Dossier Benjamin
  1. 352 pagine
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Walter Benjamin è stato un pensatore anti-filosofico e anti-sistematico. E FredricJameson, il più grande critico americano vivente, ne conosce alla perfezione non solo gli scritti, ma anche le ambiguità. Tanto da offrirci una sorprendente lente di lettura di tutte le sue principali opere e di un gran numero di recensioni di libri, note, lettere, che ne rivelano, oltreallo spessore concettuale, l'inclinazione ineludibile nei confronti della scrittura. Dagli articoli più brevi ai progetti più ambiziosi, dai saggi arcinoti come Baudelaire o L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica ai frammentipostumi, in questo repertorio di documenti e rivelazioni, di enigmi e contraddizioni, non cessa di stupire la coesistenza di campi linguistici e codici tematici apparentemente inconciliabili, la tensione mai domata tra il lato mistico o teologico e la vocazione politica e storica, che rende Benjamin ancora oggi riferimento imprescindibile di ogni indagine sul capitalismo odierno. Le analisi di Jameson dei concetti di gioco e di spazio, di esperienza e città, di massa e citazione si snodano attraverso un "corpo a corpo" da cui non esce certo unBenjamin facile, ma finalmente scrivibile.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2022
ISBN
9788812009213
Argomento
Filosofia

1

Vento nelle vele

1

Per il dialettico ciò che conta è essere sospinto dal vento della storia universale. Pensare per lui significa: alzare le vele. Quel che conta è come si alzano. Le parole per lui sono solo le vele. Come vengono alzate fa di loro un concetto1.
Benjamin è spesso sin troppo facile da leggere (o “leggibile”, avrebbe detto Roland Barthes) perché ci si accorga che è invece incomprensibile o, in altre parole, “scrivibile”. Questo brano sembra confermare l’ovvio, ovvero che tutto nell’opera di Benjamin è mosso dalla passione per la storia (o quantomeno per ciò che è storico). Ma procedendo oltre nella lettura, l’immagine si fa ambigua, molteplici implicazioni ci sospingono in direzioni divergenti, sollevano problemi senza soluzione: il vento dominante oppure le correnti di marea, l’andare di bordata, il sartiame, le dimensioni stesse dell’imbarcazione.
La metafora, di così immediata identificazione, denarrativizza. Ma è diventata materia prima da utilizzare nella fabbricazione di altre figure, la produzione non di una mappa ma di un manuale d’uso. La nostra prima lettura comincia presto a disintegrarsi, le vele si afflosciano nella brezza calante, i significati si dissolvono nella bonaccia, cominciamo a intuire di avere per le mani non una metafora ma piuttosto un’allegoria: una forma che vive di interruzioni e differenze, non di identità, qualcosa che si sviluppa nel tempo.
Il punto di svolta, l’immagine operante, è ovviamente l’issarsi delle vele, con cui Benjamin vuole comunicare la varietà di codici critici e linguaggi teorici che utilizziamo, a seconda di dove ci situiamo nella storia, e quindi nella politica. Non si tratta di relativismo filosofico ma anzi di pragmatismo, un pragmatismo che non mira alla coerenza o alla sintesi di questi codici; di fatto prescrive l’esatto opposto: la necessità di adattarsi al momento, alla crisi, al bisogno. D’altra parte, richiede l’uso dell’astuzia, della tattica, un consapevole pragmatismo nel fare uso di tutti i codici e i sistemi che abbiamo a disposizione per catturare il vento dominante.
Benjamin rielabora la sua figura strada facendo, senza modificare il punto di partenza, lasciando dietro di sé frasi apodittiche, infestate di indecidibili derridiani. Benjamin il pensatore non fa che intromettersi nel lavoro dello scrittore e viceversa, in un fluttuare instabile tra le parole e i concetti che il lettore deve attraversare come se camminasse su una fune.
È un’incertezza feconda – produce una tensione tra temporalità e spazio che, se mantenuta fino al punto di rottura, ci permette di cogliere un barlume del nucleo assente di questo lavoro, la famosa “stasi” (Stillstand) in cui la storia e l’attualità sono per un momento indistinguibili.
Come vedremo, Benjamin utilizza differenti linguaggi per caratterizzare questa tensione, ma assestarsi su uno soltanto anche solo provvisoriamente trasformerebbe quel barlume in una paralisi generalizzata o, in altri termini, reificherebbe le sue parole o i suoi concetti, produrrebbe opere invece che bozzetti.
La visione di Baudelaire della modernità come notazione effimera all’interno di un linguaggio figurativo classico («il transitorio, il fuggitivo, il contingente […] la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile»2) può senz’altro essere usata per descrivere i pensieri di Benjamin.
La nostra barchetta è in movimento, ma non è solo il vento della storia a sospingerla; essa non ha modo di dominare le correnti – è issando le vele e spiegandole al vento che possiamo controllare il nostro destino. È un’immagine che può solo moltiplicare le nostre domande anziché fornire risposte, e in ogni caso lo scarto avviene già all’interno della prima frase, che problematizza la nozione stessa di storia e ci fa passare dal chiederci se la storia abbia o meno una direzione al tentare di capire quale sia. E nemmeno questo secondo problema può dirsi risolto: ci è offerta un’unica verifica sperimentale e secondaria – ovvero, vedere quanta storicità il nostro concetto è in grado di registrare.
Ma nella misura in cui la storia può in sé stessa essere definita come cambiamento, questo invito presumibilmente vuole ricordarci la mutevolezza storica e la variabilità delle nostre concezioni. Ed è così che, facendoci dubitare della concettualizzazione e ricacciandoci indietro verso la figurazione, il testo non si limita a designare sé stesso, non è gesto privo di contenuto: afferma, piuttosto, la variabilità del contenuto momentaneo, l’effimero della storia, e rivela come la sua struttura temporale sia quella del singolo istante nel tempo; è un’ingiunzione a cogliere provvisoriamente la volatilità di questa figura spaziale in maniera temporale.

2

È stato notato come Benjamin avesse l’abitudine di tenere separati i suoi tanti amici, corrispondenti e confidenti, aprendosi con generosità a ciascuno ma tenendolo all’oscuro della compresenza di altri interlocutori, talvolta della loro stessa esistenza. C’è materiale per immaginare un equivalente intellettuale di una di quelle farse da camera da letto nei tanti drammi e nelle gelosie che alcune di queste accidentali scoperte hanno scatenato (gli ammonimenti di Scholem rispetto alla perniciosa influenza di Brecht, per esempio).
Da questa strabiliante corrispondenza emerge che a ciascun destinatario Benjamin si rivolgeva utilizzando un particolare idioma ed esprimendo preoccupazioni diverse, temi che corrispondevano a riflessioni e interrogativi attinenti al proprio lavoro (le sue lettere quasi sempre contengono riferimenti alle letture e ai progetti del momento), ma non necessariamente vi troviamo quei cambi di identità, scarti tra differenti personae, tipici dei modernisti. Rivelano invece come nel suo pensiero esistesse una varietà di campi linguistici distinti o aggregazioni che gli era possibile modulare, e che non possiamo del tutto considerare né come stili né come argomenti tra loro estranei.
La traduzione era uno degli interessi prediletti di Benjamin, non sarebbe quindi sbagliato vedere la sua scrittura come un processo di perpetua traduzione da un’aggregazione linguistica all’altra, ma anche e soprattutto di messa in risalto di quelle discontinuità a cui era così attento, e che ha mantenuto come principio fondamentale tanto nel contenuto del suo pensiero quanto nella sua forma.
Chi ha una dimestichezza convenzionale con Benjamin lo accosterà immediatamente a tre parole chiave: “flâneur”, “aura”, “costellazione”. Sono indubbiamente parole privilegiate, ma la loro giustapposizione ci rivela subito il divario tra il significato che veicolano e i loro utilizzi possibili. Ciascuna è al centro di una sua costellazione di associazioni, e questo dovrebbe già metterci in guardia rispetto alla relatività del termine “costellazione”, un concetto chiave della sua Premessa critico-conoscitiva all’Origine del dramma barocco tedesco. Quale che sia il significato di questo terzo concetto, per il momento dobbiamo tenere a mente che in esso è implicita una distanza radicale tra tali costellazioni, e anche un’opposizione a qualsiasi tentativo sistematico di connetterle l’una con l’altra.
Vista da questa prospettiva, la parola “costellazione” si rivela un’arma distruttiva, uno strumento da impugnare contro qualsiasi tentativo di organizzarla in sistema, e soprattutto contro ogni filosofia sistematica: la sua funzione qui è quella di rompere l’omogeneità del linguaggio filosofico (andando così a minare proprio quell’ordine che essa parrebbe promuovere tra le stelle).
Il contesto storico chiarirà quello che può sembrare scontato in un’età teorica come la nostra: l’epoca di Benjamin, gli anni della sua giovinezza e della sua formazione intellettuale, è entrata nei libri di storia come l’era del neo-kantismo, in cui la filosofia era quasi esclusivamente epistemologia, dominata dalle scienze, e in cui la conoscenza era vista come l’unica forma di verità di cui la filosofia, e il pensiero in generale, dovessero occuparsi.
Di quella stagione oggi ricordiamo solo i ribelli e i contestatori: Nietzsche, Dilthey, Bergson, Croce, i fenomenologi, la psicoanalisi, Simmel e così via, la maggior parte dei quali non è riuscita in vita a ritagliarsi uno spazio all’interno di una simile egemonia istituzionale, tanto accademica quanto epistemologica.
Benjamin non era seguace di nessuno di questi movimenti o profeti, pur avendo imparato da molti di loro. Ha escogitato le sue personali soluzioni. È però chiaro che i suoi sforzi giovanili erano condannati a scontrarsi continuamente con quel problema chiamato Kant: incerto se appropriarsene, traducendo la concezione kantiana dell’“esperienza” in qualcosa di più ampio, esistenziale o metafisico, o piuttosto eliminarlo completamente («dovunque questo grande avversario [di certi pensieri per così dire rivoluzionari] è Kant»3, scrive in una lettera a Ernst Schoen il 18 maggio 1918). E non poteva essere certo Hegel la soluzione, per quanto l’enfasi sulla lingua, così presente nei primi scritti, costituisse un orientamento più che una soluzione metodologica (la filologia all’epoca era una disciplina ancora in attesa di rinnovarsi e rinvigorirsi). La storiografia, con l’unica grande eccezione di Riegl, offriva solo continuità idealistiche ed evoluzioniste (verso un obiettivo più tardi identificato come “progresso”), e non le interruzioni che erano la precondizione di quelle periodizzazioni che avrebbero assorbito così tante delle sue energie più avanti (il barocco, il secondo Reich, la “situazione” degli scrittori suoi contemporanei in Francia e nell’Urss).
“Costellazione” sarà solo uno dei nomi di quel focus discontinuo e tuttavia periodizzante di cui Benjamin è in cerca, e perderebbe la sua ragion d’essere se volessimo farne un concetto filosofico, un universale. Ciò che accompagna il processo di traduzione qui proposto per descrivere il pensiero di Benjamin richiede una lingua diversa da quella dell’astrazione filosofica: la chiameremo “figurazione”, e illustreremo i suoi risultati utilizzando un altro nome e una versione completamente diversa di ciò che la costellazione era nata per comunicare.
È questo il Kaiserpanorama, un intrattenimento popolare ancora in voga durante la giovinezza di Benjamin ed evocato in diversi passaggi dei suoi scritti, sebbene i panorami fossero stati inventati all’epoca di Baudelaire. Il Kaiserpanorama, come tanti reperti benjaminiani, si presterà a scopi diversi. Fornirà il contenuto di un brano autobiografico (in Infanzia berlinese), e ispirerà anche la forma dell’opera intitolata Strada a senso unico, dal momento che essa può essere vista non solo come un panorama della Germania ai tempi di Weimar, ma della vita urbana in sé. Nella loro forma classica, i tableaux statici raffiguranti momenti storici formano una sequenza discontinua, «poiché la struttura con dinnanzi le sedie era di forma circolare, ciascuna veduta scorreva davanti a tutte le postazioni»4. Questa discontinuità servirà quindi (un terzo utilizzo, dopo forma e contenuto) ad anticipare il grande tema dei media tecnologici: «i panorami», scrive Benjamin, «predispongono la strada, oltre che alla fotografia, al cinema e al film sonoro»5.
Come spesso accade, Benjamin in un altro saggio ci delizia con una biografia in miniatura dell’inventore del panorama, che è anche l’inventore di una delle prime forme di fotografia, il dagherrotipo. Quello che Benjamin vuole fare tracciando questo ritratto di Daguerre è educarci alla sensibilità nei confronti dei grandi innovatori e inventori, perché noi si possa annoverare come tali anche gli artisti e gli scrittori e, così facendo, comprendere i loro risultati in una chiave diversa, vedendoli come avanzamenti tecnici. Ma nemmeno il lettore è escluso – i panorami saranno descritti come il segno di un nuovo tipo di percezione, quella dell’abitante della città, e di una nuova attenzione a una moltitudine di dettagli e attrazioni che saranno, tuttavia, afferrati uno per uno, man mano che passiamo da un’immagine all’altra (il fatto che anticipino le sale giochi, e così anche l’uso del ferro nell’edilizia, è solo un altro vantaggio di questa figura).
La figurazione è quindi una forma complessa del linguaggio, nella quale una certa discontinuità può essere colta e ricevere nome, pur rimanendo aperta, nonostante tutto, a utilizzi molteplici e laterali. Allo stesso modo, la costellazione può diventare l’occasione per riflettere sull’astrologia (e la grafologia) o, al contrario, sul significato delle stelle nella poesia di Baudelaire. Ma la ricerca stessa di una figura adeguata a esprimere questa particolare concettualizzazione provocherà un fenomeno a essa contiguo:
Non può essere ignorato che il nastro trasportatore della catena di montaggio, il quale gioca un ruolo tanto decisivo nel processo di produzione, viene rappresentato, nel processo del consumo, per certi versi, dalla pellicola cinematografica6.
Qui non abbiamo solo struttura e sovrastruttura in un pacchetto unico, ma anche la possibilità di caratterizzare in modo nuovo quell’“estetica della discontinuità” che troviamo nel cosiddetto “montaggio delle attrazioni” di Ėjzenštejn, così somigliante alle pratiche moderniste quali l’ideogramma di Pound. Se è così, meglio sarebbe associare Benjamin al modernismo eretico di un Brecht che alle sue più convenzionali incarnazioni accademiche. La pratica scrittoria di Benjamin ha molto in comune (lasciando da parte il famoso “effetto-V”, o “straniamento”) con il teatro epico brechtiano, con la relazione analitica che esso stabilisce con i propri contenuti: scomponendo ogni atto o evento nei suoi elementi costitutivi, dando loro un nome, come a mettere una didascalia in calce a un’immagine (o inserire un intertitolo in un film muto), facendo calare uno striscione su di una scena che, come nei romanzi ottocenteschi, annuncia gli sviluppi del prossimo capitolo: «Dove il signor Peachum…» ecc.
Meglio non cedere alla tentazione di attribuire a Benjamin un’estetica ufficiale – “un’estetica della discontinuità”, per esempio –, è più prudente e utile fare un elenco delle sue avversioni – all’idea di progresso, alla psicologia, alla storia dell’arte, all’estetizzazione, all’estetica stessa – che ostinarsi nel tentativo di attribuirgli formule positive. Possiede senz’altro un suo canone, ma caratterizzato da marginalità ed eccentricità, da un’ostinata anti-canonicità, più che da un elenco di valori formali condivisi.
Questa preponderanza del negativo – persino la Erfahrung, o l’esperienza, quel momento di verità così importante nella visione di Benjamin, è definita in contrapposizione allo shock puntuale prodotto nell’Erlebnis; persino l’aura è definita in opposizione alla riproducibilità che la rende obsoleta – mi porta a tentare un racconto meno affermativo di ciò che rende possibile l’episodio benjaminiano (se non brechtiano): è l’interruzione in quanto tale, la cesura, l’interstizio, la separazione (una categoria fondamentale anche per il giovane Marx).
Estrapolare una citazione dal suo luogo di nascita, il testo originario, è, come vedremo, un processo caratteristico (un Gestus benjaminiano); la distruzione è in questo caso ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. ABBREVIAZIONI DELLE OPERE DI WALTER BENJAMIN
  5. INTRODUZIONE. Di massa e di materia: Jameson scrive Benjamin di Massimo Palma
  6. CAPITOLO 1. Vento nelle vele
  7. CAPITOLO 2. La frase spaziale
  8. CAPITOLO 3. Cosmo
  9. CAPITOLO 4. Il pianto della natura
  10. CAPITOLO 5. Il ciclo fisiognomico
  11. CAPITOLO 6. Lo spazio e la città
  12. CAPITOLO 7. Il più grande critico letterario tedesco
  13. CAPITOLO 8. Gli occhi e le mani della folla
  14. CAPITOLO 9. La storia e l’elemento messianico