La promessa di un sogno
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La promessa di un sogno

Ricordi e utopie degli anni sessanta

  1. 384 pagine
  2. Italian
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La promessa di un sogno

Ricordi e utopie degli anni sessanta

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Ribellione e volontà di cambiamento, contestazione e speranza, sogno, forse utopia: gli anni Sessanta sono stati un periodo straordinario per tutta la società americana ed europea, ma in particolare un momento storico per le donne, di presa di coscienza e di partecipazione, di liberazione dai ruoli sessuali, familiari, sociali. Dalle lotte sindacali ai primi passi verso l'emancipazione femminile, dai nuovi media alle avanguardie culturali, attraverso il pop, le minigonne, lo sballo e l'incredibile scena musicale, l'autrice ricostruisce l'atmosfera e gli eventi di quel periodo entusiasta e rivoluzionario, consegnandoci un testo divertente e allo stesso tempo struggente.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2021
ISBN
9788812008445

6

1969

Quando Tariq mi mostrò il layout di “Black Dwarf” per il numero intitolato 1969, l’anno delle donne militanti?, ebbi un tuffo al cuore. Il grafico, che di solito lavorava per “Oz”, doveva aver pensato “donne = stupidità”. Sullo sfondo rosa spiccava il disegno di una pupa che si affacciava dalla “V” di vittoria, con in mano falce e martello. Sotto quest’immagine aveva disegnato un’altra donna in tuta da lavoro con i bottoni delle tasche a mo’ di enormi capezzoli. Gli articoli che avevo raccolto erano stati talmente inzeppati di immagini che era quasi impossibile leggerli. Nella mente del grafico la “liberazione delle donne” sembrava tradursi in un invito generale a togliersi i vestiti, così aveva cosparso le pagine con foto di Marilyn Monroe, Yoko Ono e John Lennon nudi. Tariq le fece togliere, facendo spendere al giornale ulteriori settanta sterline, una cifra enorme nel 1969. Purtroppo mi sfuggì un annuncio personale inserito dal grafico: «Grafico del “Dwarf” cerca assistente sveglia e preferibilmente afro-americana. Mansioni: fare il tè, organizzare il lavoro, occuparsi di me. Fumo, vitto e alloggio gratis». Questo era il lato squallido dell’underground, arrogante, ignorante e pieno di pregiudizi, e spiega la rabbia che poco dopo provarono molte donne impiegate nelle redazioni delle riviste del movimento.
Comunque, a parte il tentativo di sabotaggio, finalmente il numero sulle donne era pronto: Audrey Wise firmava il pezzo sulla parità delle retribuzioni, davamo informazioni sulla campagna di Lil Bilocca per la sicurezza dei pescherecci da traino a Hull, Ann Scott parlava del controllo delle nascite, un articolo suggeriva come la comunità doveva prendersi cura dei bambini e Fred Halliday parlava di Donne, sesso e l’abolizione della famiglia. Il pezzo centrale era il mio, quello che avevo scritto nel seminterrato di Hackney. I pensieri che avevo condiviso solo con gli amici, scarabocchiato nel mio diario o scritto in una lettera, si stavano ormai diffondendo nel mondo. Lessi con ansia quello che avevo scritto a proposito della disuguaglianza sul lavoro, della fatica di combinare un impiego con la cura dei figli, dei tabù persistenti sulla sessualità femminile, e chiedevo:
Di cosa ci stiamo lamentando? Di tutto questo e di altro ancora – molto meno tangibile – una consapevolezza strisciante, vaga e senza forma – un’insoddisfazione espressa sottovoce – che improvvisamente affiora in superficie ed ESPLODE. […] Vogliamo guidare gli autobus, giocare a calcio, usare i boccali da birra e non i bicchieri normali. Vogliamo che siano gli uomini a prendere la pillola. Non vogliamo che ci considerino solo un complemento o le mogli di qualcuno. Non vogliamo essere avvolte nel cellophane e spedite a fare il tè o messe come pedine nei comitati sociali. Ma queste sono solo piccole cose. E le rivoluzioni riguardano le piccole cose. Piccole cose che accadono di continuo, ogni giorno, ovunque tu vada, per tutta la vita.1
Questi piccoli dettagli quotidiani non facevano parte del linguaggio della politica nel 1969.
Non ero ancora abituata a parlare in pubblico e quando un sindacalista di Hull, che conoscevo di vista, mi fermò a una riunione della Lse e osservò con tono sprezzante che doveva essere stato bello dare sfogo a tutti i miei «problemi personali», mi vennero le lacrime agli occhi. Per fortuna Ann Scott venne in mio aiuto e si scagliò contro di lui con furia gelida: «Non è solo Sheila a pensare queste cose». Il mio aggressore indietreggiò stupito. Ero stata salvata da un’altra donna e di alcuni anni più giovane di me. Dal profondo del cuore sussurrai la mia gratitudine ad Ann e in quel momento imparai quanto fosse importante non essere sole. Avevamo bisogno l’una dell’altra!
Non tutti gli uomini erano ostili. Henry Wortis mi disse che l’articolo gli piaceva e, a gennaio, Edward Thompson mi scrisse dalla Warwick University: «Mi è piaciuto molto il tuo pezzo su “BD”: un nuovo stile, non condiscendente, non alla maniera della “New Left Review”, a tratti poetico». Ma il riconoscimento più importante venne dal movimento di liberazione femminile di Boston: il numero di maggio 1969 del quotidiano radicale “Old Mole” dedicato alle donne riproduceva il mio articolo con immagini potenti e commoventi. Quando Danny Schechter, allora uno studente radicale che in seguito sarebbe diventato un noto giornalista negli Stati Uniti, me ne consegnò una copia durante una riunione della Lse fui sopraffatta dall’emozione al pensiero che il racconto della mia esperienza personale potesse essere rilevante per le donne di un altro paese. Nei primi anni del movimento questi scambi internazionali sarebbero stati di vitale importanza perché rafforzavano una coscienza femminista che, spesso, sembrava molto fragile.
La difesa appassionata di Ann Scott segnalava l’esistenza di un rapporto molto più stretto tra le giovani donne radicali. Sin dai tempi della scuola avevo sempre avuto forti legami individuali con le donne, ma le mie amicizie intellettuali e politiche erano più spesso maschili e così sarebbe stato anche in futuro. Dopo l’uscita di “Black Dwarf” quel gennaio, però, mi ritrovai a parlare con le mie amiche con un rinnovato entusiasmo. Sembravamo andare tutte nella stessa direzione. Improvvisamente era possibile vedere come le cose fossero collegate tra loro e avessero un senso. Era come se stessimo scoprendo un nuovo modo di vedere le cose che, allo stesso tempo, era sempre stato parte della nostra consapevolezza. E questo reciproco riconoscimento cominciava a diffondersi tra tutte le donne, non solo tra quelle che conoscevo da tempo. Se prima erano state soprattutto delle rivali in ambito sessuale, ora bastava un sorriso o uno sguardo per farci sentire solidali e unite.
Ai piccoli drappelli di donne della borghesia che discutevano tra loro si contrapponeva ora il nuovo spirito che aleggiava tra le donne della classe operaia. La richiesta della parità retributiva, sollevata nel contenzioso con la Ford per l’inquadramento, si estendeva a tutti i luoghi di lavoro. Nelle compagnie di trasporti, per esempio, si chiedeva l’introduzione delle donne autiste e quel gennaio, mentre alla riunione sindacale dei lavoratori dei trasporti di Londra veniva discussa la proposta degli one-man buses,2 le donne occuparono l’edificio durante la pausa pranzo.
Nel 1968 la mia vita era stata una serie infinita di riunioni e l’entusiasmo per quella che sarebbe stata la sinistra “extraparlamentare” non si era del tutto attenuato. Il 24 gennaio la Central Hall Westminster era affollata per un dibattito intitolato “Riforma vs Rivoluzione”. Michael Foot ed Eric Heffer sostenevano la “riforma”, Tariq e Bob parlavano a favore della “rivoluzione”, mentre io correvo su e giù per i corridoi con fasci di “Black Dwarf”: non potevamo perderci l’opportunità di vendere qualche copia in più. Nel 1969, tuttavia, le grandi speranze dell’anno prima avevano lasciato il posto alla presa di coscienza che una trasformazione radicale del mondo avrebbe richiesto più tempo di quanto avevamo immaginato. Nonostante ciò, continuavamo a invocare la “rivoluzione” senza sapere come e cosa questa avrebbe comportato, perché ci sembrava evidente che la proposta del Partito laburista di procedere con riforme circoscritte non metteva in discussione le strutture esistenti di classe e potere. I laburisti ci avevano deluso nel confronto con i sindacati e in politica estera, e tendevamo a dare per scontate le riforme di governo del 1945. Ne conseguiva, o almeno così sembrava, che solo un cambiamento radicale poteva eliminare la disuguaglianza sociale. Non avremmo mai immaginato che sarebbe stata la destra a cambiare le cose rendendo la Gran Bretagna un paese più iniquo. Margaret Thatcher, esponente dell’estrema destra conservatrice, sarebbe riuscita a far sembrare sensato quello che in realtà era un salto nel vuoto.
Il momento clou del dibattito tra il “Dwarf” e il “Tribune” venne raggiunto quando Robin Blackburn (con un cappottone militare) si precipitò al microfono e tra gli applausi annunciò che “i compagni” avevano sfondato i cancelli: si trattava ovviamente dei famigerati cancelli di sicurezza eretti dalle autorità della Lse, che per il movimento studentesco simboleggiavano quello che per i sindacati erano stati i tentativi di Barbara Castle di frenare gli scioperi con votazioni obbligatorie, periodi di tregua e multe: in poche parole, attraverso un controllo autoritario.
Edward Short, il segretario di stato laburista per l’Istruzione, era profondamente ostile agli studenti e sosteneva che era tempo che «alcuni di questi teppisti venissero sbattuti fuori».3 Alla fine Robin venne licenziato, non per aver sfondato i cancelli – in quel momento era a un seminario – ma per aver solidarizzato con gli studenti. Memore della violenza alcolica dei giovani dell’alta borghesia al Christ Church di Oxford, pagata con semplici rimproveri e multe, l’isteria della Lse riguardo a quell’evento mi sembrò del tutto fuori luogo. I laburisti erano diventati una metafora del potere.
Quel gennaio feci il giro di diverse università, cercando di vendere qualche copia di “Black Dwarf”. Nell’Essex trovai gli studenti impegnati a organizzare un Festival rivoluzionario dal 10 al 12 febbraio e, anche per via del nostro numero dedicato alle donne, decisero di prevedere uno spazio “femminile”. Jean McCrindle e Sally Alexander mi accompagnarono in macchina a quello che sarebbe stato il nostro primo dibattito pubblico. Sebbene non sapessimo cosa aspettarci, l’idea ci eccitava; ricordo perfettamente i discorsi intensi e la sensazione di aver finalmente trovato uno spazio di condivisione, in quei primi giorni le idee sembravano nascere soprattutto da un processo di riconoscimento, l’esperienza comune creava un legame tanto più importante e profondo perché si basava sullo scambio di impressioni che un tempo erano state solo private. Le singole reazioni, le idee e i pensieri individuali, improvvisamente, acquisivano un nuovo significato sociale.
La scoperta di queste affinità, però, ci permetteva di identificare anche le rispettive distanze. Seduta sul sedile posteriore dell’auto pensavo al legame che c’era tra Sally e Jean e che io non potevo condividere; entrambe erano giovani madri e sebbene fossimo unite dallo stesso sentire, mi rendevo conto di essere, al tempo stesso, un po’ distante, diversa: io non ero una madre e c’erano cose che non potevo sapere. Contrariamente a quanto si pensa, agli inizi il movimento delle donne aveva, nei confronti delle madri, un atteggiamento di rispetto: erano il nostro equivalente del proletariato marxista. Questa concezione, tuttavia, rimase sempre piuttosto astratta, al punto che in seguito la maternità divenne uno steccato insuperabile. Per me restò piuttosto qualcosa di intrinsecamente misterioso, al punto che interi territori della vita dei miei amici mi erano incomprensibili. Questa prima indicazione di vicinanza e separazione continuò poi a essere replicata negli anni in vari contesti e penso che ciò fosse dovuto al fatto che il nostro utopistico desiderio di unione e “sorellanza” portava con sé la consapevolezza di essere, in quanto individui, necessariamente separate. Le due polarità erano difficili da combinare.
Era una gelida giornata invernale e il campus dell’Essex University sembrava una stazione spaziale assediata di qualche assurdo mondo fantascientifico. Feci un giro con Roberta, dovevamo sollevare l’orlo degli abiti che indossavamo, per evitare che finissero nel fango. Insieme a noi c’era anche Jean-Luc Godard, che stava cercando studenti rivoluzionari per il film British Sounds. Dopo gli “eventi” del maggio francese si era radicalizzato e rifiutava l’idea del film come oggetto d’arte, preferendo dedicarsi alla realizzazione di opere usa e getta che potevano finanziare la sinistra. Sfortunatamente per lui, però, gli studenti dell’Essex, indottrinati dalla critica situazionista allo “spettacolo”, guardavano con sospetto a registi e drammaturghi, indipendentemente dalla loro fede politica. Ma nonostante i sospetti verso i media “borghesi” il tenace Godard riuscì comunque a fare diverse interviste.
La politica anarco-situazionista iconoclasta unita all’ambiente tetro e remoto del campus rese il Festival rivoluzionario caotico e pieno di tensioni. All’incontro delle donne, tenuto in una grande aula, l’atmosfera era elettrica. Branka Magaš, della “New Left Review”, iniziò a leggere un documento teorico, a testa china e con un tono di voce molto basso ma caratterizzato dal suo forte accento slavo. Non era certo un seminario accademico, quanto piuttosto una situazione inconsueta e difficile; l’emozione nella sala era forte. Quel giorno, ragione e analisi non riuscirono a rompere il ghiaccio, e Branka fece una fatica terribile per rivendicare il suo diritto a parlare indisturbata. Per l’ennesima volta noi donne venimmo accolte con scherno: uno studente fece irruzione nella sala ridendo, con una ragazza issata a cavalcioni sulla sua schiena; qualcuno gettò da una balconata un rotolo di carta igienica che cadde giù in lunghe strisce bianche, mentre le luci si accendevano e si spegnevano di continuo.
Durante la discussione un rappresentante del Partito comunista (che era considerato l’equivalente della destra) cercò di usare un approccio più pacato; quando una donna si lamentò perché doveva battere a macchina i volantini, si alzò in piedi per spiegare che una divisione del lavoro era necessaria perché non tutti capivano cosa dovesse essere scritto nei volantini. A quel punto noi donne del pubblico eravamo ormai esasperate, così lo coprimmo di fischi e insulti.
Eppure ci fu anche chi, tra gli uomini, rimase sconvolto dalla reazione dei suoi simili: in verità si trattò di un unico caso, uno studente tedesco in visita che si alzò e parlò con calma autorevolezza dall’angolo sinistro della sala, ammonendo i presenti che avrebbero commesso un grave errore se non avessero ascoltato e compreso ciò che le donne stavano dicendo. In Germania, quell’atteggiamento di scherno aveva già creato una profonda spaccatura. Nonostante l’atmosfera quasi isterica le sue parole furono convincenti, e per un attimo scese il silenzio.
Non avevamo intenzione di lasciare le cose come stavano e annunciammo un’altra riunione, a cui si presentarono due uomini: un sikh maoista e barbuto di Hemel Hempstead, che ci disse che dovevamo leggere Mao, Lenin e Stalin, e un altro tizio che contribuì a far precipitare la situazione quando dichiarò che sembrava di essere in una sala da tè per signore (come i ribelli di Potter) perché continuavamo a ridacchiare con voci squillanti. Non c’era nulla da fare: erano i maschi a spingerci verso la militanza.
Quando noi di Londra ci scambiammo gli indirizzi, scoprimmo che un gruppo formato da nordamericane s’incontrava già a Tufnell Park. Fissammo un appuntamento per rivederci perché sapevamo che stava accadendo qualcosa di importante, anche se non capivamo esattamente cosa. A questa nuova consapevolezza faceva da contrappeso la tensione che ci circondava; ci eravamo abituate a dare per scontata l’anomalia, e le richieste di “liberazione” arrivavano da ogni parte.
Il 14 febbraio, nel mezzo della rivolta alla Lse, “Black Dwarf” uscì con il titolo 2, 3, cento Lse. La “New Left Review” aveva sviluppato l’idea di una base rossa dalle teorie di Régis Debray sulle strategie di guerriglia. L’ideale “avanguardista” degli studenti si era ormai mescolato alla singolare convinzione che le università e i college sarebbero stati liberati e sarebbero divenuti la base per i guerriglieri intellettuali che combattevano l’ideologia. Alla riunione di redazione di “Black Dwarf”, mentre Fred Halliday difendeva le basi rosse, io le criticai insieme a Bob e Kim Howells, ben consapevoli dello sconforto seguito all’occupazione dell’Hornsey College.
Rimasi nell’Internazionale socialista per diciotto mesi, perché forniva un’alternativa al vicolo cieco rappresentato dalla semplice militanza studentesca all’interno delle istituzioni e perché simpatizzavo e rispettavo l’impegno di molti membri dell’Is. Mi avevano assegnato al “lavoro giovanile” dei socialisti internazionali di Hackney; avevo quasi ventisei anni e mi sentivo piuttosto anziana, così conclusi che dovevano considerarmi giovane nell’animo. Ma non mi lamentavo, perché il “lavoro giovanile” era un modo per evitare le mattinate a Shacklewell Lane con il principe africano. Organizzavo incontri su sesso e psicologia, o sui motivi per cui il terrorismo fosse l’unica tattica da applicare se eri nel mezzo della Rivoluzione russa: molto più interessante che preoccuparsi delle mozioni dei Giovani socialisti. David Widgery venne al pub Britannia (ora Samuel Pepys) di Mare Street per parlare al mio gruppo di musica rock. Mentre rientravamo insieme con l’autobus 38, decisi di lasciar perdere lo Scum Manifesto di Valerie Solanas: dopotutto non stavamo vivendo la Rivoluzione russa, e lui aveva solo ventidue anni e indossava una bellissima giacca di pelle marrone.
Un altro aspetto del mio lavoro riguardava il volantinaggio nelle scuole. Lo scopo finale era quello di reclutare i giovani proletari di Hackney, che poi avrebbero potuto sollevare le questioni di classe relative all’istruzione presso la Schools Action Union. I giovani organizzatori della Sau mi piacevano, tra loro c’erano alcune vivaci studentesse del biennio finale della Camden School for Girls che erano in contatto con i licei francesi ribelli del 1968.
Nel 1969, l’idea promossa dall’Internazionale socialista di un’alleanza tra lavoratori e studenti non era una chimera. I sindacalisti di sinistra si sentivano traditi dal Partito laburista e tra i lavoratori si era diffusa una nuova speranza: erano decisi non solo a resistere al tentativo di aumentare il carico di lavoro, ma a rivendicare una quota maggiore di profitti. Fu un momento davvero unico: i lavoratori erano passati all’offensiva. Sebbene il 1969 non abbia mai ricevuto la stessa attenzione dedicata al Sessantotto, fu l’anno in cui vennero gettate le basi per la militanza della classe operaia dei primi anni Settanta.
Il 24 febbraio i lavoratori della Ford scioperarono contro i tentativi della direzione di frenare l’opposizione nelle fabbriche e i rappresentanti sindacali dell’azienda invitarono gli studenti a partecipare alla manifestazione. La protesta era cresciuta dopo la pubblicazione a gennaio di In Place of Strife, il Libro B...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Ringraziamenti
  5. Introduzione
  6. 1960-1961
  7. 1961-1964
  8. 1964-1966
  9. 1967
  10. 1968
  11. 1969
  12. Consigli di lettura
  13. Inserto fotografico