Dopo la gloria
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Dopo la gloria

I secoli del credere in Occidente

  1. 144 pagine
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Dopo la gloria

I secoli del credere in Occidente

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Dopo la Gloria dell'Incarnazione, la missione e l'esilio si sono alternati nella percezione del credere cristiano in Occidente, nell'eco del lontano inno davidico: "Forestiero e pellegrino son io, come tutti i miei padri" (Salmo 39), dalla "ramogna" di Dante alla solitudine di Barbiana per don Milani. Questa coscienza non è stata tuttavia primaria e, come richiama Rilke, occorre che Dio "si strappi" dai quadranti delle cattedrali perché il popolo si ricordi del cammino. Il libro percorre le stazioni, secolo per secolo, di questo difficile viaggio, sino all'incendio recente della cattedrale di Notre-Dame di Parigi.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2020
ISBN
9788812007738

1. THE UNENDING GIFT

«Et Verbum caro factum est»: il Prologo dell’Evangelo di Giovanni ricapitola e accentua la tensione che l’Incarnazione manifesta: la precedenza (pre-eminenza?) del Verbum, e insieme la “riconoscibilità” («et habitavit in nobis») affidata, assicurata, manifestata dalla Carne. Esegesi ed eresia si sono susseguite nei secoli a tener tesa questa “corda” divina.
Il breve contributo che sottopongo al lettore non intende riprendere la millenaria questione teologica, ma soltanto mostrare – attraverso alcuni nodi testuali – la fecondità letteraria di quella polarità, lungo un «Giordano di carne»1 (Unamuno) che ha nutrito la creazione in Occidente.
L’incarnazione è presenza; nel manifestarsi essa dà luogo a una “palpabile” evidenza che non ha bisogno di “allegoria”, di un rinvio ad altro che è “traslato”. La parrēsia si dichiara, dunque, come il linguaggio diretto dell’evidenza. I capitoli qui raccolti percorrono, per testimoni e nodi (capp. 2-9), le forme in cui nella storia fluisce questo «Giordano di carne»; nei capitoli 13 e 14 la parrēsia che la “presenza” suscita e impone; e, simmetricamente, l’orma o la metafora che la lontananza dall’Avvento, nell’“invisibile” del presente, sembra suggerire (capp. 16-20).2
Prima di avanzare in questo percorso è tuttavia necessario indagare se la via dell’evidenza sia percorribile. Soccorre qui l’argomento, suscitato da Spinoza, della “pensabilità”. In un suo trattato meno “canonico” (poiché scoperto solo nel 1852) e tradotto in Italia con il titolo Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità [o anche il suo bene],3 egli porta ad apertura del folgorante saggio un superbo argomento a posteriori dell’esistenza di Dio, che così formula: «Se l’uomo ha l’idea di Dio, Dio deve esistere formalmente. Ora l’uomo ha l’idea di Dio, dunque se l’idea di Dio esiste, la sua causa deve esistere formalmente e deve contenere in sé tutto ciò che questa idea contiene oggettivamente». Il ragionamento, nel suo svolgimento, è difficilmente confutabile; mentre lo può essere solo mettendo radicalmente in discussione la premessa, e cioè che l’uomo possa «non avere» l’idea di Dio, immaginando insomma un’umanità così interamente secolarizzata, privata di ogni idea di ulteriorità e di ogni domanda su se stessa, di ogni sogno di salvezza o incubo di dannazione, di ogni memoria e traccia lasciati dal credere (e dalle sue archeologie), che sia ormai mera arborescenza d’organi. Non siamo ancora a questo punto, e anzi si assiste – in varie parti del mondo – a una riconquista degli spazi del “sacro” (sebbene il sacro non sia che una delle modalità di rendere societario il credere; un “credere” che non è ancora di per sé un’«idea di Dio»).
Oppure, altra possibilità per indebolire la premessa, l’osservare con Pindaro che «l’uomo non è che il sogno d’un’ombra» (come richiama Erasmo nell’Adagio Homo bulla): egli stesso, non essendo che il tenue pallore di un’ombra, non arriverebbe a concepire alcuna idea “formata”, vagando in una larvale “nebbia d’essere” che l’imperatore Adriano a sé rivolge: «Animula vagula, blandula, / Hospes comesque corporis, / Quae nunc abibis in loca / Pallidula, rigida, nudula».4 L’uomo, insomma, non giunge mai a essere, a pensare, a pensarsi pienamente; al più – come riassume Leibniz nella Teodicea riprendendo il De servo arbitrio di Lutero – può essere passibile di verità rivelate ma non comprensibili: «Il libro di Lutero contro Erasmo [il De libero arbitrio] è pieno di osservazioni vivaci contro quelli che vogliono sottoporre le verità rivelate al tribunale della nostra ragione. Calvino parla spesso sullo stesso registro contro l’audacia impertinente di coloro che cercano di penetrare nei consigli di Dio».5
Non c’è uscita, in effetti, dall’aporia, poiché o l’uomo è così saldo da essere (concependo l’«idea di Dio») a sua volta quidam deus (opzione umanista), oppure è così vano da non poter che concedere: vanitas vanitatum et omnia vanitas, secondo il detto dell’Ecclesiaste (opzione nichilista). Entrambe hanno avuto corso nei secoli e nessuna ha prevalso, né parrebbe poter prevalere, poiché il problema – come detto – sta nella premessa: quid est homo? Infatti il quid est deus o anche l’an sit Deus non sono pronunciabili se non entro una sorta di perenne specularità con la prima domanda.
Andrebbe anzi letto alla lettera, nella pura lettera, il Salmo LII: «Dixit insipiens in corde suo: non est Deus» che andrebbe tradotto così: «Colui che non sa ha detto in cuor suo: Dio non c’è», perché solo una «sapientia non opinativa, sed testificativa»6 può dire «Dio c’è».
Certo, si può evadere dal problema ricorrendo al paradosso, che è stato sia di Tacito: «Sanctius ac reverentius visum de actis Deorum credere, quam scire» (Germania, 34: «È parso più santo e riverente, sull’agire degli Dei, credere che sapere») sia della tradizione cristiana, dal Magnificat e dalle Beatitudini sino al De carne Christi di Tertulliano: «Mortus est Dei filius: credibile est, quia ineptum est», che prosegue il discorso paolino di un messaggio evangelico sempre capace di rovesciare la doxa, l’opinione ricevuta: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Corinzi, 1, 22-23).
Vexata quaestio:7 ma Raimondo Lullo, filosofo, teologo, mistico catalano agli albori dell’evo moderno, contemporaneo di Dante, pone altrimenti il problema della conoscenza, nel Libro dell’Amico e dell’Amato: «Chiesero all’Amico donde nasca Amore, di che cosa viva, perché muoia. L’Amico rispose che l’amore nasce dal ricordo, vive d’intelligenza e muore d’oblio» (§ 138).8 La stessa cosa si potrebbe dire dell’idea di Dio: «Nasce dal ricordo, vive d’intelligenza e muore d’oblio». E così, discutendo di Dio, che lo si provi o lo si neghi poco importa, perché appunto non lo si oblia; e perché nell’un modo e nell’altro non si fa che contribuire – consciamente o meno – al mirabile assunto di Spinoza: «Se l’uomo ha l’idea di Dio, Dio deve esistere formalmente. Ora l’uomo ha l’idea di Dio, dunque se l’idea di Dio esiste…» Basterebbe dunque questa probabilità? Assicurare che il credere abbia una qualche ammissibilità – rispetto al non credere – garantita, in fondo, dalla sua indimostrabile improbabilità? Penso che l’assunto – nonostante il fascino di libri recenti9 – sia aporetico. «Mais est-il probable que la probabilité assure?», osservava Pascal; il probabile, in un certo senso – dovendo assumere sempre più variabili e sempre più complesse –, è, in fondo, più aporetico che l’improbabile: quest’ultimo, infatti, costituisce l’orizzonte illimitato entro il quale calcoliamo il probabile. Più il probabile ingloba il possibile ad accadere, più l’improbabile si fa sottilmente vincolante per il pensiero. Concepire, infatti, qualcosa che non possa essere refutato e non possa a un tempo essere assunto nel probabile conferisce un più alto grado di «obbligazione» e di libertà: paradosso, eminente, vertiginoso. Occorre aguzzare l’esercizio, scavare intanto entro le tracce che l’inaccaduto lascia al pensiero, che il probabile – ricaduto nell’impossibile – consegna ad altri gradi della pensabilità, a una forma più certa rispetto ai realia perché non più costretta ad «aver luogo», come Jorge Luis Borges ha dimostrato in due mirabili parabole:

The unending Gift

Un pittore ci aveva promesso un quadro.
Oggi, in New England, ho saputo che è morto.
Ho sentito, al pari di altre volte, la tristezza di comprendere che siamo come un sogno.
Ho pensato all’uomo e al quadro perduti. […]
Ho pensato al luogo prefissato che la tela non occuperà.
Poi ho pensato: se stesse lì, sarebbe con il tempo una cosa di più, una cosa, una delle vanità o abitudini della casa; ora è illimitata, incessante, capace di qualsiasi forma e qualsiasi colore e non costretta in alcuno.
Esiste, in qualche modo.
Vivrà e crescerà come una musica e resterà con me fino alla fine.10

Argumentum ornithologicum

Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visti. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, il numero è definito, perché Dio sa quanti furono gli uccelli. Se Dio non esiste, il numero è indefinito, perché nessuno poté contarli. In tal caso, ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste.11
La «morte di Dio» – quel Dio che Borges postula (assai meglio che in tanti trattati di teologia) a fronte delle aporie del “probabile” – ha privato l’“improbabile” della riserva di potenziale metafisico che gli era propria rispetto al probabile; così l’improbabile perde il carattere dell’“ineventualità” (non sottoposta all’evento né alla prova) per accedere alla ragionevolezza di una «defensibility» in tempore et verbis: «After all, Credo quia improbabile is logically, and even scientifically, more defensible as a profession of faith than Credo quia impossibile».12
In questo, il postulato pascaliano era, e resta, molto più radicale: «Ils détruisent la perpétuité par la probabilité».13 Una ragione di più per amare «les libertés de l’improbable», il loro spazio infinito, letteralmente, metafisicamente, “insostenibile”: «Moja wiara jest silna, ślepa i bez podstaw».14
1 «Nos bañamos en Ti, Jordan de carne, / y en Ti de agua y de espiritu nacimos» (Miguel de Unamuno, Il Cristo di Velázquez, Morcelliana, Bologna 1948 [ed. orig. El Cristo de Velázquez, Espasa Calpe, Madrid 1947, parte I, XIV: Arroyo – Fuente, p. 34; poi in Obras completas, IV: Poesía, edición y prólogo de Ricardo Senabre, Turner – Fundación José Antonio De Castro, Madrid 1999, p. 474]). Sulla formula si veda: Carlo Ossola, L’anima in barocco, Scriptorium, Torino 1995, pp. XVI-XVII; nonché il saggio di Jan E. Evans, The Metaphor of the River in Unamuno’s El Cristo de Velázquez: Subversive Text or Devotional Reading?, “Romance Notes”, L, 2010, n. 3, pp. 279-286.
2 Parte dei capitoli [2, 3, 7, 9, 11-14] qui raccolti, sono chiose nate, in lustri di riflessione, da testi che hanno riaperto problemi di tradizione. Articoli o recensioni apparsi sul “Sole 24 ore” sono stati rielaborati alla luce dell’esigenza ermeneutica che a quei testi è sottesa, e riproposti nel saggio Giordano di carne, in “Rivista di Storia e Letteratura Religiosa”, LIII, 2017, n. 1, pp. 113-136; il capitolo 1 rielabora ragioni di un saggio apparso in Les libertés de l’improbable, a cura di Alain Berthoz e Carlo Ossola, Paris, Odile Jacob, 2019, pp. 217-232. Il capitolo 15 è la Premessa a La Bibbia di Pietro Cavallini, facsimile e Commentario, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2018; così il capitolo 17 deriva dall’Introduzione alle Città invisibili di Italo Calvino, in Libri d’Italia (1861-2011), a cu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. PREMESSA
  5. 1. THE UNENDING GIFT
  6. 2. LA “CARNE” DEI POPOLI
  7. 3. «GIORDANO DI CARNE»: METAMORFOSI E INCARNAZIONE
  8. 4. LA «BUONA RAMOGNA» DELLA COMMEDIA
  9. 5. L’ALTA POVERTÀ DELLA CROCE: IL SAN FRANCESCO DI DANTE
  10. 6. NEL MONDO E FUORI DEL MONDO. LA BIBLIOTECA DELLA VERNA
  11. 7. LE MEMBRA DI CRISTO: I POVERI
  12. 8. QUALE “IMITATIO CHRISTI”? L’IMPRESSIONE “MIGLIORATA” DELLE STIMMATE
  13. 9. «DI OSSA E DI CARNI IMPASTATE CON IL FANGO»: JEAN RACINE
  14. 10. LUMIÈRES E APOCALISSE
  15. 11. «VA’, CUORE, E SANGUINA»: GERARD MANLEY HOPKINS
  16. 12.«VITTIME SACRIFICALI»: MARÍA ZAMBRANO
  17. 13. LA LINGUA DELLA PARRĒSIA: DON LORENZO MILANI
  18. 14. BREVI RAGIONI DELLA PARRĒSIA
  19. 15. LA SCRITTURA E IL TEMPIO: I COLORI DELL’INFINITO
  20. 16. LA SCRITTURA E IL TEMPIO: ELOGIO DELL’ORMA
  21. 17. «LA NOSTRA CITTÀ E IL CIELO»
  22. 18. METAFORA E TRASFIGURAZIONE
  23. 19. DOPO LA GLORIA
  24. 20. DOPO IL FUOCO