ALLA RICERCA DI RITA. STORIA, SCIENZA, UMANITÀ
L’INCONTRO IN STATALE
Erano le 9 del mattino del 20 giugno 2008. L’aula della Statale di Milano era gremita, piena oltre ogni limite. L’emozione era palpabile, per prima la mia. Da anni sognavo di riuscire ad avere Rita Levi-Montalcini in ateneo, per permettere ai nostri studenti di ascoltare direttamente dalla sua voce il racconto di una vita dedicata alla scienza e della scoperta del nerve growth factor (Ngf), il fattore di crescita nervoso che le è valso il Nobel nel 1986.
Erano in centinaia ad attenderla quel giorno. Non solo studenti, ma anche docenti, dirigenti e personale dell’amministrazione. Nessuno voleva perdere l’occasione di vederla e ascoltarla. L’università, per lei, era paralizzata, le lezioni sospese. L’affluenza fu così elevata che dovetti chiedere di attrezzare tutte le aule del dipartimento per dare ai tanti che non avevano trovato posto la possibilità di seguire comunque il suo intervento. Un interminabile applauso nacque appena l’auto che la accompagnava fece il suo ingresso nel cortile. Lei scese e in viso aveva il sorriso pacato e gentile che conosciamo, mentre con lo sguardo, sempre fermo e deciso, scorreva i volti che le erano intorno.
In aula, cominciò a parlare degli embrioni di pollo e di come le permisero di arrivare alla scoperta del Ngf. Si tratteneva il respiro per non perderne una parola. Erano continue le citazioni dei grandi studiosi e maestri dai quali imparò. Un posto particolare lo aveva avuto il suo maestro e mentore, l’istologo di fama internazionale Giuseppe Levi, «un uomo dalla straordinaria tempra e personalità», «celebre per la sua fama di scienziato e per il suo antifascismo».1
Rita aveva novantanove anni, ma nessuno se ne ricordava, rapiti com’eravamo dalla linearità e dal ritmo del suo discorso. Dopo quasi un’ora era ancora lì, in piedi, a raccontare e spiegare alla platea le sue straordinarie ricerche armata solo di microfono. Non accennava a smettere e, sebbene dubbiosa, pensai potesse essere gentile metterle accanto una sedia. Appena la accostai si voltò dalla mia parte. «Grazie, ma la sedia non è per me» mi disse, sempre al microfono, con gentilezza e un ampio sorriso che contagiò tutti.
Al termine impiegò un’eternità a uscire dall’aula tante erano le richieste di fotografie e di autografi. Sempre circondata, raggiunse l’auto. Ricordo che mi si avvicinò un giovane studente letteralmente disperato perché Rita stava andando via senza che fosse riuscito ad avvicinarla e avere il suo autografo. Allora, mentre lei era già seduta, con la portiera che stava per chiudersi, gli dissi di seguirmi e velocemente la raggiungemmo. Quando fummo vicini, lui si inginocchiò, in corrispondenza del sedile posteriore dove era seduta Rita. Le braccia allungate verso di lei, in mano aveva un suo libro, sul quale ebbe l’agognato autografo insieme a una carezza. In quel cortile nessuno riuscì a restare indifferente a quella scena, a quei gesti. Sono certa che quello studente ancora la ricorda e chissà quante volte l’ha raccontata. E sono altrettanto certa che, da quel giorno, Rita e la sua immagine di forza, determinazione, fiducia ed entusiasmo, tutti valori che identificano la scienza, sono rimasti nella memoria dei presenti.
Rita esprimeva un carisma e una tenacia che andavano al di là del suo indiscusso valore di scienziata. Credo che questo le derivasse dalle molte avversità che aveva dovuto affrontare durante la sua vita e che finirono per formare il suo carattere, come rivelò in un’intervista usando una vivida immagine: «A me nella vita è riuscito tutto facile. Le difficoltà me le sono scrollate di dosso, come acqua sulle ali di un’anatra».2
In effetti, per le nuove generazioni non deve essere agevole immaginare le difficoltà che una donna di scienza, che «aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza in un clima vittoriano», doveva affrontare negli anni Trenta del Novecento.3 Rita, infatti, era ben conscia «del ruolo subalterno che spettava alla donna in una società interamente gestita dagli uomini».4
Basti pensare che nel 1929 le alunne iscritte alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino erano sette su trecento, l’anno successivo solo lei e la cugina Eugenia entrarono a far parte del gruppo ristretto selezionato per l’ingresso nel laboratorio di Anatomia normale del futuro maestro e mentore Giuseppe Levi, e ancora nel 1949, negli Usa, nella celebre fotografia che la ritrae al primo convegno internazionale “Genetic Neurology” cui Rita partecipò a Chicago, era l’unica donna tra i diciassette partecipanti. Inoltre, Rita ben sapeva «di non essere tagliata per fare la moglie»5 e che le «sarebbe stato difficile adattar[s]i alla vita matrimoniale».6 Come pure sapeva, essendosi affacciata alla vita accademica e professionale negli anni Trenta nell’Italia fascista, che appartenere alla minoranza ebraica avrebbe significato subire emarginazioni e ingiustizie, sino all’epilogo, questo forse persino allora inimmaginabile, delle ripugnanti leggi razziali del 1938 con cui venne espulsa dall’Università di Torino insieme al maestro Levi e ad altri professori ebrei.
Rita partiva quindi per la sua corsa verso la scienza con tre difficoltà in più rispetto agli altri scienziati, l’essere donna, studiosa ed ebrea, ma di questo non solo non si lamentò mai, né tantomeno se ne fece vanto, puntando piuttosto verso l’obiettivo con ancor maggiore determinazione. Anche questo credo sia un insegnamento prezioso per le nuove generazioni, oltre alla dedizione e serietà con cui ha svolto il suo percorso scientifico.
STORIA UMANA DELLA SCOPERTA
Mi ha sempre affascinato andare all’origine di una scoperta per capire come è nata, come si è sviluppata e rivelata. Poter comprendere cosa abbia mosso la curiosità e la volontà di indagare di uno studioso mi interessa a volte più della scoperta stessa.
Per questo non posso fare a meno di chiedermi: da dove è partita Rita? Cosa c’era prima dei suoi esperimenti? Come ha potuto intravedere una strada laddove non c’era nessuno a indicarla? Come ha realizzato le sue ricerche, una donna, in quegli anni, con i pochi mezzi disponibili in termini di finanziamenti, conoscenze e strumenti scientifici?
Provare a rispondere a queste domande aiuta (giovani inclusi) a capire che, per così dire, “c’è un tempo per ogni tempo”, e che il nostro presente non è affatto svantaggioso. Soprattutto alle nostre privilegiate latitudini, dalle quali credo si debba guardare ammirati e pieni di riconoscenza a Rita e ai tanti come lei, impegnati dentro e fuori i laboratori, per quello che hanno fatto per la scienza, per il nostro Paese e per il mondo. Tra l’altro in epoche in cui la presenza della comunità di studiosi era flebile, lasciando ciascuno essenzialmente solo nelle decisioni. Questo sguardo può anche aiutare a migliorare la consapevolezza delle opportunità che ciascuno oggi ha di migliorare l’esistente. Sapendo anche che se non si riuscirà a (ri)cambiarlo nella sua totalità, ci si potrà impegnare per migliorare quello che a noi è più vicino.
Ho sempre cercato di entrare nel mondo di Rita per scoprire non solo i dettagli scientifici della sua scoperta ma, ancora di più, come si siano mosse le cose intorno alla sua vita. Molto insegnano i suoi autorevoli scritti scientifici, i suoi meravigliosi libri, le dettagliate descrizioni degli storici e di tutti coloro che hanno potuto esserle vicino, crescere con lei, essere suoi allievi.
Forse non troppo diversamente da quello che muove lo scienziato di oggi, l’origine della sua scoperta fu un pensiero stimolato dall’intuizione che ci fosse un nesso tra dati che si rivelarono come lei aveva visto e studiato. Un pensiero che si alimentò di fatti, fonti e oggetti che procedendo nello studio si allinearono. E poi ci fu il ruolo fondamentale del suo grande maestro, Giuseppe Levi, che indirizzò un flebile faro in una direzione ben precisa, consapevole che quel fascio di luce avrebbe potuto spegnersi se quel che illuminava non avesse alimentato nulla nella sua mente e in quella di Rita. Invece Rita seppe guardare in quel chiaroscuro, con il cono di luce che si restringeva, e puntare a una serie di fatti che potevano avere una spiegazione diversa da quella fino ad allora immaginata. Capì che bisognava indagare ancora.
Giuseppe Levi si era fatto incuriosire da uno studio scientifico condotto nei lontani Stati Uniti e pubblicato nel 1934. Quello studio fu il “faro”. Lo segnalò nel 1938 a Rita, la quale attese due anni prima di leggerlo. Nel frattempo aveva già completato i suoi studi in Medicina (1936) e la specializzazione (1938), aveva abbandonato Torino (agli inizi del 1939) per recarsi in Belgio a continuare le sue ricerche, per poi tornare pochi mesi dopo, poco prima dell’invasione del Belgio, nella sua Torino (nel dicembre del 1939) dove allestisce un piccolo laboratorio di fortuna in casa propria.
Ecco che dallo studio statunitense si fa avanti un’ipotesi, una strada verso una “nuova Luna” da scoprire. Solo che, in quel momento, Rita non poteva sapere nemmeno dove l’avrebbe trovata, la Luna.
La scienza procede così: si immagina possa esistere qualcosa di straordinario da scoprire sulla base delle informazioni pregresse, dei ragionamenti e dei dati esistenti. Il resto sono tracce, esperiment...