Classi pericolose
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Classi pericolose

Una storia sociale della povertà dall'età moderna a oggi

  1. 312 pagine
  2. Italian
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Una storia sociale della povertà dall'età moderna a oggi

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Ci sono persone considerate pericolose per gli atti che hanno compiuto: crimini, furti, omicidi, stupri. Ci sono poi interi gruppi considerati pericolosi per la loro condizione sociale: mendicanti, vagabondi, emarginati. In una parola: poveri. Non hanno fatto nulla di male, non hanno commesso reati, eppure sono sospetti e per questo pericolosi. Quando e perché abbiamo iniziato ad avere paura degli ultimi? E che cosa è cambiato nei secoli?

Le disuguaglianze economiche sono antiche quanto l'umanità e i poveri, purtroppo, sono sempre esistiti. Quello che è cambiato storicamente è il modo in cui gli ultimi sono stati considerati e trattati. Questo libro tesse le fila di una secolare vicenda che parte dagli albori dell'età moderna, quando per la prima volta il povero perde la concezione sacrale che aveva avuto nel Medioevo e diventa agli occhi dei gruppi dominanti colpevole del proprio stato. S'avvia un processo di criminalizzazione per cui accattoni, vagabondi, stranieri iniziano a essere percepiti come una minaccia. La società via via si trasforma sotto l'impulso di una borghesia che trionfa sulle altre classi sociali imponendo una nuova cultura e un diverso stile di vita, pretendendo il decoro delle città e dei comportamenti delle persone che le abitano, difendendo con ogni mezzo la proprietà e la sicurezza. L'idea che i poveri, e più di recente i contadini e gli operai, siano un pericolo sociale diventa pratica di governo, si trasforma in leggi, seleziona i soggetti che devono essere sorvegliati e, nel caso, messi al bando o rinchiusi lontano dal consesso civile. È una storia che dal Cinquecento arriva all'oggi, evidenziando linee di sconcertante continuità.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788858149522

XI.
Legge e ordine

Liberali dalla pratica illiberale

La nuova classe dirigente si presentò con una palese contraddizione, visibile sin dal primo arrivo nel Mezzogiorno, tra la proclamazione del nuovo regno come Stato di tipo liberale e la pratica concreta, quotidiana, che invece aveva in primo piano il volto arcigno e crudele dei militari che si muovevano come se fossero legibus soluti. Le leggi eccezionali e gli stati d’assedio rappresentavano una ferita, una violazione dello Statuto e una sconfessione dello stesso Cavour che sul letto di morte aveva raccomandato ai suoi di «non avviarsi sulla strada degli stati d’assedio»423. E invece si iniziò subito il 17 agosto 1862. Fu in Sicilia che si avviò questa stagione; la proclamazione dello stato d’assedio aveva come obiettivo di contrastare la spedizione di Garibaldi; una settimana dopo fu esteso a tutte le province napoletane «per prevenire eventuali disordini e, soprattutto, per reprimere la camorra e il brigantaggio»424.
È un volto illiberale quello che la nuova classe dirigente mostrò sin dall’inizio, anche se il modo di agire fu spiegato con l’insorgenza terribile e violenta dei briganti. Ma poteva, quella congiuntura, seppure tremenda e drammatica, giustificare una repressione con metodi crudeli, uccisioni illegali, fucilazioni senza processi, violazione ripetuta delle leggi e a volte delle stesse disposizioni dello Stato maggiore dell’esercito da parte di ufficiali importanti che operavano sul campo di battaglia e comandavano le truppe? Se lo chiesero in tanti, anche allora; e le risposte non furono univoche.
In realtà la «tradizionale linea politica moderata», che s’è vista già nel 1848, adesso ancor più con il brigantaggio «riduce la questione ad un problema di ordine pubblico turbato (‘anarchia’). E quindi di polizia»425. La vicenda del brigantaggio conferma un giudizio oramai consolidato nella storiografia più attenta ai fenomeni sociali di quel periodo. Le classi dirigenti italiane «avevano mancato l’occasione dell’unificazione per rispondere alla più profonda e radicata aspirazione delle masse contadine: la riforma agraria, la distribuzione delle terre a chi le lavorava». Lo scontro aspro e violento portò alla vittoria dei moderati che ebbe come conseguenza la costruzione di «un assetto statale dominato dalla sacralizzazione del diritto di proprietà, timoroso di ogni contagio di ideologie rivoluzionarie tra le classi subalterne»426.
Timori e paure, inventate o percepite o reali che fossero, spinsero verso una svolta repressiva su vasta scala «ispirata al criterio dell’eccezionalità degli eventi». Il nuovo indirizzo fu subito chiaro: si «affidava a tempo indeterminato la direzione politica ed amministrativa del Mezzogiorno alle autorità militari»427 che realizzarono, come sostiene Giorgio Candeloro, «una specie di dittatura militare su tutto il Mezzogiorno continentale»428.

Violazioni dello Statuto

La «continuità dello Stato»429 dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia fece leggere in modo diverso alcuni aspetti della situazione, ad esempio la questione relativa ai tribunali militari. Urtava con lo Statuto – questa era la critica ricorrente – l’istituzione di tribunali militari straordinari che sostituivano per intero la magistratura meridionale, verso la quale c’era una palese sfiducia che non era transitoria, essendo «un dato caratteristico» dell’epoca430.
La magistratura è con le spalle al muro perché non intende dare una copertura legale «agli abusi e all’arbitrarietà degli arresti e delle indagini delle forze militari e si trova in una imbarazzante situazione di intralcio alle azioni di polizia»431. Questi tribunali erano autorizzati persino a «giudicare civili, imputati per reati di competenza della magistratura ordinaria»432. Anche la legge Pica incappò in pesanti censure essendo considerata da alcuni come la «negazione del sistema penale ordinario»433 anche se servì a legalizzare ex post le illegalità commesse in precedenza e a fornire uno strumento normativo ai militari per combattere più efficacemente i briganti. La legge fu «interpretata come la manifestazione originaria di una tendenza verso soluzioni autoritarie, eccezionali, che lo Stato liberale italiano avrebbe mostrato già nella sua prima fase, e lasciato poi in eredità al regime fascista»434.
La stagione del brigantaggio non può essere considerata come una vicenda transitoria, perché rappresentò un «evento fondativo dell’identità italiana, anche giuridica perché l’approccio criminalizzante di allora ha condizionato l’identità della scienza giuridica penale nazionale». Lungo quel decennio si costruì una «rappresentazione stereotipata della meridionalità e, insieme, della cultura contadina che verranno progressivamente confuse con il complesso fenomeno del brigantaggio e poi con la mera criminalità». Ancora una volta si verificò «uno slittamento cognitivo dalla questione sociale alla questione criminale»435.
Illegalità e arbitrii erano all’ordine del giorno e chi li commise non fu mai punito. Uno degli effetti di questa situazione fu il telegramma di La Marmora a Rattazzi: «Ho arrestato i deputati, li fucilo?»436. Per fortuna risposero di no. Il fatto stesso di porre una domanda del genere solleva un problema enorme su come gli alti ufficiali dell’esercito valutavano la realtà e intendevano muoversi sul campo.
Un altro slittamento si verificò sul terreno squisitamente politico perché Cavour e i suoi rimasero allibiti di fronte al fatto che i napoletani non fossero insorti prima dell’arrivo di Garibaldi. Nel conflitto tra Cavour e Garibaldi il primo voleva che l’iniziativa fosse in mano moderata. E dire che per far sollevare Napoli aveva brigato tanto e aveva fatto avere a Liborio Romano, l’ultimo ministro dell’Interno dei Borbone, delle armi da distribuire ai rivoltosi. Ma Romano non seguì le direttive del conte e scelse le camicie rosse. «La condotta dei napoletani è disgustosa», scriverà Cavour al suo inviato nelle regioni meridionali, il marchese di Villamarina. E così, accanto alle immagini stereotipate dei napoletani sparse a lungo e a piene mani dai viaggiatori del Grand Tour ecco aggiungersi il ciclo di descrizioni di Napoli, e del Mezzogiorno in genere, come «la capitale dell’ozio e della prostituzione di tutti i sessi, di tutte le classi». Insomma, «ozio e maccheroni»437. C’è un’ampia letteratura che racconta questa presunta propensione dei meridionali per l’ozio. Presunta, ma non vera.
Si verificò una torsione politica e culturale rilevante perché portò alla costruzione del nemico, il brigante, che, «isolato dal proprio contesto con le sue ragioni economiche e sociali, può assumere il ruolo di nemico sociale da affrontare con strumenti polizieschi, mentre lo Stato può continuare ad autorappresentarsi liberale, aperto al confronto con il dissenso politico». Erano contraddizioni tanto stridenti da spingere il giurista toscano Francesco Carrara a dire: «io mi sono sventuratamente convinto che politica e giustizia non nacquero sorelle»438. E non potevano nascere gemelle dal momento che per Cav...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Nati senza camicia
  3. II. Pauper Christi: le rappresentazioni del povero
  4. III. I poveri sono pericolosi
  5. IV. Vagabondaggio, un male antico
  6. V. Assistenza: un tentativo di risposta comune
  7. VI. La repressione: l’altra faccia della medaglia
  8. VII. Donne: tra ceti elevati e bassifondi
  9. VIII. Un’epoca di banditi, tumulti e rivolte
  10. IX. Il lungo Ottocento
  11. X. Dopo l’Unità d’Italia
  12. XI. Legge e ordine
  13. XII. Anni di tensioni e di lotte prima della catastrofe
  14. XIII. L’Italia repubblicana
  15. Epilogo
  16. Ringraziamenti