L'ombra della sovranità
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L'ombra della sovranità

Da Hobbes a Canetti e ritorno

  1. 144 pagine
  2. Italian
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L'ombra della sovranità

Da Hobbes a Canetti e ritorno

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"Sovranità" è stato uno dei termini chiave del linguaggio politico a partire dalla prima età moderna e, spesso in accezioni e derivazioni improprie (come "sovranismo"), continua a esserlo anche oggi. Il suo senso, però, è sempre stato vago e fragile in virtù di una contraddizione esplosiva: alle sue origini c'è una crisi estrema, la fine della legittimazione dall'alto dell'autorità, il venir meno della teologia politica medievale. "Sovranità" è un ponte gettato sul vuoto del silenzio di Dio, è lo sforzo disperato di distinguere il potere dalla nuda forza mantenendolo ancorato a un principio, in un contesto antropologico in cui più nulla distingue il detentore dell'autorità da chi subisce l'autorità e la sola sostanza del potere è il consenso. Sforzo ancor più disperato oggi, probabilmente. Ma appunto per questo irrinunciabile se si vuole mantenere un (debole) argine etico alle derive violente.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2021
ISBN
9788812008810

IL BELLUM SENZA LEVIATANO

Nella comunità degli Stati manca un’istanza super partes che prevenga o regoli il conflitto, dunque il conflitto è la sola possibile soluzione di se stesso. Non esiste neppure lo spazio concettuale per la pace: essa stessa, se assunta in senso radicale come valore, è soltanto un prendere una posizione necessariamente conflittuale riguardo al conflitto, un voler fare «guerra contro la guerra»1. Per questo la natura del “politico” non viene mutata dall’affermarsi della concezione della guerra come disvalore, dalla crescente difficoltà di volerla apertamente e dall’assunzione come luogo comune che la sola politica giusta sia una politica di pace. Anche questo è un prendere posizione riguardo alla guerra che ne presuppone la permanente possibilità, anzi contribuisce a creare questa stessa possibilità. La decisione di opporsi strenuamente alla guerra è la più polemica di tutte le decisioni: facendo della guerra il nemico assoluto si classifica dentro la categoria del nemico chiunque non condivida il valore assoluto della pace e in tal modo lo si sospinge verso il più radicale disconoscimento, verso una condizione di costitutiva disumanità e perciò di uccidibilità illimitata. La “guerra contro la guerra” è la peggiore di tutte:
Se la volontà di impedire la guerra è tanto forte da non temere più neppure la guerra stessa, allora essa è diventata un motivo politico, essa cioè conferma la guerra, anche se solo come eventualità estrema, e quindi il senso della guerra. Attualmente questo sembra essere un modo particolarmente promettente di giustificazione della guerra. La guerra si svolge allora nella forma di “ultima guerra finale dell’umanità”. Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il ‘politico’, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini. Dalla possibilità di tali guerre appare in tutta chiarezza che la guerra come possibilità reale sussiste ancor oggi, il che è importante per la distinzione di amico e nemico e per la comprensione del ‘politico’2.
Anche lo sforzo di superare le categorie del “politico” rifiutando radicalmente la nozione di “nemico” conferma l’insuperabilità di tale orizzonte, che anzi viene solo estremizzato: non si vuole che esistano più nemici, dunque si vuole che chiunque potrebbe essere nemico non esista più. Per converso, ogni possibile guerra viene giustificata dal preventivo rifiuto di riconoscere legittimità politica alla controparte. Schmitt è qui tragicamente acuto nel comprendere che la più “umanitaria” e benintenzionata di tutte le guerre, la prima guerra mondiale, lungi dall’espellere la guerra dall’orizzonte del politico, aveva posto le basi per la definitiva disumanizzazione della guerra, consegnandola all’orizzonte tecnologico dello sterminio di massa. Ma non si tratta solo di riconoscere che qui Schmitt, partendo dall’esperienza della prima guerra mondiale, “profetizza” la seconda, peraltro senza che questa “profezia” riesca a erigere un qualche argine morale o giuridico contro quello che stava per accadere e di cui la presa di potere di Hitler avrebbe creato i presupposti solo pochi mesi dopo la pubblicazione del saggio. Si tratta anche di riconoscere che il nostro stesso orizzonte storico non è cambiato sotto questo profilo, che tuttora non siamo capaci di rifiutare la guerra senza portarne all’estremo la logica. La critica schmittiana alla Società delle Nazioni potrebbe essere riproposta nei confronti dell’ONU ed essere assunta come una valutazione in presa diretta degli eventi a noi contemporanei3:
La Società delle Nazioni di Ginevra non elimina la possibilità di guerre, così come non elimina gli Stati. Essa anzi introduce nuove possibilità di guerre, permette le guerre, stimola guerre di coalizione ed accantona una serie di ostacoli alla guerra nella misura in cui legittima e sanziona alcune guerre e non altre4.
L’orizzonte della politica estera resta definitivamente hobbesiano: nell’assenza e forse nell’impossibilità di un Leviatano sovrastatale, la comunità degli Stati non esce dallo status naturae della guerra virtualmente infinita. Solo che – assai poco hobbesianamente – questo status naturae viene definito come il “politico”, e come tale viene a coincidere anche con la sfera della sovranità interna degli Stati. Che è dunque una singolare sovranità, che non ordina, non pacifica, non unifica, bensì divide e mobilita, anche in questo caso, in vista di una possibile esplosione conflittuale. La dimensione propriamente politica della vita interna degli Stati è quella della virtuale permanente possibilità della rivoluzione5 e della guerra civile:
Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti “i” contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della “politica interna”, cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato. La possibilità reale della lotta che dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica, si riferisce allora conseguentemente, in presenza di un simile “primato della politica interna”, non più alla guerra fra unità nazionali organizzate (Stati o Imperi), bensì alla guerra civile6.
Appunto la dimensione della guerra civile è quella decisiva per comprendere che in Schmitt la sfera del “politico” è ben lungi dal coincidere con quella dello Stato. Al proprio interno, lo Stato è solo uno degli attori del conflitto politico, non necessariamente il principale. La natura politica di un raggruppamento umano coincide senza residui con la sua capacità di distinguere amici e nemici e di essere parte di un conflitto che ha costantemente la possibilità di trasformarsi in guerra civile. Quindi anche associazioni originariamente di altra natura diventano politiche non appena assumono questa capacità, che le colloca sullo stesso piano dello Stato e le “autorizza” a tentarne il rovesciamento o la conquista. È senza dubbio la forza, almeno virtualmente armata, a conferire qui l’unica possibile legittimità e non sussiste una superiore o anche solo diversa legittimazione dello Stato.
Una comunità religiosa che, come tale, porta guerra, sia contro gli appartenenti ad altre comunità religiose, sia in altro modo, è, oltre ad una comunità religiosa, una unità politica. Essa è un’entità politica anche se ha una possibilità di incidenza su quel processo decisivo solo in senso negativo, se cioè è nella condizione di impedire, con un divieto, la guerra ai suoi membri, cioè di negare in modo decisivo la qualità di nemico di un avversario. Lo stesso vale per un’associazione di uomini a fondamento economico, ad esempio per un trust industriale o un sindacato. Anche una “classe” in senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se giunge a questo punto decisivo, se cioè prende sul serio la lotta di classe e tratta l’avversario di classe come nemico reale e lo combatte, sia come Stato contro Stato, sia nella guerra civile all’interno di uno Stato7.
È dunque radicalmente impossibile una condizione permanente di pace, tanto all’esterno quanto all’interno dello Stato. Anzi, tale condizione è addirittura impensabile entro l’orizzonte del politico. Un popolo che decidesse di rendersi totalmente inerme e di non fare mai la guerra, contro nessuno e in nessun caso, non riuscirebbe certo a pacificare la politica internazionale: l’unico risultato sarebbe che «scompare semplicemente un popolo debole»8. Allo stesso modo, però, perderebbe la propria natura politica, mettendo in crisi la natura politica del proprio Stato e perciò la stessa sussistenza di questo, una forza politica interna che rifiutasse radicalmente tanto la guerra esterna quanto la guerra civile.
Se la forza politica di una classe o di un gruppo […] si estende all’interno di uno Stato, tanto da poter impedire ogni guerra all’esterno, senza però avere la capacità o la volontà di impadronirsi del potere statale, di porsi cioè come criterio di distinzione fra amici e nemici e di condurre la guerra in caso di necessità, in tal caso l’unità politica è distrutta9.
Ne risulta una situazione paradossale relativamente al mantenimento dell’ordine e dell’unità del corpo politico. La guerra esterna, almeno come concreta e imminente possibilità, rappresenta la condizione ideale per il rafforzamento e la durata dello Stato, in quanto crea una mobilitazione unitaria e coesa di tutte le forze sociali interne ad esso. La guerra esterna è il miglior antidoto alla guerra civile e alla rivoluzione. Per converso, le forze interne allo Stato acquistano natura politica soltanto in quanto mirino a orientarlo verso la guerra esterna o in quanto mirino alla conquista, all’occorrenza anche violenta, del potere interno. Neppure la politica interna esiste come politica se non in vista della guerra, col risultato alquanto singolare che la politica estera unifica lo Stato mentre la politica interna lo divide, la politica estera lo rafforza e la politica interna lo indebolisce, quindi la politica interna mette lo Stato nelle condizioni peggiori possibili per svolgere un’attività efficace di politica estera. La politica estera è status naturae, in maniera perfettamente hobbesiana; ma, in maniera assolutamente non hobbesiana, neppure nella politica interna troviamo propriamente lo status civitatis. Il cittadino è tale solo in quanto potenzialmente combattente ed è indifferente se lo sia per lo Stato o contro lo Stato, perché lo Stato è nella guerra civile e non al di sopra di essa, anzi si potrebbe concludere che una politica interna pienamente pacificata non sarebbe per nulla una politica e che quindi uno Stato pienamente coeso e concorde non sarebbe neppure uno Stato perché sarebbe composto unicamente da elementi non politici (a meno che questa coesione interna non trovi espressione nella guerra esterna). Il Leviatano è assente, il bellum omnium contra omnes non è la condizione da cui la politica fa uscire, ma è la politica stessa. È assai rivelatore in quest’ottica che il più diretto ed enfatico riferimento a Hobbes presente nel saggio lo esalti non come teorico della sovranità in quanto fondamento dello status civitatis, ma precisamente come teorico del bellum omnium contra omnes:
In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione “pessimistica” dell’uomo, la sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche solo come filosofia di una società borghese fondata sulla libera “concorrenza” (Tönnies), ma come i presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico10.
Dove è da considerare che viene denotato come «specificamente politico» precisamente quello che in Hobbes è l’impolitico, l’insostenibile dimensione prestatuale dello status naturae da cui tanto la ragione quanto la legge divina impongono di uscire. Come pure è da considerare che per Hobbes nello status naturae non ci sono “due parti antagoniste” (che sarebbero ciascuna al proprio interno ordinate e dirette da una guida politica, tanto da potersi fare la guerra, e non sarebbero quindi nello status naturae al proprio interno ma solo all’esterno, esattamente come gli Stati, e quindi sarebbero degli Stati), ma non esiste nessuna possibilità di raggruppamento stabile e istituzionale e perciò nessuna possibile dimensione di ordine condiviso. Il bellum è tutto, in Hobbes, tranne che guerra in senso politico: non ci sono amico e nemico, ma soltanto nemici reciproci. Davvero singolare è dunque che Schmitt passi per essere – anche per lui stesso – il più importante pensatore hobbesiano della contemporaneità, quando è piuttosto un pensatore radicalmente anti-hobbesiano11.
In questa dirompente confusione concettuale ha un ruolo decisivo, evidentemente, proprio la celebre concezione schmittiana della sovranità come decisione sullo stato d’eccezione, e quindi come concetto limite, nel senso che riguarda l’estremo12. Ques...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Premessa
  5. Dal Monte del Diavolo
  6. Natura senza legge e legge di natura
  7. Il duplice vicario
  8. Lo Stato-Chiesa e la pace religiosa
  9. Il sovrano come presenza assente
  10. Il patto e la sovranità rappresentata
  11. Il patto e la cittadinanza sovrana
  12. Dalla sovranità al potere
  13. Freund und Feind
  14. Il bellum senza Leviatano
  15. Dinanzi alle mura e in cantina
  16. La massa doppia della guerra
  17. La guerra senza morti
  18. Il figlio della regina
  19. In che senso il sovrano è da Dio
  20. Miglior governo o governo dei migliori?
  21. Il miglior governo dei peggiori
  22. Perché i peggiori sono meglio dei migliori, e la cosa non è assurda
  23. I valori non fattuali e i fatti senza valore
  24. Lo spazio teologico della sovranità