La bella lingua
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La bella lingua

La mia storia d'amore con l'italiano

  1. 328 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La bella lingua

La mia storia d'amore con l'italiano

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«Quando arrivai in Italia per la prima volta, nel 1983, sapevo dire una sola frase: "Non parlo italiano".» Inizia così, quasi come un cliché, la storia d'amore di Dianne Hales con il nostro paese. Da allora la giornalista americana ne ha studiato la lingua in ogni modo possibile, ma soprattutto ha vissuto luoghi, conosciuto persone ed esplorato arte, musica, letteratura, cinema, dialetti e stili di vita. Nato per offrire scorci inediti ai viaggiatori curiosi, La bella lingua regala un punto vista non scontato e mai banale anche a chi in Italia è nato e cresciuto.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2020
ISBN
9788812007776

1

CONFESSIONI DI UN’INNAMORATA

Quando arrivai in Italia per la prima volta, nel 1983, sapevo dire una sola frase: «Mi scusi, non parlo italiano». Nei primi minuti trascorsi nel paese l’avrò ripetuta una mezza dozzina di volte, con una nota di panico crescente nella voce, intervallata da supplichevoli «Stop this train!» (Ferma il treno!). Gli altri passeggeri reagirono con sguardi preoccupati e fiumi di parole in italiano incomprensibile. Solo un controllore dall’aria stanca seguì il mio sguardo mentre indicavo la valigia nera abbandonata a terra, che il facchino aveva dimenticato sul marciapiede della stazione di Domodossola.
«La sua valigia?»
«» annuii, terrorizzata all’idea che non l’avrei mai più ritrovata.
«Non c’è problema» annunciò con voce stentorea. «Domani mattina a Milano.»
Le facce che mi circondavano sorrisero per il sollievo. «Domani mattina» ripetevano rassicuranti. «Domani mattina
Mentre prendevo posto, mi rigiravo in bocca quelle sillabe melodiose. Sì, appena arrivata a Milano avrei cercato il signor Domani Mattina, e lui in qualche modo avrebbe recuperato il mio bagaglio. Nella colossale desolazione della Stazione Centrale, mi avviai giù per l’imponente scalinata di pietra. Era domenica pomeriggio, ed era tutto chiuso. Mi rivolsi, affannata, a un ferroviere in divisa blu e lo pregai: «Signor Domani Mattina?»
«No, signorina» mi disse perplesso. Tirai fuori di tasca il mio dizionario tascabile inglese-italiano, per trovare come si diceva “where”, e lo pronunciai come il nome inglese di una tenera colomba bianca: «Dove?»
«Doh-VAY!» tuonò prima di scoppiare a ridere. «No, signorina, il giorno dopo oggi. Domani mattina.»
La ricerca del mio salvatore, “Mr Tomorrow Morning”, segnò l’inizio del mio viaggio nella lingua italiana. Per tutta quella prima, quasi muta, gita in Italia fui inebriata dalla bellezza di ciò che vedevo, ma avrei tanto voluto comprendere quello che sentivo. Avrei voluto capire la battuta del cameriere che mi aveva servito un cappuccino, la barzelletta raccontata da un commesso ammiccante, le effusioni verbali che si scambiavano le coppie al tramonto. E così, a differenza di quegli italofili che marciano a tappe forzate tra gli affreschi delle chiese o che restaurano casolari, io ho scelto di abitare la lingua, tanto sensuale quanto splendida, un minestrone linguistico saporito come la piccante salsa alla puttanesca che prende il nome dalle famigerate belle di notte italiane.
Nell’ultimo quarto di secolo ho dedicato innumerevoli ore e infiniti sforzi – che, se applicati a obiettivi più concreti, sarebbero bastati a mettere insieme il necessario per la caparra di una villa in Umbria – alla più ingannevole delle lingue occidentali. Ho studiato l’italiano in tutti i modi che sono riuscita a escogitare – dalla Berlitz ai libri, con i cd e i podcast, grazie alle lezioni private e ai gruppi di conversazione, e anche al tempo trascorso in Italia, tempo che a molti potrebbe apparire del tutto spropositato.
Ho finito per pensare all’italiano come a un briccone – un adorabile mascalzone, una canaglia dallo sguardo assassino a cui non sai resistere neanche quando capisci che ti sta prendendo in giro. Croce e delizia, tormento ed estasi, il canto d’amore della Violetta di Verdi; e lo stesso potrebbe valere per la lingua che le sue opere trasportano sull’ali dorate. La lingua dell’Italia è diventata per me – come non avrei mai creduto possibile – non soltanto una passione e un piacere, ma un passaporto per accedere alla sua storia, termine che traduce entrambi i vocaboli inglesi “history” e “story”.
Come nazione, l’Italia non ha senso. Provate a pensarci: un’irta penisola che dalle Alpi innevate si prolunga fino alle isole cotte dal sole, cosparsa di borghi con le case di pietra legati ad antiche tradizioni, un mosaico di dialetti, cucine e culture uniti a formare un solo Stato appena un secolo e mezzo fa. Metternich ebbe a liquidarla come «un’espressione geografica». Troppo lunga per essere una nazione, dichiarò sprezzante Bonaparte. E Mussolini brontolava che governarla non era difficile, ma farlo era inutile. L’Italia autentica risiede in qualche luogo che va oltre il sangue e i confini, in quella che il presidente Carlo Azeglio Ciampi ha definito «la nostra prima patria»: la sua lingua.
E che lingua! L’italiano, scolpito da poeti e artigiani della parola, incarna il maggior talento dei suoi parlanti nativi: la capacità di trasformare qualsiasi cosa – dal marmo alla melodia, dal più umile spaghetto alla vita stessa – in un’arte gioiosa. L’inglese, come un pennarello nero dalla grossolana punta di feltro, si presenta attraverso affermazioni sfacciate e un fraseggio rude, mentre il finissimo, agile pennino dell’italiano disegna volteggi delicati e melodrammatici svolazzi. Le altre lingue parlano e poco più, mentre questa, così lirica, solletica l’orecchio, seduce la mente, cattura il cuore, rapisce l’anima e più di qualsiasi altro idioma si avvicina a esprimere l’essenza di ciò che significa essere umani.
L’italiano è nato secoli prima dell’Italia. Le sue radici risalgono a quasi tremila anni fa. Secondo la leggenda, nel 753 a.C. Romolo, figlio del dio Marte e di una vergine vestale, dopo aver ucciso il gemello Remo fondò un insediamento per il suo seguito di pastori e agricoltori sui colli che si affacciano sul Tevere. Dall’evoluzione del loro linguaggio derivò il volgare (dal latino sermo vulgaris, il discorrere della gente comune), ossia la lingua colloquiale. È dal latino della strada, non da quello della retorica classica e cadenzata di Cesare e di Cicerone, che derivano le lingue romanze: l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese e il rumeno.
Il primo miracolo dell’italiano è che sia sopravvissuto. Nessun governo ne ha mai imposto l’uso. Nessun potente impero lo ha promosso come lingua ufficiale. Nessun esercito conquistatore, nessuna “Armada” lo ha trasportato in terre lontane. Brutalmente divisa, invasa e conquistata, la penisola del Mediterraneo è stata per secoli un collage di dialetti, spesso tanto diversi l’uno dall’altro quanto il francese dallo spagnolo o l’inglese dall’italiano. I marinai di Genova non capivano i mercanti veneziani o i contadini del Friuli – e viceversa. I fiorentini che abitavano il centro, il cuore della città, non sapevano parlare il dialetto di San Frediano, il mio quartiere preferito, sull’altra sponda dell’Arno.
L’italiano come lo conosciamo oggi è stato creato, non è nato spontaneamente. Con lo stesso fulmineo colpo di genio che nel Rinascimento avrebbe trasformato l’arte, gli scrittori fiorentini del XIV secolo – primo fra tutti Dante – modellarono l’effervescente dialetto toscano in una lingua così ricca ed espressiva da poterci trasportare nell’alto dei cieli come nel fondo degli inferi. Questa inestimabile eredità vivente è di per sé un capolavoro artistico non meno delle poesie di Petrarca, delle sculture di Michelangelo, delle opere di Verdi, dei film di Fellini e degli abiti di Valentino.
Nei lunghi secoli di occupazioni straniere, spesso di feroce violenza, gli abitanti dell’Italia non avevano altro da poter rivendicare come proprio: soltanto le parole. «Quando un popolo ha perduto patria e libertà, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto» osservava Luigi Settembrini, napoletano, “professore di eloquenza” del XIX secolo, che consacrò la vita intera alla lingua che ha di fatto definito la civiltà occidentale. Sono stati gli “italiani” a dare agli americani il loro nome (“America” è un omaggio al navigatore fiorentino Amerigo Vespucci); a creare le prime università, le prime scuole di legge e di medicina, le banche e le biblioteche pubbliche; a insegnare all’Europa diplomazia e buone maniere; a spiegare ai francesi come si usa la forchetta; a disegnare la mappa della luna (nel XVII secolo); a scindere l’atomo; a produrre le prime cronache moderne, le prime satire, i sonetti e i resoconti di viaggio; a inventare la pila, il barometro, la radio e il termometro; a elargire al mondo intero il dono eterno della musica.
Eppure, in quanto lingua ufficiale di una nazione, l’italiano è praticamente nato ieri, è nuovissimo, spiega l’illustre linguista Giuseppe Patota, che mi ha concesso un’intervista nella sua casa di Roma. Combattendo per diventare uno Stato unito da una stessa lingua, gli italiani hanno conquistato l’indipendenza nel 1861, quasi un secolo dopo gli Stati Uniti, in un’epoca in cui quattro su cinque dei suoi cittadini erano analfabeti e a parlare esclusivamente o di preferenza l’italiano anziché il dialetto era appena il 10 per cento della popolazione. Soltanto nel 1996 – 135 anni dopo l’unificazione – gli italiani che dichiaravano di parlare, fuori di casa, l’italiano standard (la lingua nazionale) anziché il dialetto sono giunti a essere più della metà. Una parola alla volta, una generazione alla volta, un villaggio alla volta, gli abitanti della penisola hanno imparato a parlare italiano.
E in tutto il mondo sono sempre di più le persone che cercano di fare altrettanto. Certo, l’inglese è la lingua che tutti devono sapere, ma l’italiano è quella che moltissimi vogliono imparare. Con una popolazione di parlanti nativi compresa tra i 60 e i 63 milioni (rispetto al mostruoso totale di 1,8 miliardi di persone che affermano di conoscere almeno un po’ di inglese), l’italiano precede di poco l’urdu, la lingua ufficiale del Pakistan, al diciannovesimo posto per numero di parlanti. Eppure è la quarta tra quelle più studiate al mondo – subito dopo inglese, spagnolo e francese. Tra le lingue straniere insegnate nei college e nelle università degli Stati Uniti è quella in maggiore ascesa. Il «nuovo francese», come l’ha ribattezzato il “New York Times”, è così popolare che i genitori – e non solo quelli di origine italiana – iscrivono i bambini in età da asilo nido alle piccole scuole perché lo imparino.
È una tendenza che lascia stupefatte molte persone. Quando ho accennato ai miei studi italiani parlando con un uomo d’affari di San Francisco, lui mi ha chiesto se non ci fosse un linguaggio meno utile da imparare. Avrei potuto rispondergli “l’urdu”, ma in realtà lo capivo: mio marito può sbandierare il suo francese scolastico (o almeno quel poco che ne rimane) da Parigi alla Polinesia, e lo spagnolo spalanca le porte di un intero atlante di nazioni. Ma fuori dall’Italia e dalla Città del Vaticano, sono solo quattro i paesi che riconoscono l’italiano come lingua nazionale: Svizzera, Croazia, San Marino e Slovenia. Nessuna società scientifica, nessuna organizzazione commerciale internazionale, nessuna impresa globale, nemmeno se ha sede in Italia, richiede l’italiano come lingua franca. E di certo i turisti se la cavano con un sorriso e un ciao, più che sufficienti in un paese abituato da secoli a servire, sedurre e soddisfare gli stranieri.
Ma allora, come mai tanta gente vuole imparare l’italiano? «Sospetto sia perché l’Italia e la sua lingua sono percepite come splendide, divertenti e sexy» ha osservato Stephen Brockman, docente della Carnegie Mellon University, nel suo articolo A Defense of European Languages, aggiungendo: «E perché no? Non ci vedo niente di male». Il quotidiano “la Repubblica”, commentando la notizia del boom di corsi italiani nelle università degli Stati Uniti, citava la popolarità in continua ascesa di tutto ciò che è italiano – cibo, moda, arte, architettura, musica e cultura – osservando che per gli americani l’italiano è «come una lingua polisensoriale capace di aprire le porte al “bello”».1
Rivolgo la mia domanda sull’eterno fascino dell’italiano al suo paladino più antico e prestigioso: la Società Dante Alighieri, fondata nel 1889, che conta circa quattrocento comitati in tutto il mondo, dall’Australia all’Argentina, fino al Nepal e alla Croazia. La sua rappresentanza romana a Palazzo Firenze, un tempo sontuosa residenza dell’ambasciatore fiorentino, è un vero santuario della lingua, con stanze dai soffitti altissimi tutte rivestite di scaffali pieni di volumi rilegati in pelle e ornate dai busti di Dante e di altri giganti della letteratura.
In questi imponenti saloni incontro Luca Serianni, insigne professore di storia della lingua italiana alla Sapienza Università di Roma e uno dei consiglieri della Società. A suo parere, gli stranieri che in tutto il mondo affollano le aule dove si insegna italiano sono in cerca di qualcosa che va oltre il vocabolario e la grammatica. «Non si può separare la nostra lingua dalla nostra cultura» spiega. «Studiando l’italiano si entra nella nostra storia, nell’arte, nella musica, nelle nostre tradizioni.» Si entra, di fatto, nell’anima italiana.
Acclamata come la più musicale delle lingue, l’italiano è anche quella che meglio sa esprimere le emozioni. I suoi suoni originari – praticamente identici a quelli che un tempo riecheggiavano negli anfiteatri e nei fori dell’antica Roma – fanno vibrare qualche corda segreta del nostro Dna linguistico universale.
Pronto! dicono gli italiani rispondendo al telefono. E davvero, sono sempre pronti: a chiacchierare, a ridere, imprecare, discutere, corteggiare, cantare, lamentarsi. La loro lingua nativa comunica il senso di qualcosa che prende vita. I suoi verbi si flettono come muscoli – vocabolo di derivazione latina, dal significato originale di “topolino” – che guizzano sottopelle. In Italia l’onnipresente carattere “@” degli indirizzi e-mail si arriccia in modo subdolo per trasformarsi in una chiocciola, proprio come una scala spiraliforme diventa una scala a chiocciola. Nel dialetto di Roma, quando si vuole dare del taccagno a qualcuno si dice che ha le tasche a chiocciola.
Persino gli oggetti più comuni, come un asciugamano (towel) o un fazzoletto (handkerchief) in italiano hanno un suono più bello. La causa va cercata innanzitutto nelle sue vigorose vocali, che assomigliano a prima vista alle loro controparti inglesi, le “vowels”, ma hanno tutto un altro suono. Alla mia prima vera e propria lezione di italiano, l’insegnante ci fece guardare allo specchio mentre pronunciavamo “a-e-i-o-u” alla maniera piatta dell’inglese e poi nel più enfatico stile italiano, con le vocali che ci gonfiavano le guance, spingevano contro le labbra, allentavano la mascella.
La “a” italiana scivola fuori dalla gola in un estatico “aaaah”. La sua “e” (pronunciata come una “a” dura per noi inglesi) è un saluto cordiale, come il caloroso “ay” che conclude il nostro “hip-hip-hooray”. La “i” (che ha un suono simile alla “e” dell’inglese) volteggia con l’allegria della doppia “e” di “bee”. La “o” (immaginate la “o” inglese, ma molto più muscolosa) è perfettamente rotonda, come il cerchio rosso dipinto da Giotto con un solo tratto e consegnato al papa che gli chiedeva un saggio del suo lavoro. La “u” da macho (molto più profonda, robusta e lunga della sua controparte inglese) vibra nell’aria come un calcio di rigore messo a segno dalla sua nazionale più volte campione del mondo, gli Azzurri.
In italiano tutti i suoni, di qualunque genere, assumono un accento speciale. Invece di uno sciatto “ah-choo” l’italiano starnutisce con un raffinato e delicato eccì. Distingue tra il suono con cui si deglutisce l’acqua (glu glu glu) o si mastica il cibo (gnam gnam gnam). Le campane quando suonano fanno din don dan. I treni, ciuff-ciuff. I motori, vrum-vrum. Gli orologi, tic-tac. Le armi da fuoco sparano pim pum pam. Al telefono, il segnale di occupato balbetta tuu tuu tuu. Nel corso degli anni mi è capitato di essere svegliata da uccellini che fanno cip cip, cani che abbaiano, galli che si scatenano in un chicchirichì e grilli che friniscono con un cri-cri-cri. Bambola, la gatta randagia e smilza che abita nella villa che affittiamo ogni estate, e che è diventata la mia micina, al mattino mi si raggomitola in grembo e fa le fusa.
Ogni colore diventa molto più di una semplice tinta. Un gi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Ringraziamenti
  5. Introduzione Come ho sviluppato un cervello italiano
  6. CAPITOLO 1 Confessioni di un’innamorata
  7. CAPITOLO 2 L’improbabile ascesa di una lingua volgare
  8. CAPITOLO 3 All’inferno e ritorno con Dante Alighieri
  9. CAPITOLO 4 I giganti della letteratura
  10. CAPITOLO 5 Infornare un capolavoro
  11. CAPITOLO 6 Come l’italiano civilizzò l’Occidente
  12. CAPITOLO 7 La storia dell’arte
  13. CAPITOLO 8 Sull’ali dorate
  14. CAPITOLO 9 Mangiare l’italiano
  15. CAPITOLO 10 Mille modi di dire “Ti amo”
  16. CAPITOLO 11 Io e Marcello
  17. CAPITOLO 12 L’italiano irriverente
  18. CAPITOLO 13 Madre lingua
  19. Bibliografia