincenzo Vinciguerra è in carcere dal settembre 1979, quando si consegnò spontaneamente (doveva scontare un’altra pena, per un dirottamento aereo di cui si dirà): per quasi cinque anni su Peteano non parlò, poi lo fece, a sorpresa. Nel 1987 si prese un ergastolo, non interpose appello e la condanna passò quindi in giudicato. Nell’84, oltre che con il giudice istruttore di Venezia Felice Casson titolare dell’inchiesta che lo riguardava, aveva iniziato a parlare con diversi magistrati impegnati in indagini sullo stragismo. E aveva rivelato una messe di dettagli, fino al 1979 vissuti direttamente e da lì in poi appresi in carcere de relato, senza però mai spingersi a fare nomi e cognomi di ex camerati non ancora condannati e da lui ritenuti in buona fede (cioè non compromessi con lo Stato): era la sua condizione per “collaborare”, termine che va tra virgolette perché quella di Vinciguerra non è mai stata la collaborazione di un pentito in cambio di sconti di pena. Dal carcere infatti l’ergastolano non è mai uscito né – dice – mai uscirà, mai ha ottenuto premi o permessi né mai li chiederà. E pur senza disporre di registri e archivi del Dipartimento affari penitenziari, è ragionevole supporre che in Italia, oggi, nessuno sia ininterrottamente in carcere da più tempo di Vinciguerra. La sua autorevolezza in termini di conoscenza di uomini e malefatte dell’estrema destra, come ex componente prima di Ordine Nuovo e poi di Avanguardia Nazionale, è consacrata in numerose sentenze importanti. Ed è stata sancita anche in sede storiografica. Aldo Giannuli, tra i massimi studiosi del tema, in La strategia della tensione a proposito della ricostruzione di quegli anni da parte di Vinciguerra ha scritto così:
A valorizzare il suo apporto [...] è stato per primo [il giudice] Guido Salvini, ma va detto che dopo, tanto la Commissione stragi, quanto altre autorità giudiziarie e la produzione specialistica in materia hanno abbondantemente attinto ai suoi scritti o verbali. Oggi si può dire che non sia possibile fare una storia della strategia della tensione in Italia prescindendo dal contributo di Vinciguerra.

1. Adolescenza nera

Come tutto è iniziato, lo racconta lo stesso Vinciguerra nel suo primo libro Ergastolo per la libertà, in cui traccia la propria parabola. Il piccolo Vincenzo inizia ad approcciare la politica fin da bambino a Catania, dove è nato il 3 gennaio 1949, sfogliando in salotto un opuscolo illustrato stampato dal Msi, «sugli avvenimenti dell’aprile-maggio 1945»: e sono immagini dei corpi appesi a piazzale Loreto. «Conosco il nemico e l’odio», scrive tranchant: e il nemico non sono ovviamente il duce, i gerarchi e la Petacci. Il salto di qualità, chiamiamolo così, avviene quando Vinciguerra ha meno di 7 anni. Siamo nei primi giorni del novembre 1955, quando il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi visita Catania: ed è la prima volta di un Capo dello Stato in Sicilia. Che però il bambino Vinciguerra vede sfilare in via Etnea nell’auto scoperta senza mai salutare la folla plaudente. Ed è «inevitabile», scrive, «il confronto con le foto di Mussolini, impresse nella memoria infantile, in piedi in mezzo ad una folla festante». Acquisita così quella che egli stesso chiama «la prima immagine del potere», con un imprinting del genere si spiega eccome l’orgoglio con cui il Vinciguerra adolescente, nel frattempo trasferitosi in Friuli assieme alla famiglia (il padre, maestro, nel 1956 vince un concorso per un posto a Forni di Sotto, in provincia di Udine), ostenta un distintivo del Movimento sociale sull’autobus che ogni mattina lo porta a scuola, in un istituto magistrale che abbandonerà prima di concludere gli studi: distintivo che gli procura più di qualche noia con gli altri passeggeri, ma anche la curiosità di un ragazzo, Bruno Zoratto, che lo convince (ma probabilmente non ci volle molto) a iscriversi alla “Giovane Italia”, il movimento appunto giovanile del Msi. Ed è un impatto con la realtà che Vinciguerra definisce addirittura «devastante».
Sale desolatamente vuote in una vecchia sede che viene aperta e chiusa da una novantenne signorina; un vecchio colonnello che svolge il lavoro di ufficio, e l’“onorevole” che viene in federazione due volte la settimana e poi riparte per Roma dove fa il funzionario di partito. Una realtà che si colloca esattamente all’opposto di come l’avevo immaginata. A poco più di tredici anni è dura da digerire. A volte faccio passare anche un intero mese senza andare al partito. È la fase del rigetto e della ripulsa verso un movimento politico che mi si era presentato a Catania attraverso l’immagine di un eroe di guerra [il riferimento è senz’altro a Junio Valerio Borghese, primo presidente del Msi, ndA] e qui mi mostrava quella di un impiegato di partito circondato da una piccola corte di petulanti e servili clienti, timorosi e pavidi.
Al giovane Vinciguerra questo partito pigro e polveroso non può bastare. E così, nell’estate del 1965, eccolo sedicenne tesserarsi sotto le insegne nazionalsocialiste di Ordine Nuovo, nella sezione di Udine allora retta da Pietro Etro, seguendo così Zoratto che già ne faceva parte. È un piccolo brivido di rivoluzione, mentre il non più studente Vinciguerra mette assieme solo una breve occupazione come addetto alla contabilità di un’impresa edile. Ma è un brivido che dura poco, fino all’autunno del 1969, quando l’organizzazione di Pino Rauti rientra sotto “l’ombrello” del Msi (ma Clemente Graziani, contrario, darà vita al Movimento politico Ordine Nuovo): siamo nell’imminenza della strage di Piazza Fontana e altre bombe neofasciste da mesi già stanno esplodendo un po’ in tutta Italia, la mossa serve a meglio proteggersi da eventuali rogne giudiziarie. Che peraltro, come sappiamo, per molto tempo non arriveranno: quella è la stagione della caccia all’anarchico.
Nella rappresentazione di sé che ha proposto nei suoi scritti, Vinciguerra situa nel 1970 una doppia disillusione: verso il Msi e verso Ordine Nuovo. Ed ecco quindi il “salto di qualità”, cioè l’attività terroristica che culmina nella strage di Peteano e nel dirottamento di Ronchi dei Legionari: operazione quest’ultima che, testuale, «mi doveva consentire di disporre dei mezzi necessari per sganciarmi del tutto dall’ambiente di “Ordine Nuovo” nel quale mi sentivo sempre più a disagio ed estraneo». È però proprio a quell’ambiente, come vedremo, che si affida per far fuggire dall’Italia Carlo Cicuttini, a quel punto nei guai per via della sua pistola trovata in mano a Ivano Boccaccio, il dirottatore ucciso a Ronchi. Ed è sempre a quell’ambiente, benché lui non ne abbia mai rivelato fino in fondo i dettagli, che si affida anche per la propria persona, dopo che nei suoi confronti pure viene spiccato un mandato di cattura per il dirottamento: e così, dopo gli incontri romani con il leader ordinovista Paolo Signorelli e il camerata udinese Cesare Turco, anche Vinciguerra si rifugia nella Spagna del franchismo dove, per fuggire alla giustizia, hanno piantato le proprie tende numerosi estremisti di destra italiani.
Siamo a fine marzo del 1974 e in Spagna Vinciguerra resterà fino al settembre del ’75 quando, sei mesi dopo l’assoluzione in primo grado per il dirottamento di Ronchi dei Legionari, decide di rientrare in Italia: «Ne avevo abbastanza, se non della Spagna, certamente dei cosiddetti “esuli” italiani», scrive, e il riferimento è ai vari Rognoni, Saccucci, Francia, Pomar, Orlandini. Diverso invece – e non poteva essere altrimenti – il giudizio sul comandante Junio Valerio Borghese, «da cui trassi una vivissima impressione». Ma tra le sue frequentazioni Vinciguerra elenca anche transfughi dell’Esercito rivoluzionario portoghese, francesi dell’Oas, addirittura l’ex colonnello delle SS Otto Skorzeny, il liberatore di Mussolini a Campo Imperatore. Oltre all’ineffabile Yves Guérin-Sérac, il militare francese la cui Aginter Press è da sempre indicata come organizzazione ispiratrice (se non motore) della strategia della tensione. Come campavano in Spagna gli italiani di questa “internazionale nera” protetta dalla polizia e dai servizi spagnoli, con cui collaboravano in veste di informatori (ma anche partecipando a sanguinose operazioni anti basche)? Semplice: vendendo armi e munizioni in tutto il mondo attraverso la Eniesa, ditta di import-export in cui lo stesso Cicuttini lavorava come impiegato e che Vinciguerra, il 27 agosto 1984, definisce a verbale «una impresa nostra».

2. La latitanza in Sudamerica

Ora occorre fare attenzione, perché un po’ si fatica a stare dietro al percorso di Vinciguerra. Che, rientrato in Italia, il 2 dicembre del 1975 viene arrestato a Roma assieme ad altri esponenti di Avanguardia Nazionale in un appartamento di via Sartorio. Si fa tre mesi a Regina Coeli, dal processo esce assolto dall’accusa di favoreggiamento nei confronti di latitanti. A giugno però arriva la condanna in appello per Ronchi dei Legionari e dunque la necessità di ridarsi alla clandestinità: «Pressato dagli avanguardisti che temevano il mio arresto, non solo per generoso altruismo», annota Vinciguerra, e si capisce che attorno a lui i camerati stanno facendo terra bruciata. E dunque il ritorno in Spagna, ma per pochi mesi: il 1° gennaio 1977 si ritrova infatti costretto a rientrare in Italia, per poi ripartire a giugno, destinazione Santiago del Cile: perché?
Non tornai in Spagna perché in quel periodo il centro di gravità della destra italiana all’estero si era spostato in America latina. In Spagna nel gennaio-febbraio 1977 erano iniziati gli arresti di esuli di destra: furono colpiti esclusivamente esponenti di ON per la ragione che costoro non avevano mai adottato misure di sicurezza ed alcuni di loro avevano chiesto permessi di soggiorno alla Polizia spagnola che ne conosceva perciò gli indirizzi.
Così Vinciguerra in una deposizione resa al magistrato bresciano Gianpaolo Zorzi il 2 luglio 1985, e ci può stare. Anche in Cile però la latitanza è cosa complicata, benché assieme a lui vi sia il numero uno di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie, a sua volta in stretto collegamento con la Dina, i servizi segreti cileni, ai quali mette a disposizione la propria competenza. A far stringere il cerchio sui neofascisti italiani, sostiene Vinciguerra, sarebbe stato il braccio di ferro tra il governo degli Stati Uniti e quello cileno (cioè il generale Pinochet) in relazione al caso di Orlando Letelier, l’ex ministro del governo Allende ucciso assieme alla segretaria a Washington da un agente dei servizi cileni, Mike Townley, origini statunitensi ma cittadino cileno a tutti gli effetti. La consegna di Townley all’Fbi dopo forti pressioni del presidente Carter, afferma Vinciguerra, provocò un effetto onda lunga anche nei confronti dei latitanti della destra italiana. Sia come sia, fatto sta che Vinciguerra si ritrova a dover varcare in fuga un altro confine, quello con l’Argentina, «in compagnia di un indio, come guida, privo di soldi e di documenti», per tre giorni e due notti sulle montagne andine nel sud del Paese. Per arrivare alla sperduta San Martín de los Andes, poi un lungo viaggio in treno fino a Buenos Aires, «dove nessuno mi attende».
Siamo a metà maggio del 1978. E fino a questa data, per quanto riguarda il Cile, il racconto di Vinciguerra si articola in una lunga e dotta analisi della situazione locale, ma allo stesso tempo pressoché nulla per quanto riguarda una propria qualsivoglia attività politica. E più o meno è lo stesso per il periodo argentino, che trascorre stancamente per quasi un anno, fino a marzo del 1979, condividendo abitazioni con un altro estremista di vaglia, Maurizio Giorgi, ma anche con crescenti timori circa il controllo dei propri spostamenti. In sostanza: per quasi due anni Vinciguerra si barcamena agli antipodi senza contatti, senza una missione, senza nulla che ne giustifichi l’esistenza, se non la necessità di sfuggire alla giustizia. Ma tornando alla sua auto rappresentazione, ecco come il 6 luglio del 2000, deponendo davanti alla Corte d’assise di Milano al processo per la strage di Piazza Fontana, Vinciguerra spiegherà invece la scelta di fare rientro in patria.
Io mi sono costituito a questo Stato non ovviamente con volontà di resa, ma semplicemente perché non ritenevo di potere fare ancora il latitante con Avanguardia Nazionale, ritrovandomi nella mia libertà di azione. Capisco che è difficile capire che esiste una libertà in carcere, le vostre carceri poi... comunque lasciamo perdere. Ma a parte questo, quello segna il momento del distacco da Avanguardia Nazionale: potevo fare il latitante in Argentina, in Spagna, però avrei dovuto restare in Avanguardia Nazionale: costituendomi, ritrovando quindi la mia libertà di azione mi sono distaccato da Avanguardia Nazionale.
E suona tutto molto meglio, no? Questa auto rappresentazione, d’altra parte, è esattamente quella da anni recepita da magistrati e storici. Lo dimostra come lo ha accolto il presidente della Corte d’assise di Bologna Caruso in occasione della sua ultima deposizione al processo Bellini, quella del 28 gennaio 2022:
Buongiorno Vinciguerra, so di averla disturbata e di averle fatto affrontare un viaggio faticoso. Ha già reso qui due lunghi verbali che accendono curiosità, perché lei è una miniera di informazioni e, più dice, più c’è la necessità di svolgere accertamenti di una certa gravità, che vanno fatti fino in fondo. C’è la sua scelta di dire, secondo una linea adottata e mantenuta coerentemente negli anni, ma noi saremmo interessati a quello che lei non dice. D’altra parte è un suo diritto, pagato con quarantadue anni di carcere. Da questo punto di vista la sua coerenza e dignità sono indiscutibili, quindi nulla da dire.

3. La “lezione” di Bologna

La deposizione resa da Vinciguerra in quell’occasione è un ottimo compendio del suo lavoro in carcere: un lavoro di analista e storico, fatto di libri scritti in prima persona, alcuni dei quali (i primi due) di non facile reperibilità, e di una sterminata serie di articoli diffusi nel web grazie a mani amiche. E quindi, per sintetizzare il Vinciguerra-pensiero, ci si può affidare alla registrazione di quell’udienza, in cui l’ergastolano ha ribadito che tutte le stragi avvenute in I...

Indice dei contenuti

  1. A Peteano
  2. 1. Il testimone
  3. 2. La “confessione”
  4. 3. I processi
  5. 4. La pista rossa
  6. 5. Ronchi dei Legionari
  7. 6. Almirante
  8. 7. Le bombe di Trento
  9. 8. I goriziani
  10. 9. La pista nera
  11. 10. Altri depistaggi
  12. 11. Aurisina
  13. 12. Memoria/1: Peteano
  14. 13. Le deposizioni
  15. 14. Memoria/2: Vinciguerra
  16. 15. Faccia a faccia
  17. Epilogo
  18. Fonti e bibliografia
  19. Ringraziamenti