Europa
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I luoghi della memoria

  1. 300 pagine
  2. Italian
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I luoghi della memoria

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Da Europa, opera edita da Treccani rivolta in particolare ai lettori giovani, per consentire una migliore comprensione delle potenzialità del progetto europeo attraverso più piani interpretativi, questo libro offre un estratto di saggi raggruppati sotto il tema dei luoghi e della memoria. Introdotto e curato da Mariuccia Salvati, I luoghi della memoria si interroga su quali basi culturali e sociali poggino le istituzioni dell'Unione Europea, tracciando una geografia che non è solo luogo ma rappresentazione e ricordo. I singoli saggi dedicati al Mar Mediterraneo, al Danubio, al Reno, a Westminster, a Weimar e ad Auschwitz ci rammentano che l'Europa «non è mai stata il risultato di un preordinato percorso storico, bensì sempre una scelta: la scelta di interrompere un percorso conflittuale apparentemente iscritto nelle cose per dare, con la forza delle idee, nuova vita all'Utopia europea».

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2020
ISBN
9788812008247
Argomento
Storia

WEIMAR

di
Mariuccia Salvati

PROLOGO

Weimar è una delle più belle cittadine della Germania, meta di visitatori da tutto il mondo e celebre soprattutto perché lì ha vissuto Johann Wolfgang von Goethe lungo il 18° sec., durante il quale la cultura dei lumi si afferma come un linguaggio eminentemente europeo. Da questo punto di vista, Weimar è considerata un luogo simbolo dei grandi autori (poeti, letterati, filosofi, scienziati) che, a partire dal Settecento, coltivano l’idea di un’Europa unita in nome di un comune progetto di civiltà (già Madame de Staël la citava come Atene della Germania). Goethe è il genio maggiormente consapevole del passaggio che, tra il 17° e il 18° sec., aveva investito non solo le arti, ma anche la filosofia e lo spirito delle leggi (basterà citare i nomi di Voltaire, Immanuel Kant, Montesquieu, Cesare Beccaria ecc.).
Il passo avanti che compiamo in questa riflessione sul cammino europeo grazie a Goethe è quello messo in scena dai suoi personaggi più famosi: l’incontro-scontro tra due diverse idee di uomo e di società che a partire dal 18° sec. tendono a identificare con una di esse l’Europa. Da un lato, Faust pronto a sfidare non solo la legge degli uomini, ma anche quella di Dio; dall’altro, il moderno quartetto delle Die Wahlverwandtschaften (Le affinità elettive) dove, prendendo le distanze dalla settecentesca utopia libertina simboleggiata dal don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, Goethe rappresenta un nuovo, moderno conflitto: quello tra affinità elettiva e matrimonio, tra essere e dover essere, tra individualismo e costrizione al patto etico e sociale sancito dal diritto.
Anche se – secondo la lettura novecentesca di Walter Benjamin in Angelus Novus – la figura di Ottilia già preannuncia tutta la drammaticità del conflitto interiore che la modernità porta con sé, nella struttura del romanzo il matrimonio si configura come il limite esterno rispetto alla linea di fuga pur contemplata dalla partitura dell’opera. Un confine stabilito dalla legge che gli uomini civili europei si sono autoimposti, riconosciuto dalla società, anche quando è tradito dall’individuo. È un limite funzionale alla costruzione della società, sempre più borghese, che ovunque, in Europa, con tratti diversi, affronta passaggi analoghi. Si pensi, nel caso inglese, al romanzo coevo, e in un certo senso parallelo, di Jane Austen, Sense and sensibility (Ragione e sentimento), che manifesta, tuttavia, il tratto specifico della versione anglosassone di quel limite: fondato sulla sanzione morale (e religiosa) della società, piuttosto che sui codici, nonché sulla responsabilità dell’individuo proprietario verso la comunità locale e verso l’ordine economico.
Seppure, nella prospettiva qui assunta, non sarà il genio di Goethe a rendere Weimar un luogo di memoria dell’Europa novecentesca, la sua presenza contribuisce a sottolineare il carattere simbolico e sovranazionale del nome con cui è ricordata la Repubblica che governò la Germania tra il 1918 e il 1933. La cittadina di Weimar fu infatti scelta come sede per ospitare nel 1918 i lavori dell’Assemblea che avrebbe dato una nuova costituzione alla neonata Repubblica tedesca, votata dopo la sconfitta militare della Germania imperiale e l’abdicazione del Kaiser.
In un anno di violenti conflitti politici che ebbero nella città di Berlino il luogo del vero scontro sociale (culminato, il 23 dicembre 1918, con la rivolta degli spartachisti repressa nel sangue dal governo socialdemocratico), si preferì riunire l’assemblea costituente a Weimar; e ‘Repubblica di Weimar’ si sarebbe continuato a chiamare quel regime, anche se Berlino tornò subito a essere la capitale e il centro della vita politica, nonché, per tutti gli anni Venti, la città in cui nuovi linguaggi artistici, esperimenti teatrali e cinematografici, slanci architettonici e innovazioni urbanistiche avrebbero lasciato un segno di modernità la cui memoria non sarà del tutto cancellata in Europa neppure dagli orrori del Terzo Reich e dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale.

LA REPUBBLICA DI WEIMAR COME LUOGO DI MEMORIA EUROPEO

Le costituzioni scritte in occasioni di grandi svolte storiche contengono sempre decisioni circa la struttura della società futura. Una costituzione, inoltre, è più che il suo testo legale: è anche un mito che esige devozione a un sistema di valori eternamente validi (F. Neumann, Behemoth. The structure and practice of national socialism, 1942; trad. it. 1977, p. 31).
La Repubblica di Weimar assume i tratti di luogo di memoria europeo mentre è ancora in vita (Traverso 2016). Tra le ragioni possibili qui si è scelto di privilegiare il riferimento alla costituzione che, fin dalla sua nascita e per tutta la sua durata, fu al centro del dibattito istituzionale e del conflitto politico a causa della sua conclamata in-attuazione e inattuabilità, dovuta principalmente all’incapacità di produrre decisione politica (Schmitt 1927). Dal punto di vista istituzionale questo si doveva, da un lato, al sovrapporsi di forme diverse di organizzazione dei poteri (presidenziale, parlamentare, di premier, di gabinetto), dall’altro, al mancato riconoscimento dei partiti politici come necessario strumento di organizzazione della pubblica opinione (La costituzione di Weimar, 1946). Al fondo vi era in realtà il carattere compromissorio, tra visione liberale e visione socialdemocratica, in materia di rapporti economici.
L’impronta caratteristica che distacca la Costituzione di Weimar da tutte quelle che l’avevano preceduta – avrebbe osservato Costantino Mortati nel 1946, in uno studio pubblicato nella collana Testi e documenti costituzionali voluta dal ministero della Costituente italiano – «è il superamento del principio individualistico e l’affermazione della priorità del sociale»: un obiettivo che era all’epoca sostenuto dal sogno di operare una nuova sintesi, «che fosse espressione del genio organicista germanico e si presentasse come una mediazione fra le due civiltà contrapposte, quella antica occidentale e la nuovissima venuta dall’oriente» (La costituzione di Weimar, 1946, p. 59). Poteva sembrare eccentrico, in Italia nel 1946, questo riferimento alla Costituzione dell’URSS da parte del giurista Mortati. Lo si capisce meglio ricordando che egli intendeva sottolineare, alla vigilia della convocazione dell’Assemblea costituente, il significato politico che aveva avuto, nel 1918, per il partito socialdemocratico di governo e di maggioranza, l’inserimento del capitolo sui diritti del lavoro nella Costituzione weimariana: una sorta di apertura al fronte sociale di sinistra, anche se la fazione politica che lo rappresentava, filobolscevica e avversa alla convocazione della Costituente, era stata dal partito militarmente repressa.
In sede storica questo riferimento ci serve per sottolineare la lunga durata del modello Weimar, ancora valido, evidentemente, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, non solo in Italia, ma in Europa e per le medesime ragioni. Nel caso di Mortati si trattava di una sorta di heri dicebamus, parallelo rispetto a quello più noto di Benedetto Croce sulla ripresa della libertà dopo la fine della dittatura: nella prospettiva del giurista, la sconfitta del nazifascismo, che nei movimenti di resistenza aveva avuto anche una forte componente di lotta popolare e di classe, riapriva finalmente la strada in Italia alla condivisione nazionale di una costituzione in cui avrebbero trovato posto anche i diritti sociali, quelli che per la prima volta erano stati scritti nel testo di Weimar come gesto inclusivo verso i cittadini-lavoratori. Del successo di questa inclusione nella Costituzione italiana Mortati stesso si sarebbe fatto sostenitore e garante, come costituente e come giurista.

IL LAVORO NELLA COSTITUZIONE DI WEIMAR

Gli storici e studiosi europei sono tornati nel corso del Novecento in diverse occasioni sui quindici anni della Repubblica di Weimar e, in particolare, sul suo sistema costituzionale, principalmente nel tentativo di scoprire e chiarire le ragioni del mancato funzionamento, rispetto al tragico atto finale (l’incarico di governo attribuito ad Adolf Hitler, anche grazie agli eccezionali poteri conferiti dall’art. 48 al presidente della Repubblica), non solo dei meccanismi presenti nella Costituzione, ma anche di un «patriottismo costituzionale» da parte dei lavoratori, che pure erano entrati per la prima volta a pieno titolo nella Costituzione come soggetti protagonisti. Il primo articolo (151) della parte seconda, capo V (La vita economica), così dettava: «L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo» – teniamo a mente questa parola, dignità, che tornerà nelle conclusioni di questa riflessione –, mentre gli articoli da 157 all’ultimo, 165, erano dedicati al lavoro («posto sotto la speciale protezione del Reich»), come diritto e dovere, nei suoi vari aspetti.
In realtà la Repubblica di Weimar non introdusse particolari innovazioni nel campo dello stato sociale rispetto a quanto era già avvenuto con Otto von Bismarck: cassa malattia, pensione, normativa sugli infortuni; anche se, su iniziativa dei governi guidati dal partito socialdemocratico nella prima fase (quella della cosiddetta coalizione di Weimar, dal 1918 al 1923), fu aggiunta la giornata di otto ore e il riconoscimento dell’organizzazione sindacale. Ciò che segnò il vero salto qualitativo nello sviluppo dello stato sociale in Germania, se letto alla luce degli eventi successivi fino alla Seconda guerra mondiale (quando quella Costituzione rappresentò invece un modello da riprendere negli altri Paesi europei), fu il fatto di avere elevato «al rango costituzionale il principio stesso dello stato sociale e le sue più importanti articolazioni concrete erigendoli a diritti fondamentali dei tedeschi» (Peukert 1987; trad. it. 1996, p. 145). Questo è il salto storico che si compie a Weimar e che, anche attraverso Weimar, si completerà in Europa nel corso del Novecento: non tanto la conquista di nuovi diritti sociali (estesi in quel caso per la prima volta anche a nuove figure di ceto medio), ma il fatto che questi diritti siano iscritti in un testo costituzionale e possano essere invocati dai cittadini come norme fondamentali dello Stato democratico. Alle spalle dell’Europa nel 1918 (dopo la rivoluzione bolscevica e la fine della Prima guerra mondiale) vi era un percorso che sembrava condurre naturalmente al voto e ai governi operai, dopo i milioni di morti in guerra e il crollo degli imperi continentali. La democrazia comportava elezioni e la presenza di uno statuto o costituzione che riconoscesse i diritti dei cittadini votanti: in quel momento la Costituzione sovietica appena varata, con la sua centralità sul lavoro operaio, rappresentava la vera sfida per le nuove democrazie postbelliche.
Sull’inclusione del diritto al lavoro nei testi costituzionali (cioè l’allargamento della lista dei diritti individuali dal campo politico al campo economico e sociale) non esistevano antecedenti: il diritto al lavoro rivendicato nelle strade di Parigi nel giugno del 1848 si era introdotto indirettamente nella Costituzione del 4 novembre, nel cui Preambolo, accanto ai principi di libertà e di eguaglianza si trovava anche il principio di fraternità, ma la Costituzione stessa non poté essere applicata per i contrasti sorti tra i diversi poteri, poi risolti dal colpo di Stato finale di Luigi Napoleone Bonaparte. I veri antecedenti per la Costituzione di Weimar vanno cercati piuttosto nell’ambito delle lotte del movimento operaio europeo – per il riconoscimento dei sindacati, dei contratti di lavoro, per orario, pensioni ecc. – condotte tra Ottocento e Novecento dai partiti socialisti dei vari Paesi aderenti all’influente Seconda Internazionale. Questa, fondata a Parigi nel 1889, collegava una vastissima rete associativa internazionale – anzi, come è stata definita di recente, «mondiale» (Rosenberg 2015), come mondiale era già diventato il capitalismo – che si caratterizzava per il tipo di obiettivi fondati sul miglioramento delle condizioni dei lavoratori e il loro riconoscimento politico. Inoltre, proprio i successi passati della Sozialpolitik bismarckiana sembravano confermare la fiducia che, nel caso della Repubblica tedesca, il bisogno di regolamentazione sociale avrebbe potuto essere soddisfatto dalla competenza della burocrazia e dall’intervento dello Stato. È in questo contesto culturale che si erano formati alcuni degli studiosi protagonisti del dibattito a Weimar: giuristi, economisti del lavoro, politici, alcuni vicini alla socialdemocrazia e che già avevano ottenuto nel Reich guglielmino attenzione e riconoscimenti per le condizioni sociali dei lavoratori (operai, ma anche impiegati e nuove figure di ceti medi).
Provenienti da questo retroterra, spiccano nel dibattito costituzionale sulla parte seconda del testo weimariano (Diritti e doveri fondamentali dei tedeschi) Friedrich Naumann (cofondatore del Partito democratico) e Hugo Sinzheimer (socialdemocratico, giurista esperto di temi del lavoro), impegnati nel tentativo di fornire una risposta avanzata alla soluzione sovietica (Gozzi 1999, pp. 81-89). Ecco come, nel 1922, lo storico francese Edmond Vermeil riferiva e sottolineava la novità di alcuni passaggi dei loro discorsi nella sede della Commissione costituzionale:
Naumann pone il problema in tutta la sua ampiezza. Discorso molto significativo il suo perché coglie l’occasione per collocare esattamente la Costituzione di Weimar tra le carte individualiste dell’Occidente e lo statuto comunista della Repubblica russa [...]. [Per Naumann] la rivoluzione tedesca è il passaggio non dalla monarchia alla repubblica, ma dal metodo autocratico al metodo democratico. Di conseguenza se i vecchi diritti fondamentali riguardavano solo gli individui, i diritti fondamentali attuali dovranno considerare gli individui nei loro raggruppamenti organici (La Constitution de Weimar et le principe de la démocratie allemande, 1923, p. 172, verbale del 31.3.1919).
A sua volta Hugo Sinzheimer precisa il pensiero socialdemocratico, sostenendo che occorre, prima di tutto, perfezionare i rapporti tra Stato e individui in senso sociale e non solamente politico, proteggere il lavoratore contro il padrone e strappare la vita economica alla stretta tirannica dell’individualismo (p. 173). Si vuole forse applicare il sistema russo, escludendo la democrazia politica e parlamentare? No, certamente. La socialdemocrazia vuole una trasformazione organica e moderata, a partire dalla democrazia politica, che consacri l’eguaglianza dei cittadini davanti allo Stato e alla legge. La democrazia sociale verrà a completarla (p. 179, verbale del 2.6.1919).
Sarà in particolare Franz Neumann, allievo e collaboratore di Sinzheimer, a percepire la nuova portata politico-istituzionale assunta dal lavoro nella Repubblica di Weimar, difendendo – contro la critica di Carl Schmitt a una «costituzione senza decisione» – un decisionismo di tipo nuovo, rappresentato dalla parte della Costituzione sui diritti fondamentali. Di contro alla tesi di Schmitt, che teorizzava una nozione sostanziale di Volk legittimato a scavalcare la procedura costituzionale nello stato di emergenza, secondo Neumann (ma la tesi era condivisa anche da Hugo Preuss e Hans Kelsen) queste disposizioni dimostravano che i diritti fondamentali avevano perso il carattere di intangibilità proprio delle costituzioni ottocentesche e avevano assunto quello di forza di integrazione della società nello Stato, fino a divenire i fondamenti stessi di quest’ultimo. In particolare, il diritto al lavoro costituiva, a suo avviso, il terreno sul quale venivano esplicitate sia le nuove basi sociali dello Stato repubblicano, sia la nuova funzione assegnata ai diritti fondamentali rispetto a quella a essi attribuita nel costituzionalismo liberale (Neumann 1983; Caldwell 1997).
Dibattito interessante e attuale, come si vede, ma ciò che teneva il campo era soprattutto il confronto ideologico e di politica internazionale: fu questo a rendere per tutti gli anni Venti – caratterizzati, da un lato, da una ricomposizione e da un rafforzamento economico del fronte capitalistico e, dall’altro, dallo scontro sempre più violento tra partito comunista filosovietico e partito nazista – gli articoli contenuti nel capo V così carichi di conflittualità e, soprattutto, di inattualità. Tuttavia è questo salto che si vorrebbe qui sottolineare, anche se la presenza di quegli articoli nella Costituzione di Weimar non fu sufficiente di per sé a tradurre in atto dei principi che non erano condivisi dallo stesso arco costituzionale che li aveva approvati. E questo, a maggior ragione, per il succedersi delle crisi – economiche e sociali – che portarono, dopo la prima fase e la mancata stabilizzazione del 1923-24, allo stallo finale, allorché si resero palesi le vere ragioni della paralisi politico-istituzionale che impediva al sistema Weimar di funzionare. Come ebbe a osservare Ernst Fraenkel (in risposta ancora a Schmitt) in un articolo (Abschied von Weimar?) pubblicato su «Die Gesellschaft» nel 1932: «Non il compromesso, ma la possibilità che non si possa raggiungere più un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. INTRODUZIONE di Mariuccia Salvati
  5. MEDITERRANEO: LA COSTRUZIONE DI UN’IDEA di Francesco Benigno
  6. RENO di Jakob Vogel
  7. DANUBIO di Martin Pollack
  8. WESTMINSTER di Richard Vinen
  9. WEIMAR di Mariuccia Salvati
  10. AUSCHWITZ di Annette Wieviorka
  11. IL MURO DI BERLINO di John Borneman