Il tramonto della ragione
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Il tramonto della ragione

L'uomo e la sfida del clima

  1. 464 pagine
  2. Italian
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Il tramonto della ragione

L'uomo e la sfida del clima

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Nonostante l'impegno internazionale per fermare i cambiamenti climatici, le emissioni di gas serra sono aumentate e il riscaldamento globale è diventato realtà incontrovertibile. Perché non siamo riusciti a fermarlo? Questo libro indaga le dimensioni scientifiche, storiche, economiche e politiche del problema, ma soprattutto la nostra incapacità di prevenirlo e affrontarlo in modo significativo. Tale inettitudine riflette, secondo l'autore, l'impoverimento dei nostri sistemi di ragion pratica, la paralisi della nostra politica e i limiti delle nostre capacità cognitive, sminuendo inoltre il senso stesso del nostro essere al mondo e il ruolo della nostra responsabilità individuale. Eppure, ci dice Jamieson, c'è molto che possiamo fare per rallentare il cambiamento climatico, per adattarci a esso e riattribuire insieme un valore al nostro libero arbitrio. La sfida che ci si prospetta va affrontata con coraggio, non evitata, perché rappresenta la battaglia decisiva del nostro secolo.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2021
ISBN
9788812008223
Categoria
Ecology

1

UN’INTRODUZIONE

Non ho scritto questo libro per salvare la Terra. Non è un manifesto o una chiamata all’azione; non ci troverete elenchi di cose da fare se volete ridurre la vostra impronta di carbonio o diventare consumatori verdi. Tutte queste cose vanno bene – anzi benissimo – ma non fanno per me.
Il mio obiettivo è farvi riflettere. Le questioni ambientali, come quella del cambiamento climatico, sono ormai troppo impregnate di slogan politici e battibecchi di parte. Ci sono anche troppe chiacchiere che si autoproclamano scientifiche o politiche, quando in realtà riguardano soltanto atteggiamenti e prese di posizione. Colpevoli di questa situazione sono soprattutto i negazionisti del cambiamento climatico, ma anche gli ambientalisti non sono del tutto innocenti. Gli avvertimenti sui tipping points – punti critici o di non ritorno – sembrarono aumentare in modo impressionante dopo la pubblicazione, nel 2000, del libro omonimo di Malcolm Gladwell. Continuiamo a sentirci dire che siamo in un momento unico della storia dell’uomo e che questa è l’ultima opportunità di fare la differenza. D’altra parte, ogni singolo istante della storia dell’uomo è unico, e noi siamo sempre di fronte all’ultima opportunità di fare una certa particolare differenza. Fintantoché il mondo, o l’umanità, non saranno (letteralmente) arrivati alla fine, sarà sempre possibile fare una differenza. Dobbiamo guardare attraverso la nebbia e cogliere a mente lucida i problemi che abbiamo di fronte. Come era solito dire il climatologo Jerry Mahlman, «non c’è alcun bisogno di gonfiare il problema del cambiamento climatico: è già abbastanza brutto così com’è».
Il cambiamento climatico oggi in corso sta riconfigurando il mondo a tal punto che, nel giro di anni o decenni, luoghi, comodità e stili di vita che oggi ci sono familiari scompariranno. Nell’arco di qualche secolo, il cambiamento climatico rischia di porre fine a moltissime cose per noi preziose, compresa gran parte dell’umanità e delle sue invenzioni. Il cambiamento climatico non è un fenomeno isolato: si sta verificando insieme ad altri rapidi mutamenti ambientali, tecnologici e sociali.
Il fatto che tali cambiamenti siano antropogenici ha una grande importanza. Stiamo causando un cambiamento climatico che non desideriamo ma che non sappiamo fermare. Benché il motore sia l’azione umana, sembra che a controllarlo non siano persone ma cose: pare che grandi aziende, governi, tecnologie, istituzioni e sistemi economici abbiano una vita loro. È come se stessimo sperimentando una qualche sinistra perversione del sogno illuminista; anziché essere un’umanità che governa razionalmente il mondo e se stessa, siamo alla mercé di mostri che abbiamo creato noi.
Questo libro parla di come siamo arrivati a questo punto. Quello dell’Illuminismo era un buon sogno: perché è fallito così? I cedimenti sono stati ineluttabili oppure avremmo potuto evitarli? Che insegnamenti possiamo trarne? Che cosa ci fanno intravedere del futuro? In che modo le nostre azioni continuano ad avere importanza e significato?
Mi avvicinerò a queste domande con discrezione, e le affronterò in modo più o meno indiretto. La nottola di Minerva è una creatura evasiva: prima di affermare d’aver capito, sorvola l’intera scena. Sul cambiamento climatico abbiamo moltissime cose da imparare prima di poter apprezzare appieno la situazione in cui ci troviamo.
Il capitolo 2 è una storia – una storia di parte – di come ci siamo cacciati in questo pasticcio. Ad alcuni sembrerà che io inauguri un viaggio emozionante con un tonfo sordo, giacché sono in molti a trovare noiosa la storia, a non capirne la rilevanza, o addirittura a detestarla. «Arriviamo al punto», dicono. «A chi importa il passato?» Questo atteggiamento, come molti altri che seguono la moda, è profondamente sbagliato: rivendicare l’astoricità è ipocrita. Che lo ammettiamo o meno, nella storia siamo immersi fino al collo. Non era necessario che ci trovassimo dove siamo ora: la storia che io racconto è altamente contingente e dipende dal percorso seguito. È meglio essere espliciti sui nostri punti di partenza, invece di fingere che non esistano. Non possiamo apprezzare appieno le sfide poste da un problema come il cambiamento climatico – multidimensionale e in lenta evoluzione – senza avere una percezione della storia di cui è parte.
Questo capitolo comincia con l’ascesa della climatologia, ci porta all’entusiasmo e all’energia del Summit della Terra tenutosi a Rio nel 1992 e culmina con la débâcle della Conferenza delle parti delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici di Copenaghen del 2009. Per molti versi, la prima parte della storia è ordinaria: la climatologia si sviluppò, come le altre scienze, grazie ai contributi incrementali apportati da molte persone, occasionalmente punteggiata di intuizioni e nuove visioni, spesso rese possibili dall’applicazione di tecnologie innovative. Ci furono grandi progressi e qualche passo falso; le nostre conoscenze continuarono ad aumentare.
Ai suoi esordi la scienza del cambiamento climatico era in larga misura motivata dal desiderio di comprendere l’alternarsi delle glaciazioni. Alcuni pensavano che i cambiamenti del clima fossero perlopiù controllati da fenomeni fisici come le variazioni dell’orbita terrestre; altri li attribuivano ad alterazioni chimiche dell’atmosfera. Mentre acquisivano nuove conoscenze, gli scienziati erano sempre più preoccupati e le loro voci cominciarono a farsi sentire dai media e dai governi. Negli anni Cinquanta il cambiamento climatico venne discusso su giornali e riviste ad ampia diffusione; per molti sarà una sorpresa sapere che nel 1965 fu menzionato dal presidente degli Stati Uniti in un suo messaggio al Congresso.
Nel 1968, vedemmo per la prima volta la Terra dallo spazio; in tutto il mondo, furono in molti a sentirsi toccati dall’assenza di confini e dall’apparente vulnerabilità del pianeta. Gli scienziati presero a considerare sempre più spesso la Terra come un singolo sistema, confrontandola ad altri pianeti e meravigliandosi della sua unicità. Con lo sviluppo dei modelli climatici computerizzati divenne possibile farsi un’idea delle conseguenze, su di essa, delle emissioni antropogeniche di carbonio. Il cambiamento stava verificandosi così velocemente che adesso l’impatto umano era sulla stessa scala di quello esercitato dalle forze geologiche.
Il mondo stava cambiando anche dal punto di vista politico. Negli anni Settanta le antiche divisioni tra Est e Ovest, tra comunisti e capitalisti, cominciarono a venir meno. All’orizzonte sembrava profilarsi un mondo nuovo in cui le fondamentali divisioni erano tra Nord e Sud, e la via verso la riconciliazione comportava che si affrontassero le sfide gemelle dell’ambiente e dello sviluppo. Nel 1972 l’Onu tenne la sua prima conferenza sull’ambiente, che portò all’istituzione dello United Nations Environment Programme (Unep). Quello stesso anno, Nixon andò in Cina; l’anno dopo furono firmati gli accordi di pace di Parigi, ponendo fine al coinvolgimento statunitense in Vietnam. Robert McNamara, segretario della Difesa degli Usa durante gran parte della guerra del Vietnam, divenne presidente della Banca mondiale e nel 1977 annunciò la creazione di una commissione che avrebbe emanato raccomandazioni sulle relazioni Nord/Sud. Nel 1983 l’Assemblea generale delle Nazioni unite istituì la World Commission on Environment and Development (Wced), che rese popolare l’espressione “sviluppo sostenibile”. Il suo rapporto del 1987, Our Common Future, fu considerato da molti come un manifesto per il mondo a venire. Quello stesso anno venne firmato il protocollo di Montréal: gli scienziati avevano richiamato l’attenzione internazionale su un problema di portata globale e i governi – prima ancora che si fossero verificati danni seri – avevano preso misure finalizzate a ridurre progressivamente le sostanze chimiche responsabili, che stavano causando la deplezione dello strato di ozono. Per molti, questo era il modello di come avremmo risolto i problemi di portata mondiale. Nel 1988 fu istituito l’Ipcc per fornire ai decisori di tutto il mondo informazioni oggettive riguardanti il cambiamento climatico, che fossero rilevanti per le politiche da intraprendere. Negli anni 1990, 1995, 2001, 2007 e 2014, l’Ipcc ha pubblicato ponderosi rapporti di valutazione che riflettono l’aumento delle conoscenze scientifiche sulla serietà della minaccia; il prossimo sarà pubblicato nel 2022.
Nel 1992, al Summit della Terra di Rio, ebbe luogo il più grande convegno di capi di Stato mai riunitosi – e più di 17.000 persone parteciparono al forum alternativo delle Ong: questo evento segnò l’inizio di un movimento ambientalista su scala autenticamente globale. L’atmosfera era permeata di un ottimismo esaltante: il sogno di Rio era che i paesi del Nord e del Sud unissero le forze per proteggere l’ambiente globale e sollevare i poveri di tutto il mondo dalla loro condizione. Dopo quasi vent’anni di tentativi, alla Conferenza di Copenaghen del 2009 apparve chiaro che quel sogno era naufragato. Ormai, la speranza che la popolazione mondiale risolvesse il problema del cambiamento climatico mediante un mutamento di valori a livello globale s’era spenta. Quello che voglio capire è che cosa accadde, negli anni tra Rio e Copenaghen, per portarci dove ci troviamo adesso. Comprenderlo è fondamentale per sopravvivere al futuro.
Nel capitolo 3 identificherò parte degli ostacoli che impediscono di intraprendere azioni significative. Alcuni riguardano la mancanza di comprensione tra scienziati, decisori politici e pubblico generale. Non solo vi è un’ignoranza diffusa in merito a dati scientifici e politici rilevanti: manca anche il reciproco riconoscimento di cosa voglia dire fare scienza e cosa voglia dire fare politica.
Molti scienziati applicano con disprezzo il termine “politica” a tutto quello che non è scienza (comprese le procedure burocratiche delle loro stesse istituzioni): spesso usano questo termine per accennare alla scatola nera da cui scaturiscono decisioni arbitrarie e inintelligibili. D’altro canto, capita di frequente che politici e altri decisori abbiano poca pazienza con gli scienziati, con i tempi delle loro indagini, con la provvisorietà delle loro conclusioni e con il loro modo di esprimersi oscuro. Queste differenze hanno radici molto profonde che risalgono a esperienze giovanili, quando alla mensa delle superiori smanettoni, motociclisti, atleti e intellettuali in erba sedevano tutti a tavoli diversi. L’istruzione e le esperienze successive rinforzano queste divisioni. Ho sentito dire che al college la principale distinzione tra i ragazzi che diventeranno medici e quelli che faranno gli avvocati sta nel fatto che la chimica organica abbia o meno il potere di mandarli fuori di testa.
L’ignoranza può generare nei confronti della scienza un rispetto eccessivo in grado di trasformarsi poi rapidamente in disillusione quando essa non porta buoni frutti o quando gli scienziati si rivelano meschini ed egoisti come tutti noi altri. I politici e gli altri soggetti coinvolti nelle decisioni politiche ricevono peraltro un trattamento anche più duro. Spesso si dà loro la colpa di essere sensibili a incentivi offerti dagli elettori e dal sistema politico e amministrativo in cui lavorano. Vi sono poi ragioni intrinseche alle prassi della scienza e della politica che rendono difficile il reciproco scambio di informazioni. Queste manchevolezze vanno in scena su uno sfondo di generale apatia, insoddisfazione e cinismo che spesso porta a recriminazioni irrazionali.
Per chi si guadagna da vivere fabbricando dubbi e seminando discordia, questo è un terreno fertile. Alcune delle più grandi aziende e degli individui più ricchi del mondo si sono organizzati e hanno supportato gruppi di facciata il cui ruolo è criticare aspramente la climatologia e opporsi a eventuali regole, esattamente come hanno fatto in risposta alla scienza che gettò le basi per le normative sul piombo, sull’amianto, sul fumo e su altre sostanze e altri comportamenti tossici. Se adottano questa strategia è perché funziona. Il ritardo nell’adozione delle normative si traduce in maggiori profitti e comunque nessuno andrà in carcere per aver mentito al pubblico americano sui rischi comportati dalle emissioni dei gas serra, dal fumo o dalle sostanze chimiche tossiche. Quand’anche alla fine vi siano multe da pagare e costi da sostenere in termini di reputazione, in genere si tratta di cose che somigliano più a una tassa sui profitti che non a serie misure per disincentivare determinati comportamenti.
Dopo eventi come gli uragani Sandy e Katrina, la gente vuole sapere se quei disastri siano stati causati dal cambiamento climatico. Si tratta di domande mal formulate alle quali non è possibile dare risposte che non siano fuorvianti. È come chiedere se la battuta valida di un giocatore di baseball sia dipesa dalla sua media di battuta di 0,350. Non si può dire “sì”; e d’altra parte dire “no” implica falsamente che non vi sia una relazione tra statistiche e battute valide. È difficile – per ragioni concettuali e scientifiche – attribuire particolari eventi ai mutamenti del clima.
Nel reagire al cambiamento climatico, poi, ci troviamo ad affrontare anche alcuni ostacoli psicologici. Noi siamo evoluti in modo da rispondere a rapidi movimenti di oggetti di medie dimensioni, non al lento accumularsi nell’atmosfera di gas la cui presenza è impercettibile. La maggior parte di noi risponde platealmente a ciò che avverte con i sensi, non a ciò che ha in mente. Di conseguenza, anche quelli di noi che sono preoccupati per il cambiamento climatico trovano difficile coglierne l’urgenza e agire in modo risoluto.
A coronamento di queste difficoltà vi è poi il fatto che il cambiamento climatico ha la struttura del più grande problema di azione collettiva del mondo: ciascuno di noi, agendo in base ai propri desideri, contribuisce a risultati che non desidera né intende ottenere.
Il cambiamento climatico è unico per scala e complessità; d’altra parte, noi abbiamo dimestichezza con problemi che hanno la stessa struttura, e in alcuni casi riusciamo anche a risolverli. Consideriamo un esempio familiare: il caso in cui ciascuno fa pascolare i propri animali su un terreno demaniale. Qui ognuno ricava benefici individuali mentre i costi sono distribuiti sull’intera comunità; tutti sono perciò incentivati ad aumentare le dimensioni della propria mandria. D’altra parte, se tutti agissero in questo modo, il terreno si degraderebbe e alla fine tutti patirebbero un danno. Questo risultato può essere evitato privatizzando il terreno in modo che ciascuno sostenga tutti i costi legati all’aggiunta di nuovi animali alla propria mandria. Altrimenti, si può fare appello al senso morale dei membri della comunità, affinché tutti agiscano nell’interesse comune. Questi approcci hanno successo, quando lo hanno, modificando la struttura degli incentivi per gli attori individuali. Con la privatizzazione, i costi in precedenza esternalizzati vengono incorporati nel processo decisorio di ciascun agente, così che l’aggiunta di ulteriori animali non sia più nell’interesse dei singoli. Appellandosi invece al senso morale, il costo viene associato alla violazione di una norma etica – passando per la coscienza, la disapprovazione della comunità, o l’istituzione di una sanzione legale. L’economia, che discuterò nel capitolo 4, ci aiuta a comprendere il primo approccio; l’etica, di cui parlerò nel capitolo 5, fa luce sul secondo.
C’è chi ritiene che il problema del cambiamento climatico sarebbe facilmente risolto con un approccio economico. Il problema deriva dal fatto che la gestione responsabile del cambiamento climatico produce un’esternalità negativa; chi beneficia di quel comportamento non ne paga il costo completo, parte del quale ricade invece su persone che non traggono benefici e non sono adeguatamente risarcite. Questo crea incentivi perversi, promuovendo condotte che inducono il cambiamento climatico. In linea di principio, sarebbe possibile ottenere un risultato più efficiente in cui vengano adottati comportamenti meno nocivi e in cui chi patisce un danno sia adeguatamente risarcito da chi ha tratto vantaggio dal comportamento stesso. Eppure, benché noi siamo spesso spinti da considerazioni economiche, in questo caso non agiamo in modo da raggiungere il risultato più efficiente.
Parte della spiegazione di questo fallimento rispecchia le ragioni per cui il consenso scientifico non produce azione: l’ignoranza dilaga, il sistema politico è sclerotizzato, la gente è ostile e diffidente verso le élite eccetera. Nella misura in cui prevale il negazionismo, poi, la questione economica diventa accademica: se non vi è alcun problema, allora non vi è nemmeno bisogno di soluzioni. L’economia patisce anche un’ulteriore dose di scetticismo: semplicemente, molti non credono che possiamo risolvere questo problema senza sacrifici. Gli stessi economisti hanno fatto moltissimo per oscurare un messaggio fondamentale, e cioè che agire sul cambiamento climatico è nel nostro interesse.
I conflitti tra gli economisti divennero particolarmente visibili e acuti nel 2007, con la pubblicazione del Rapporto Stern, una relazione sugli aspetti economici del cambiamento climatico indirizzata al governo britannico. Benché gli economisti americani mainstream – figure come William Nordhaus di Yale – siano convinti che dovremmo agire sul cambiamento climatico, di solito propendono per una risposta modesta rimandata il più possibile nel futuro. Il messaggio del Rapporto Stern era che invece dovremmo agire adesso, e che dovremmo agire in modo risoluto. Sia Stern sia Nordhaus invocano una tassa sul carbonio (carbon tax), ma quella caldeggiata da Stern è maggiore di un ordine di grandezza rispetto a quella di Nordhaus.
Al cuore delle loro differenze vi sono atteggiamenti diversi nei confronti del futuro. Entrambi sono d’accordo sul fatto che moltissime persone scontano benefici e costi futuri. Noi pensiamo che gli investimenti presenti saranno produttivi e che in ogni caso in futuro saremo più ricchi; spesso poi, semplicemente, preferiamo godere oggi piuttosto che domani. Di conseguenza, benefici e costi presenti hanno un valore molto superiore a benefici e costi futuri. Stern si dissocia da questo approccio. L’atteggiamento appropriato verso il futuro comporta una questione etica e sulle questioni etiche è possibile sbagliare proprio come si può incorrere in errori di ragionamento. Stern ammette l’esistenza di una preferenza temporale pura, ma respinge l’idea che questo debba riflettersi nei modelli economici. Il risultato di queste loro diverse metodologie è che Nordhaus applica un tasso di sconto relativamente alto, mentre quello di Stern è basso. La scelta di un tasso di sconto ha ripercussioni enormi su lunghi periodi di tempo perché sortisce una capitalizzazione. Con un tasso di sconto dell’uno per cento, tra un secolo un dollaro di oggi ne varrà 2,70; con un tasso del 10 per cento, ne varrà 13.780,60. Se i costi futuri del cambiamento climatico sono fortemente scontati, allora nel presente sono giustificati solo modesti investimenti per la salvaguardia del clima; ma se il tasso di sconto è basso, allora sono giustificate politiche aggressive.
Questa disputa non può essere risolta soltanto dall’analisi economica. Nordhaus ci deve spiegare perché siamo giustificati a scontare gli interessi delle generazioni future. Quanto a Stern, ci deve spiegare perché non rispetta le scelte reali delle persone. Entrambi sono invischiati nell’etica fino al collo.
Vi sono altri aspetti dell’analisi economica standard che presuppongono atteggiamenti normativi. La teoria economica standard assume che i panieri di beni siano sostituibili e commensurabili, il che sembra però assurdo. Chiedersi che cosa sia intercambiabile o paragonabile all’amore di mia madre, alla compagnia del mio cane o alla gioia di prendere un’onda perfetta con la tavola da surf è a metà strada tra lo sconcertante e l’oltraggioso.
Da sola, l’economia non può dirci che cosa fare di fronte al cambiamento climatico. Il problema fondamentale, con l’economia del clima, non è ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Presentazione: di Telmo Pievani
  5. Prefazione
  6. Abbreviazioni
  7. CAPITOLO 1: Un’introduzione
  8. CAPITOLO 2: La natura del problema
  9. CAPITOLO 3: Ostacoli all’azione
  10. CAPITOLO 4: I limiti dell’economia
  11. CAPITOLO 5: Le frontiere dell’etica
  12. CAPITOLO 6: Vivere con il cambiamento climatico
  13. CAPITOLO 7: Politica, idee e futuro
  14. Bibliografia