Sulla fede
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Sulla fede

  1. 144 pagine
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La fede non è semplicemente una convinzione, ma è un sentimento di altra natura con una sua esplicita specificità, come ricorda Claudio Magris nella prefazione al saggio di Giorgio Pressburger. La fede afferra e fa afferrare, attrae e trasforma. Pressburger indaga il concetto di fede partendo da una personale autobiografia letteraria. I compagni di viaggio sono autori come Dostoevskij e Kafka, ma anche filosofi come Kant e scienziati come Einstein. Un percorso che va oltre la ricostruzione storica e religiosa ma affronta la dinamica e il movimento che permettono agli uomini e alle loro opere di attraversare la grazia della fede. Da dove viene quell'enorme energia psichica e fisica? si chiede Pressburger. Quale immagine ha Dio? E come la scienza e la natura si rapportano nella fede? Un libro denso ma al tempo stesso suggestivo che lavora attorno all'irriducibilità di un concetto cardine. Un confronto obbligato fatto di ingegno e dolore, scienza e credenza, salute e malattia.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2020
ISBN
9788812008094
Categoria
Theology

LA FEDE DI KAFKA

Ho scelto Kafka per il mio errare, pur essendo più simile a Dostoevskij.
A sei anni stavo per essere avvelenato da un soldato tedesco con una zolletta di zucchero all’arsenico; per strada ricevetti lo sputo di centinaia di passanti; mia madre tentò tre volte di uccidersi sotto i miei occhi, ora con un coltello, ora sporgendosi dalla ringhiera, ora prendendo dosi micidiali di sonniferi. Anni dopo, una notte, catturato sul confine del paese dal quale volevo fuggire, fui messo al muro e stavo per esser fucilato. Per anni e anni ho patito la fame mangiando frutta e verdura marcia raccattata all’ora di chiusura dei mercati. Ho vissuto con una prostituta.
Ma sono un piccolo-borghese dell’Europa centrale, come Kafka e il suo Joseph K., come Humbert Humbert, Zeno Cosini, Leopold Bloom, e in questo libro vorrei ricostruire la genesi della fede utilizzando me stesso come parte del campionario appena nominato.
Voglio ricostruire in me, come in un modello qualunque dell’umanità appena descritta, la genesi della fede.
Non so se ho fede. Oggi penso che il presupposto della fede sia il dubbio e il tormento. Nessuna persona di media cultura e intelligenza può negare questo, può pensare che sia tutto letizia e allegria.
Per meglio comprenderci mi sforzerò di descrivere ciò che è la mia fede oggi.
Quando si affronta una prova importante per la professione, quando un pericolo deve essere schivato, quando si vuole riuscire a ogni costo in un’impresa, una persona della nostra stessa epoca (borghese europeo o americano, australiano, canadese, egiziano, pakistano ecc.) si rivolge a un interlocutore infinitamente potente chiedendogli tutto ciò che vuole ottenere. Lo fa mormorando dentro di sé parole e preghiere, dando del tu a questo essere invisibile, chiamandolo, scongiurandolo in un crescendo di tensione nervosa in cui ognuno reitera per minuti e ore la propria richiesta. In questo stato a volte si fanno anche delle promesse a cui si resterà fedeli per tutta la vita, com’è capitato a Martin Lutero. Se un certo desiderio si avvera, si rinuncia per sempre a fumare sigarette, a un arto, a ore e mesi della propria vita, non si mangeranno più certi cibi, non si berranno più alcolici, si prenderanno i voti. Ma a chi ci rivolgiamo in questi dialoghi interiori?
***
Ripenso a come è nato nella mia coscienza, per la prima volta, il concetto di Dio. È stato inculcato in me da mio padre e da mia madre, oppure preesisteva.
Come i paleontologi, dobbiamo con il martello della disperazione rompere gli strati calcificati di vita pratica vissuta all’insegna della bugia, della negligenza, della vana imitazione, e arrivare agli antichi reperti, alle antiche figure chiuse nella pietra che è la nostra mente.
Sono quasi sicuro, per quanto vi sembri paradossale, che la fede non abbia origine nell’uomo, ma nell’animale, negli esseri viventi che noi riteniamo inferiori. Sono quasi sicuro che la fede non cominci con ciò che noi chiamiamo “amore”. L’amore è un sentimento difficilissimo da definire e apprendere e inizia molto tardi, in età adulta. La fede, invece, inizia molto prima: con la paura, anzi con l’essere terrorizzati.
In letteratura conosco due esempi che parlano di questa animalità nella coscienza più alta dell’uomo. Uno dei due è proprio un racconto di Franz Kakfa. Si intitola: Una relazione accademica. In esso una scimmia rende conto ai dotti membri di un’Accademia delle Scienze come, catturata nella foresta vergine, è stata costretta a diventare uomo. Cioè un essere privo di libertà, di volontà, che deve attrezzarsi a ricevere le più assurde torture (come gli acrobati appesi a una fune che tengono tra i denti, oppure legati ai propri capelli) per acquisire una professione, o per mettere a frutto degli insegnamenti ricevuti. «È libertà questa?» domanda la scimmia che non potrà mai più tornare alla libertà animale. La fune a cui è appesa, i propri capelli attorcigliati dai quali pende, potrebbe essere, sì, proprio la fede.
Un altro esempio è il racconto lungo dello scrittore italiano Tommaso Landolfi, Le due zitelle. La protagonista è ancora una scimmia che due vecchiette ereditano dal padre esploratore. La bestiola nella sua incoscienza animale si introduce nella vicina parrocchia, indossa, come dalla finestra ha spesso visto fare al parroco, la tonaca, la stola, beve il vino, si ubriaca e orina sull’altare. Peccato imperdonabile. La scimmia, pur essendo un animale, privo di coscienza, e dunque innocente, viene condannata a morte dal parroco offeso. E sarà proprio una delle due zitelle a trafiggerla con una spilla. La fede.
La paura è uno dei motori della vita. Senza la paura sarebbe impossibile valutare il pericolo, affrontarlo o evitarlo.
Qualche giorno fa entrai per la prima volta nella casa dove ora sono diretto, in via Cavour, a Roma. È di proprietà di un mio amico che non ci abita ma che vi ospita, qualche volta, amici o conoscenti. La casa si trova al secondo piano di un fabbricato alto e stretto, costruito all’inizio del secolo appena concluso. All’interno dell’edificio le scale sono state tagliate, una decina d’anni fa, per far posto a un minuscolo ascensore sufficiente a trasportare una persona e un bagaglio. L’appartamento è di due stanze. Quando il mio amico, dopo avermi illustrato i vari locali e mobili, mi lasciò solo, decisi di fare prima di tutto una doccia. Entrai nella stanza da bagno di un metro e mezzo quadrato e presi a spogliarmi. Nel fondo smaltato del vano della doccia scorsi un piccolo insetto marrone dalle forme non del tutto familiari. Sentendo i rumori dei miei passi, l’insetto cominciò a correre su e giù, all’impazzata, evidentemente in preda al terrore.
Che terrore può provare un insetto?
La paura è iscritta nel patrimonio genetico di ogni essere vivente siano essi animali o piante. Quel «perché mi scerpi?» con cui Dante nel Canto XIII dell’Inferno fa esclamare un ramoscello, è la reazione possibile, simbolizzata, di una pianta i cui rami vengono spezzati. Siamo stati progettati, fin dagli esseri più elementari, con la paura impressa dentro di noi.
Quell’insetto, quel pomeriggio, nel bagno, che si era messo a correre su e giù, come mi percepiva? Come mi immaginava? Cosa sapeva di me? Provo a sostituirmi a uno di quegli insetti e cerco di vedere me stesso, o una figura simile alla mia, attraverso i suoi occhi prismatici.
Probabilmente, per quell’insetto ero qualcosa di immane, forse infinito; ogni mio movimento causava una vibrazione nell’aria simile alla forza del tuono, e il pericoloso avvicinarsi della mia ombra era inspiegabile, inconoscibile, tremendo. Lo spostamento del mio corpo creava correnti paurose nell’aria, c’era nella mia presenza qualcosa di ineluttabile, il mio corpo emanava per lui un odore nuovo, sconosciuto, quindi nemico. Dove scappare? Dappertutto si vedeva solo una distesa, bianca, liscia. Non lontanissimo, ma a una distanza notevole, c’era un buco, una voragine, in cui forse ci si poteva nascondere. Una puzza familiare veniva da quel buco, un olezzo attraente, anzi un profumo di cloaca. Fuggire là! Scendere nell’oscurità, fuggire dalla luce accecante nel buio salvifico. Ci mise molto tempo per arrivarci, poi sull’orlo di quell’ignoto vuoto l’insetto si fermò. Calarsi lì? Aspettare? L’insetto rimase fermo, come paralizzato, attendendo il suo destino, credendo che fingersi immobile, morto, avrebbe ingannato il suo incommensurabile, imperscrutabile persecutore.
La paura è in tutti gli esseri. Persino un animale unicellulare, come un paramecio, ha paura. Di che cosa? Di qualunque cosa lo tocchi, lo sfiori (la membrana cellulare è molto sensibile), sia più freddo o più caldo, più acido o più basico – come per esempio il sapone – dell’ambiente a cui è abituato. Ha paura di tutto ciò che non è lui, di qualunque cosa si muova intorno a lui, anche della propria ombra.
In Essere e tempo Heidegger distingue tra paura e angoscia, tra paura e cura. Secondo lui la paura è degli esseri inferiori, come gli animali; particolarità dell’uomo è die Sorge, la preoccupazione, la cura, la pena – non c’è una traduzione esatta in italiano di questa parola tedesca –, qualcosa di superiore alla pura reazione istintiva al pericolo. Questa cura sarebbe la nobile caratteristica dell’uomo di fronte alle minacce dell’esistenza, qualcosa di elevato e anche di altruista, giacché ci si può preoccupare anche per gli altri.
E gli animali non sentono forse questa cura, le madri non si battono forse, a volte sacrificando la propria vita, per la sopravvivenza dei cuccioli? La cura heideggeriana non è altro che la costruzione elevata dalla mente umana sopra l’abisso della vera unica misteriosa paura animale di fronte a tutto l’ignoto: cioè di fronte a tutto.
E tanto per citare un altro esempio, dice bene un filosofo inglese: «Se lo scibile è la superficie di una sfera, l’ignoto è il volume di questa sfera. La crescita della prima corrisponde a una crescita cubica della seconda». Più sappiamo e molto di più ignoriamo. L’ignoto circonda ogni essere vivente.
Da bambino, nell’unica stanza della casa in cui abitavamo in cinque, vedevo un’unica porta, oltre a quella che dava sulla cucina. Era la porta del ripostiglio, da noi chiamato speis, perché dentro, nell’oscurità e nel freddo, si conservavano i cibi (in yiddish speis vuol dire “cibo”). Allora nelle case povere non esisteva il frigorifero, se non quello che tutti i giorni si doveva riempire di ghiaccio. Noi non avevamo la ghiacciaia, ma soltanto lo speis. Questa cameretta dal pavimento di graniglia aveva una piccola finestra che dava sul cavedio, cioè sull’oscuro esofago degli edifici. Questi cavedi in tedesco si chiamavano Lichthöfe cioè cortili della luce, giacché da essi i ripostigli prendevano luce. Anche nel dialetto triestino, fino a pochi decenni fa, i cavedi si chiamavano licof. Mia madre sovente lasciava aperta la porta del ripostiglio per prendere qualche patata, dei vasetti di marmellata, un pezzo di pancetta, del burro. Io guardavo terrorizzato la finestrella dello speis. Vedevo salire dal fondo o scendere dall’alto del cavedio, che immaginavo infinito, degli spiriti spaventosi, ne sentivo la voce, i miagolii. Anche facce di famigliari morti. Non osavo stare seduto vicino allo speis e quando rimanevo solo in casa, vi mettevo davanti una sedia, perché da dentro nessuno spirito potesse aprire la porta del ripostiglio. Racconto tutto ciò perché queste mie paure sono molto anteriori ai primi insegnamenti su Dio, sull’aldilà e così via: risalgono ai miei primissimi anni di vita. Quelle immagini terrificanti venivano non dal cavedio, ma dal fondo oscuro del mio patrimonio genetico, dalla paura di ogni essere vivente.
Questa paura genetica chi l’ha piantata in noi? Chi ha progettato la vita sulla Terra? Se è nata dal caso, se nessun disegno l’ha creata, l’essere unicellulare come ha scoperto la paura? Attraverso deduzioni statistiche, vedendo morire, o comunque soccombere tanti suoi simili? Attraverso il dolore? Chi gli ha dato questa sensibilità? Il caso? L’evoluzione? O, come sembra probabile, la materia vivente nasce con la capacità di reazione a stimoli esterni, cioè con la paura. Le quattro sostanze che compongono gli aminoacidi, fondamento di tutte le sostanze viventi – l’adenina, la timina, la citosina e la guanina – portano in sé la paura, vale a dire la possibilità di avvertire il pericolo e di salvarsi.
Per qualche attimo soffermiamoci ancora su questa possibilità della materia vivente che si chiama paura. Per qualche riga soltanto, perché tutti siamo consci di aver paura della paura stessa. Di fronte alle grandi angosce del mondo di oggi tutti vorrebbero leggere soltanto storie consolanti, tenere, o tanto esageratamente orrende da non essere vere, come quelle del genere horror. Invece l’orrore è reale, invincibile, è nella nostra vita, è nel nascere e nel dover morire, nell’avere una coscienza: è nella violenza che usiamo in modo sempre più sfrenato. È nell’ignoranza di tutto ciò che ci ha creati, caso o disegno superiore. È una paura indicibile, di cui non sappiamo dare conto, che tentiamo di lenire con droghe, con riti collettivi, ebbrezza di stare immersi, perduti nella folla, nella massa. Elias Canetti, l’ebreo spagnolo-bulgaro-inglese-tedesco-austriaco-svizzero ha visto bene, a questo riguardo. Ognuno di noi, più alta è la montagna di cadaveri che ci circonda, più si sente vivo e salvo, almeno per il momento.
Per quanto mi sforzi, oltre all’oscuro terrore causato dallo stare al mondo in mezzo a un ambiente pieno di pericoli, non riesco a trovare in me altra immagine di Dio. Mi viene ancora in mente Kafka, il suo gigantesco scarafaggio, con cui nel racconto La metamorfosi ha cercato di mostrare i possibili terrori, le possibili speranze di un uomo-insetto.
Ma anche a questo proposito mi viene in mente una fase della mia infanzia. Dormivo in un lettino bianco, a gabbia, nell’unica stanza in cui vivevamo i miei genitori, i miei due fratelli e io. Il mio lettino era addossato al muro. Ogni tanto, durante la notte, qualche oscura sensazione di paura mi svegliava. Cominciavo a gridare e mio padre accendeva una piccola lampada. Sentivo un rumore appena percettibile. Volgevo il viso verso il muro, e vedevo sfilare, come un esercito silenzioso, una nera schiera di scarafaggi. Le case della piccola borghesia di Budapest hanno, o avevano, come caratteristica l’invasione stagionale di scarafaggi. Alla loro vista mi mettevo a urlare. Quegli esseri piccoli, lucenti, neri, mi facevano orrore, mi facevano paura. Ne sentivo anche l’odore disgustoso, tanto più che spesso erano accompagnati da cimici, anch’esse scure, lucenti. Chi erano? Da dove venivano? Cosa volevano da me? Se non mi fossi svegliato, nel sonno avrebbero potuto entrarmi nella bocca, nel naso, riempirmi di sé! Ero terrorizzato. Mio padre di solito si alzava e cominciava a menare colpi di pantofola a quegli schifosi insetti. Ma una volta uccisi, spiaccicati, facevano ancora più paura, così penzolanti dal muro appesi alle loro budella. Ho passato i miei primi sette anni di vita con quel terrore. Lo scarafaggio era per me l’immagine dell’ignoto, del pericoloso, dell’insondabile qualcosa o qualcuno. Era questa forse la prima idea di Dio, in me? Rivedendo quell’immagine due decenni dopo, in un celebre film di Ingmar Bergman (Come in uno specchio) in cui la protagonista, affe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. CREDERE O ESSERE NELLA FEDE? di Claudio Magris
  5. Sulla fede
  6. PROLOGO
  7. INCONTRO CON DOSTOEVSKIJ
  8. LA FEDE DI KAFKA
  9. PICCOLO INTERMEZZO
  10. LE RELIGIONI DEL MONDO
  11. CHE COS’È LA RELIGIONE?
  12. IL SONNO, L’EPILESSIA, L’ANESTESIA. SPARIRE NEL NULLA
  13. FEDE E MALATTIA, DEPRESSIONE ED EUFORIA
  14. FEDE E SCIENZA
  15. FEDE E SOCIETÀ
  16. FEDE PRIVATA? FEDE COLLETTIVA?
  17. COME IMMAGINO DIO?
  18. LA NATURA
  19. I LUOGHI SACRI
  20. FEDE E CREDENZE
  21. L’ASCENSIONE
  22. FEDE E SOLIDARIETÀ
  23. EPILOGO